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Arte

Luca Salvagno

Si può epigonare l’inepigonabile?

Intervista a Luca Salvagno

Quand’era alle elementari, Luca Salvagno (classe 1962) scrisse una lettera a Jacovitti in cui si offriva come collaboratore. Anche se poi quella lettera non fu mai spedita, il suo proposito si concretizzò visto che a metà degli anni Novanta divenne colorista del Maestro di Termoli, per poi addirittura continuarne l’opera dopo la sua scomparsa.

Luca Salvagno è un autore eclettico che sa gestire sia il comico che il realistico, adattando il suo stile alle necessità della storia che deve raccontare. Esordisce su Il Messaggero dei Ragazzi negli anni Ottanta e in tempi recenti vi pubblica quel gioiellino che è El Sanguanel de Refavaie. È attivo anche nel campo dell’illustrazione e insegna al Liceo Artistico Ferrari di Este.

Per dare un’idea della sua meticolosità, basta ricordare l’aneddoto secondo il quale stava per acquistare una macchina da scrivere identica a quella usata da Gianni Rodari per poterla ritrarre fedelmente in un fumetto-omaggio allo scrittore!

Salvagno - Il Tesoro di CiproLuca Lorenzon (LL): Con quali fumetti hai esordito?

Luca Salvagno (LS): “Il tesoro di Cipro”[1] (10 tavole cineromanzo di Liana Videtta, una sceneggiatura che giaceva nei cassetti della redazione dai tempi dei “cineromanzi”…) è il primo fumetto professionale che mi hanno commissionato e pagato. Consegnato il 6 maggio del 1988 e pubblicato in luglio dello stesso anno dal Messaggero dei Ragazzi di Padova.
Ovviamente arrivare alla prima pubblicazione professionale è stato complicato. Considerando che non avevo nessuna formazione specifica anche se avevo una buona preparazione figurativa accademica… le impaginazioni, le soluzioni stilistiche… i ripassi! Mmmmhhh, tutto da maturare, tanto da acquisire. Da ragazzino Guido Sfriso, un caro coinquilino, maestro elementare ricco di inventiva e dalla battuta pronta (che aveva pubblicato un fumetto negli anni sessanta) mi aveva dato alcuni suggerimenti sul tratteggio a china. Per il resto è stata un’ardua scoperta, costruita sulla costante analisi degli errori. A partire dal 1988 mi furono finalmente sottolineati professionalmente dal carissimo e multifacente Pinù (Giuseppe Intini) che al MeRa era grafico, illustratore e fumettista. Nella mia infanzia e prima giovinezza non sapevo neanche esistessero le scuole del fumetto (in città lontane). Avevo sempre vissuto l’esperienza della comunicazione a fumetti come naturale, efficace e stimolante. Disegnavo di tutto, in tutte le maniere a me possibili. Immaginavo di raccontare visivamente (“fumettare”) i libri che preferivo con stili diversi, quelli dei disegnatori che mi appassionavano… questo alla Caprioli, quello alla De Luca, quest’altro alla Jacovitti. Uno stile mi è sempre andato stretto, anche considerando “l’immagamento” per Jac. Sentivo che ogni stile mi faceva percepire aspetti diversi di realtà, aspetti non sospetti, sfaccettature diverse. E più ne conoscevo più mi si espandeva l’immaginario. Che non se ne stava confinato “scatolocranicamente”, sgorgava come poteva sulla carta. Disegnavo per conto mio e per “conto terzi” a casa, a scuola e all’Oratorio. È stato automatico cominciare a riempire le parti grafiche sul giornale murale settimanale (“La Verìgola”) dai Salesiani. Come è stato automatico, in quarta elementare, cominciare a far parte della redazione del (molto localmente) mitico “Andando a Tòrsio” (“Andando attorno/in giro”) periodico (molto periodico) con tiratura di cento copie! Gli originali dovevano essere disegnati direttamente con la penna sulle matrici, niente matite… niente errori, possibilmente!  È stata la prima delle molte redazioni che ho, con gusto (anche molto) frequentato. Grazie don Gigi per il coinvolgimento (anche musicale, teatrale, umano, spirituale)!

Salvagno - Andando a Torsio

Per tornare alla tecnica, al Liceo Artistico ho avuto la fortuna di incontrare e condividere le scoperte del disegno accademico/classico con due talentuosissimi compagni: Guido Muneratto e Paolo Girardello. Quest’ultimo mi aprì alla fantastica visionarietà degli autori “Metallico Urlanti”… fu uno shock! Tuffare gli occhi, nei primi mesi del ’77, in alcuni numeri di Alter Linus dell’anno precedente. Quelli che contenevano il poderoso e magnetico Mœbius!!! Quelli con gli episodi di ARZACH e di THE LONG TOMORROW… ne porto ancora le “stimmate”. L’impatto visivo era stato così forte che ho ancora, a tutt’oggi, il desiderio ricorrente e fortissimo, di realizzare tavole spettacolari. Potenti come opere di dimensioni molto maggiori. Che meraviglia! Nel formatino più o meno A4 c’era (e c’è) condensata la forza di un Caravaggio, di un Rembrandt… di chi volete voi, ma che per esprimerla abbia utilizzato metriquadri di superficie. A spro/proposito, sono raccoglitore dichiaratamente feticista di alcune pubblicazioni particolari. Una di queste è proprio ARZACH. Ne ho molte edizioni diverse e di alcune ho anche più copie… e ne cerco ancora. L’anno scorso me n’è arrivata una molto particolare. Una prima edizione (’76) che era stata re-rilegata da una biblioteca francese dopo che l’uso ne aveva compromesso la leggibilità (scoperta fatta dopo l’acquisto)… una copia unica nel suo genere: aveva raccolto lo sguardo e stimolato l’immaginario di un numero significativo di persone. Non come quelle pubblicazioni che finiscono imbustate e nascoste! E in più (anzi in “meno”) era monca, mutila di alcune pagine…consumate (forse), smarrite, perse… boh! io le immagino rovinate, sì, ma svolazzanti da qualche parte dell’immenso Deserto “B”.

Salvagno - volume Moebius Arzach integrato

Mancava anche metà della tavola orizzontale del IV° episodio. L’unica “doppiatavola”. Non ho resistito, ne ho preso le misure (mancava “quella” pagina, non potevo farla in scala , come pretenderebbe la lavorazione “classica”) e l’ho completata. Mimando forme e colori per creare continuità con la metà esistente, però con soggetto e dettagli “a modo mio”… anzi “nostro” perché dentro ci ho messo un mostro ricavandone le fattezze da un disegno di una delle mie figliole. Degli altri “amuleti/feticci” (amulicci, fetuleti?) editoriali spero di aver l’occasione di riparlarne.

Salvagno - omaggio a JacovittiLL: Posso solo immaginare l’emozione di collaborare con Benito Jacovitti, mito di diverse generazioni di lettori! Come avveniva il lavoro e di cosa ti sei occupato principalmente?

LS: Tanta emozione! Era un sogno che si avverava in maniera inaspettata, anche se lungamente atteso e anche… “disatteso”. Quando ho incontrato Jacovitti, per “lavoro”, ero già abbondantemente adulto. Avevo 34 anni ma, quell’incontro, lo avevo fortemente desiderato per tutta la fanciullezza. Era rimasto un desiderio importante sì ma non “dominante”, non assoluto. Lo sentivo come un avvenimento che, comunque, sarebbe accaduto. Presunzione? Infantilismo? Inavvedutezza? Mah… non ci ho riflettuto troppo. Era uno dei tanti desideri che nutrivo di fantasie e di preparativi (non ho mai smesso di cercare, di documentarmi, di sperimentare. Di assaggiare il “Mondo Jac”). Altri desideri non si sono avverati… non ho conosciuto Lino Landolfi, Gianni De Luca. Ci avrei tenuto molto! Ma le attese nei confronti di Franco Benito Jacovitti le ho sempre portate con me… dalle elementari, al Liceo Artistico. Dall’Accademia alle prime attività professionali. Un “angolino” dove infilare qualche “jacovittata” lo trovavo sempre. Pubblicavo professionalmente già da qualche anno e il sogno/desiderio era sempre al suo posto… fino a che la “cosa” (la “faccenda”) che doveva “comunque accadere”, che mi “aspettavo” accadesse, non trovò più una sponda nella realtà… nel ’92 conobbi a Lucca Bogdan Bajalika. Seppi da lui che il figlio aveva cominciato a frequentare lo studio di Jacovitti… passai una notte insonne a digerire la notizia.
Da Cavazzano ebbi le prime informazioni, e i dati riguardanti l’esistenza del Club Jacovitti… Mi iscrissi subito, la mia tessera recava la data del mio compleanno, che bel regalo! Cominciai a essere presente alle varie edizioni di Cartoomics a cui il Club partecipava. 95/96/97…che giornate! Ero ospitato da Sergio Sciascia, il redattore del Messaggero dei Ragazzi con cui, in quel periodo, non solo collaboravo come esterno ma ero anche stato assunto come grafico illustratore con un part time speciale. I primi tempi fu di un giorno alla settimana!
Edgardo, Maria, i nostri carissimi vicini di stand alla Fiera… Italo Pileri e la cara nipotina! Poi c’era Gianni Boschetti. Le sue immancabili cartoline da spedire (e ricevere) da ogni manifestazione che visitava. Con Fiorenzo Grasso si andava a Porta Portese! Le cene del Club! I sogni del Club! Il presidente del Club!!! E la sua ricerca di un colorista…
Con lui ho collaborato come colorista. Fui scelto dopo alcune prove fatte con altri che non lo avevano soddisfatto.
La colorazione è la fase conclusiva della produzione delle tavole a fumetti, quindi lui mi inviava le tavole con le indicazioni e io, finita la colorazione, le reinoltravo alle case editrici. Prima la Bonelli e poi le Edizioni Paoline.
Il metodo di colorazione era quello classico, a inchiostri trasparenti sul retro delle tavole[2]. Lavoro svolto al tavolo luminoso. Franco seguiva con una certa apprensione gli spostamenti dei suoi lavori che, in effetti, di strada ne facevano veramente molta. Era sua abitudine telefonare e rendere le telefonate, eseguiti gli aggiornamenti sulle partenze e arrivi (di tavole da finire e finite), delle vere e proprie narrazioni… simpaticamente si dilungava a raccontare le vicende che i suoi personaggi si prestavano ad affrontare nelle vignette che aveva in realizzazione in quel momento.
Salvagno - autoritratto con rimandi a vari fumettiLL: Qual è stata la cosa più difficile nel riprendere il leggendario Cocco Bill?

LS: Inizialmente, senza dubbio, è stata quella di riuscire a rendere le “rotondità” dei personaggi. Una coerenza stilistica di sintesi, volumi e morbidezza che permettesse di far scorrere con curiosità e senza intoppi formali lo sguardo del lettore sull’intera superficie della tavola, delle vignette. Ho lavorato da subito senza cercare, nell’immenso repertorio visivo, le posizioni e le soluzioni specifiche (già canonizzate) per ogni atteggiamento dei corpi, per ogni dettaglio. Avrebbe rallentato enormemente l’esecuzione e avrebbe di sicuro rivelato con evidenza le parti “riprese” (copiate) da quelle realizzate con più libertà. Ho cercato di comprendere le proporzioni, i movimenti, le armonie compositive minime (volti, corpi, oggetti) e massime (tavole, vignette, paesaggi, interni) per evolvere il più coerentemente in un “manierismo” non rigido, duttile, espansivo. Talvolta sperimentale. Non sempre efficacissimo ma mai “stitico”, risicato o peggio… raffazzonato. Il ripasso jacovittiano è meticoloso, lungo. Con gli stessi strumenti e la stessa carta… cercando di seguirne i filoni umoristici e narrativi. Non semplice o pura imitazione ma partecipata interpretazione. Quasi delle “cover” fumettistiche. La memorizzazione era alla base delle scelte stilistiche. Operazione iniziata molto tempo prima della collaborazione. Frutto di un “richiamo” di una fascinazione irresistibile. Ho dei cari amici che mi hanno rimproverato per moltissimi anni di “epigonare” l’inepigonabile! Di sicuro avevano ragione, ma non mi sembra di aver tolto nulla alla varietà stilistica e figurativa con la quale, poi, sono cresciuto e mi sono espresso. A proposito di epigonare ad un certo momento, verso il ’96, ho avuto la fortuna di realizzare e pubblicare poche gustose tavole proprio su questo argomento: LIMULO UMILE EMULO. Pubblicate sul Messaggero dei Ragazzi e anche sullo Jacovitti Magazine. Tra l’altro ebbi il piacere di mostrarle a Morris e a fargli notare che in un saloon affollatissimo di personaggi che amavo, spuntava anche la capoccetta (e la mascellona) di uno dei mitici Dalton! Ne ricavai un commento molto lusinghiero, che terrò per me, visto che il mio confessore non mi perdonerebbe più ulteriori peccati di superbia!
Uno degli errori più frequenti rispetto alla collocazione dei volti jacovittiani era il giusto posizionamento del naso. La corretta curvatura dell’attacco al volto e della punta! Cambia molto l’effetto finale se non ci si occupa di queste minutaglie… lo ripeto sempre anche in classe che “la somiglianza” (nella ritrattistica) si gioca nei millimetri (e meno)!
Questo in riferimento al “nasone” tipico di Cocco Bill. Per le altre tipologie le difficoltà erano diverse, ma non vorrei cominciare a disquisire anche di “nasologia jacovittiana”… magari un’altra volta.
Dopo il primo impatto stilistico, durante gli anni successivi, la cosa più difficile è stata quella di “comprimerlo”. Di “stringere” il personaggio e le sue caratteristiche dentro spazi “contratti”, pigiati.  Nel corso degli anni il numero di tavole per episodio è diminuito, fino a trasformarlo in una serie quasi a tavola unica. La storia più lunga che ho potuto realizzare era, se non ricordo male, di 12 tavole. È vero che le storie monotavole andavano per filoni narrativi. La compressione quantitativa assieme anche alla necessità di ridurre moltissimo la parte scritta (proprio la quantità di parole presenti nelle nuvolette) poteva condurre al rischio di rendere il sapore del personaggio poco coerente col passato. Di tradire parecchio la poetica jacovittiana.
Lui sì, che sapeva esprimersi anche in tavole e strisce completamente mute…  Sigh!
Ma, per me, togliere ai personaggi, ai comprimari e anche alle comparse il gusto di commentare in mille dialetti e parlate strambe (sempre sorprendenti) è stato un limite difficile da affrontare. Ovviamente riuscito in minima parte. Impossibile (al sottoscritto)  riprodurre l’efficacia “paroliera” di Jac!

Salvagno - studio

LL: Oltre alla tua produzione umoristica hai sempre portato avanti parallelamente una carriera realistica. Da quello che ho visto io, mi sembra che ci siano delle parentele con De Luca e Toppi, entrambi collaboratori storici de Il Giornalino, non solo per la generosità dei tratteggi ma anche per la gestione della tavola. Hai effettivamente guardato il lavoro di questi Maestri oppure sei arrivato a elaborare un certo stile in totale autonomia?

LS: La passione del fumetto era nata un paio d’anni prima della “fulminazione jacovittiana”. Non avevo uno stile fisso neanche allora… mi piaceva fare cose diverse, anche molto diverse…
Nel ’90 pellegrinai a Lucca (la mia prima visita alla famosa manifestazione!).
Fui presente alla conferenza in cui Scarpa, Cavazzano e Corteggiani, dopo aver comunicato cose varie (e succulente) si dettero in pasto ai presenti. Nell’ascoltarli avevo caricaturato Giorgio e François. Al termine di tutto mi feci firmare le caricature con la promessa/minaccia di trasformarle in “belle copia” e inviargliele (con attaccato il mio corpaccione… in visita!). Raggiunsi Cavazzano, qualche mese dopo a Mira. Da quell’occasione Giorgio divenne un  riferimento importante per me e la mia professionalità. Con una frequentazione molto diradata ma con un afflato assoluto. Anche in questo caso l’incontro con l’autore arrivava dopo una lunga frequentazione delle sue tavole stampate. Il suo stile, anche se non “firmato” (dichiarato), era uno di quelli che seguivo con maggior voracità, fino dall’infanzia. All’epoca non mi interessavano  gli autori, mi piaceva lo stile dei personaggi. Era il mio preferito tra i disneyani (anche se Carpi…). La mia partecipazione alla vicende che lui metteva in scena era completa. La mimica dei personaggi, la dinamica dei corpi, lo svolgere delle situazioni compositive mi coinvolgevano in maniera totale. Entravo in piena risonanza (come i “neuroni specchio”) non solo emotiva ma anche… affettiva! Provavo un trasporto particolare per la sua Reginella (1972)… me ne ero infatuato (sono facile agli innamoramenti estetici, prometto/minaccio di stilare anche un elenco[3] delle mie “personagge” preferite e beneamate! Alè…). Da un certo momento in poi ho cominciato a trovare le storie di Giorgio anche sul MeRa, sul Mago e anche sul primo Alter Alter (e ancora dopo su Il Giornalino… con il bellissimo Rogers). Insomma, un autore importante prima e durante la mia carriera. Una delle sue pubblicazioni è l’origine dei miei “amuleti editoriali”, dei “totem comunicativi” che tengo in giro per lo studio, a portata d’occhio (e di mano): il numero 1657 di Topolino, quello con “CASABLANCA”. Lo colleziono in molteplici copie (e varie edizioni). Ne ho diciassette o diciotto e penso che ne acquisterò ancora! Me ne parlò lui, con entusiasmo contagioso, la prima volta che andai a casa sua. Era una meraviglia che aveva realizzato un paio d’anni prima… non ero un abbonato di Topolino. Aaargh! Non l’avevo letta! Mi misi alla sua ricerca. Non ho ancora smesso.
Amo quell’edizione iniziale, la prima. La stampa particolarissima: i colori della quadricromia per rendere il tono monocromatico, con tutta una gamma di seppia, grigetti, bruni. Non ho trovato due copie perfettamente identiche! Nelle vignette in cui i corpi in penombra (che bellezza!) hanno campiture di nero ampie, la stampa ha prodotto texturizzazioni, mancanze, “abrasioni” che le rendono uniche. Ne tengo una copia sempre esposta in studio, da molti anni.
Farò anche l’elenco[4] dei miei libri/feticcio, gli altri “amuleti”. Non sono molti ma sono sapidissimi!
A proposito di Lucca (e poi di TrevisoComics), nelle mie prime e fondamentali scorribande avevo un compagno d’avventure: Massimo Fuolega. Un caro amico appassionato quanto me della nona arte. Se ripenso a come abbiamo caricato l’automobile per il nostro primo ritorno da Lucca mi vengono i brividi (soprattutto al ricordo della spesa)! Brividi che mi colgono anche ripensando alle spese… non fatte (soprattutto di tavole originali, che all’epoca avevano costi ancora “umani”). Citerò solo per soffrire un po’ (occhio, arriva l’autolesionismo per i sensi di colpa…): la copertina di Cocco Bill e Occhio di Pollo! Una mezza tavola di Sherlock Time (Breccia Magister Sommo), i paginoni di Krazy Kat! Gli Steve Canyon! I Rip Kirby!!! Basta! Non reggo più…
Sono cresciuto usando stili diversi e amando autori diversi. Ho cominciato a usare i fumetti come gioco prima di diventare lettore “fidelizzato”, prima che i miei genitori abbonassero me e i miei fratelli ad alcune riviste (Il Messaggero dei Ragazzi e Il Giornalino. Poi, in edicola, cominciai a comprare Il Mago[5]). Ho sempre disegnato con stili diversi. Anche quando pensavo di trasporre a fumetti le mie letture preferite: Verne, Salgari, Dumas, R.C. Burroughs. E non era l’unica forma d’espressione che mi entusiasmava. Ho amato il disegno quanto la pittura, la scultura, il teatro, la musica, il cinema, la fotografia, la letteratura…
È con l’inizio dell’impegno professionale che mi sono dedicato maggiormente ad un linguaggio espressivo piuttosto che agli altri. È vero che ho cercato con insistenza questo specifico mestiere. Avrei potuto fare altre cose… ho ricevuto proposte concrete in altri ambiti. Ma il fumetto era un desiderio troppo forte. Per tornare agli stili… mi sono sempre confrontato col pensiero di acquisire uno stile “personale” e, col tempo, mi è parso sempre più evidente che per acquisire uno “stile” originale e riconoscibile si sarebbe dovuto far evolvere alcune scelte (e automatismi) formali e tecnici, fino a “canonizzarli”. Per alcuni questo avviene in maniera quasi spontanea, nella ripetizione dei gesti e dei soggetti. Per altri è la necessità di aderire a filoni professionali esistenti che “decide”. Per altri ancora sono le scelte, più o meno consapevoli, ad accompagnare alla originalità stilistica. Io ho cercato di fare attenzione alle cose che facevo. Appuntandomi idee e confrontandomi continuamente con colleghi (presenti o passati). In definitiva, però, c’è la necessità che i canoni accolti, scelti o programmati siano legati a progetti editoriali estesi e durevoli. Ho solo un personaggio che elaboro continuativamente dal 1995: fra Mignolo. Una “striscia” che per un poco si era ridotta a illustrazioni e che dal 2016  è “ritornata in tavola” per affrontare anche ministorie. Gli voglio molto bene ma non era il mio preferito. Non ho deciso io che dovesse essere così. La comunicazione è sempre una relazione di gruppo; la redazione e i lettori sono i fondamentali creatori delle storie, dei personaggi e degli stili.  L’autore da solo vagheggia comunicazioni, chi le realizza veramente sono i lettori.
I disegnatori che ho studiato di più sono:
Jacovittttttti, Caprioli, De Luca, Landolfi, Toppi, Uderzo, J. L. Salinas, i Breccia, Mœbius e il suo “singolo” Giraud, Battaglia, Hermann, Hogarth, Pazienza, Manara, Serpieri, Capitanio, Raymond, Foster, Caniff, McCay, Cavazzano, Franquin, Micheluzzi, Milazzo, Villa, e in tempi più recenti Sicomoro, Otomo, Murata. Non c’è autore che non sia fonte di scoperte e soluzioni formali.
Non credo nella totale autonomia e assoluta libertà, ogni linguaggio presuppone per forza dei “legami”. Su questi limiti si può costruire la più ampia sperimentazione espressiva “possibile”. Alcune porzioni della narrazione possono andare anche oltre (sopra o sotto) la “leggibilità” ma è una possibilità che ti viene concessa. Se nessuno è in grado di comprenderti e di seguirti, anche magari solo visivamente o solo narrativamente, la comunicazione… nun ce stà! Ennò.Salvagno - Lello Meteora striscia

LL: L’alternanza di stili diversi, anche all’interno dello stesso genere (Mik & Max sono diversi da Cocco Bill, ad esempio), è per te un’occasione per sperimentare costantemente o rappresenta di più una scelta di totale libertà, un’opportunità che ti concedi di non essere legato a nessuno stile predefinito?

LS: Sperimentazione o libertà?
Preambolo… da anni vado ripetendo (soprattutto alle povere creature che mi sopportano in classe) che “per spingersi verso la libertà (espressiva) bisogna avere ben chiari i limiti”. Limiti precisi, ben dettagliati sono la partenza più utile per intraprendere un percorso creativo efficace. Di ciò mi ha convinto l’esperienza e la conoscenza del santo metodo progettuale che tanto intelligentemente  ha consegnato alla storia il gentile Munari.
Se la sperimentazione di forme, tecniche e stili diversi rende chiaro, evidente ciò di cui sono capace e incapace: questo mi “delinea”. Sia come ideatore sia come esecutore. Che bello! Ecco i limiti da cui partire verso tutte le direzioni possibili, auspicabili, desiderabili e realmente percorribili. Lo stile personale, originale, è anche frutto del sapiente utilizzo dei propri “difetti”. Quelli che abbiamo solo noi e che ci caratterizzano. Gli stili canonici sono già stabiliti, sono collettivi, sono conosciuti e riconoscibili. Sono le nostre “difformità” (non completa aderenza ai canoni), le nostre incoerenze,  che possono innestare novità e originalità. Bisogna scoprirle e saperle usare. Anche.
Ogni autore raccoglie, modifica e riformula. L’efficacia o le novità apportate dagli autori dipendono dalla relazione articolata: pubblico/mezzo/strumenti/autori. La manifestazione di uno stile nuovo è l’evoluzione di una relazione propositiva. È il risultato di una intesa, di una “complicità” tra queste quattro componenti. Non può essere frutto solo dei desideri e delle capacità di un singolo o di un gruppo limitato (editori/autori). Men che meno delle mie, per quanto desiderio o buona volontà possa metterci. A metà degli anni novanta ero convinto di aver colto e riproposto uno stile originale (“l’imperiale maestoso” secondo le mie privatissime nomenclature appuntistiche) ma è uno stile che è naufragato da solo, dopo un po’ di anni per mancanza di continuità. L’ho ripescato più volte in illustrazioni successive. Ho almeno un collega che ha dichiarato d’essersi ispirato a quel particolare segno di ripasso… ma a tutt’oggi quello stile, quella “parte di me” è fuori della comunicazione. Un ramo evolutivo interrotto… niente style sapiens sapiens… il mio style è appeso ancora a qualche ramo… e se ne sta lì a farmi tanto “di ombrello” per la ricerca di originalità stilistica![6]
Come palestra di stile per i fumetti ho sempre usato le illustrazioni per le rubriche: quelle della posta, consumi critici, attualità… Ho provato molte cose diverse. Se qualche soluzione formale, nei dettagli, nelle proporzioni nella tecnica esecutiva dimostrava efficacia e/o piacevolezza passava alle illustrazioni successive. Partendo dalla tecnica degli “opposti”. Piedi grandi o piedi piccolissimi, occhi senza iridi o pupille senza cornea… ogni tanto dalle redazioni arrivava la “selezione innaturale”. Molto, molto efficace! Ho distillato così alcune caratteristiche che ancora oggi uso. Più che uno stile è una raccolta di modi possibili. Di particelle che semino nelle tavole, alla bisogna. Anche cromatiche e compositive.
Pensando ai linguaggi comunicativi… oggi che il pubblico e le pubblicazioni sembrano sfuggire dagli orizzonti della “massa”. Le migliaia di copie, le centinaia di migliaia di lettori le migliaia di migliaia di guadagni… (salvo estimabili e invidiabili casi). Ecco, ora, adesso… il desiderio e l’impellenza di sperimentare forme nuove di comunicazione visiva (in mezzi diversi dalla carta stampata) si fa sempre più impellente. È l’attualità, l’odiernismo, il Tempo che bussa alla porta… e che mi manca.

Salvagno - autoritrattoLL: Come hai detto, sei docente presso il Liceo G. B. Ferrari. In Italia, insomma, è difficile vivere di soli fumetti…

LS: Insegnare è stato per me un accadimento naturale. Raggiunto e mantenuto con impegno ma senza incredibile sforzo. Ho fatto alcuni anni di supplenze in discipline che amavo (Educazione Artistica alle Medie e Figura Disegnata alle Superori). Ho superato la selezione di un concorso pubblico con soddisfacenti risultati… anche se la prima cattedra libera al Liceo Artistico si è concretizzata diversi anni dopo. Nel frattempo ero stato assunto come “illustratore tuttofare” con un contratto da “grafico” nella redazione del MeRa. Impiego da cui mi sono licenziato per entrare di ruolo come insegnate di discipline pittoriche. Appena ho potuto ho chiesto il “part-time”, che ho tutt’ora.
Le cose che ho imparato a scuola, come insegnante, sono state moltissime. Ma la cosa fondamentale per la sintesi delle due professioni che esercito, ma che sono talmente adiacenti da fondersi nella proverbiale “medaglia” (chissà cosa dicono su Arturo della loro medaglia a sei facce?!?), la cosa fondamentale (cercavo di dire e poi mi sono perso… e pure adesso, uffa!) ecco la cosa più importante per me è il continuo scambio di immaginario. L’aggiornamento delle mie passioni e dei miei interessi in ambito visivo (soprattutto). Senza questo sarei nostalgicamente fermo alle acquisizioni fatte troppi anni fa… e sarei fuori dalla reale possibilità di comunicare oggi con le generazioni più giovani (e sempre talentuose).

Note:
[1] Da non molto ho scoperto che c’è stato un romanzo negli anni cinquanta (1957) che aveva lo stesso titolo. Scritto da Andrea Chosalland, edito dalla Salani e rieditato fino al ’71. Mi sa che la sceneggiatura a me affidata ne era un “qualche sunto” d’epoca… spero non un plagio. Non l’ho mai avuto tra le mani ma dalla immagine della copertina (intravista in rete) personaggi e scena sono moooooolto simili.  SIGH! Sono sicuro che nessuno in redazione nell’88 ne fosse a conoscenza. Direttore e redattore erano stati nominati da pochissimo e la dicitura “cineromanzo” nella sceneggiatura ne dichiarava apertamente la… ehm… veneranda età. Non ho mai conosciuto la sceneggiatrice (né visto altri scritti della stessa)… chissà… ho spifferato troppo? Vorrei veder voi, scoprire dopo quasi trent’anni che il vostro primo (minuscolo) lavoro professionale era nato da… Ehm… un idea… diciamo, “quasi” originale…
[2] Alla fine degli anni Novanta, Bonelli e Il Giornalino pubblicavano esclusivamente colorazioni digitali. Quindi le tavole jacovittiane, colorate sul retro (come 30 anni prima) servivano solo come indicazioni. Solo in questi giorni ho potuto veder stampati i “miei colori che nascevano dai suoi”, perché la Hachette ha ripreso dagli originali i colori “tradizionali” dati a pennello, al tavolo luminoso… ho provato una certa emozione. soprattutto nel constatare (per l’ennesima volta) che la colorazione data sul retro, difficilmente è perfetta. Ci sono sempre delle minute differenze tra le campiture di colore e i margini che li dovrebbero contenere. Penso sia quasi inevitabile. È un “saporino” di “manufatto” che rende più espressivo anche lo sbaglio. Comunque i colori sono morbidi, piacevoli.
[3] Valentina melaverde, Reginella, Petra Chérie, Susanna, Spugna, Nicoletta…
[4] Pinocchio/i, La ballata del mare salato, Michele Strogoff, Shakespeare a fumetti, Till Ulenspiegel, Arzach (ne ho dodici/tredici copie), Il maggiore fatale, La freccia nera
[5] Dal primo numero perché vi avevo scorto in copertina “Ahi Flitt” di Jacovitti. Avevo 10 anni e non era una rivista pensata per la mia età, penso. I miei genitori non mi fecero mai osservazioni ma quando cominciarono a uscire le rubriche più “adulte” le staccarono e me le consegnarono quando fui alle superiori. Che cari!
[6] In compenso non avere uno stile “riconosciuto”, che ti distingue dagli altri in maniera immediata, ti toglie dalla “responsabilità” di accontentare un pubblico specifico. Non c’è nessuno che si aspetta da te “quello” stile. Così non si tradisce nessuno. Questa sì che è libertà di scelta! Legarsi alle esigenze di una particolare narrazione e non alle aspettative di un pubblico “pregiudicante”. Eh? dai… così mi consolo di dover lavorare forsennatamente. Viva la libertà! Liber… tà… Sniff! BÙAHHHhhh!!!

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