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Scrittura

Psycho non abita più qui

Psycho non abita più qui

Disagio mentale nella serialità televisiva contemporanea

Dedicato alla memoria di Riccardo Visintin

Doctor HouseApriamo con la sigla iniziale della sesta stagione del Dr. House. House è in una stanza in isolamento al Mayfield Psychiatric Hospital. La scena stile videoclip sulla musica straziante dei Radiohead descrive il primo passaggio che House deve compiere per redimersi, nel doppio episodio Broken, a seguire. La disintossicazione dal Vicodin che lo ha portato ad episodi psicotici, e quindi nell’Ospedale Psichiatrico. Le scene sono strazianti, il dolore dell’astinenza, la contenzione, il trovarsi in mezzo ai pazienti psichiatrici. Durante l’episodio però House incredibilmente farà un percorso di redenzione, dopo una prima parte di provocazione continua al personale e di sfiducia, si avvicinerà ad alcuni pazienti, riuscirà ad empatizzare, e attraverso questo percorso, ad affrontare i propri fantasmi, che vanno al di là della psicosi da Vicodin, ma che ci raccontano dal suo sguardo il Dr. House che abbiamo sempre conosciuto, tossicodipendente da Vicodin con la scusa del dolore alla gamba, narcisista ego maniaco incapace di relazioni serene e di empatia verso i pazienti ed i suoi colleghi, geniale nel risolvere i più intricati casi medici. Un personaggio sfaccettato, come gli altri di cui andremo a parlare, non positivo o negativo, ma interessante, affascinante, tragico e ironico, irriverente, fastidioso, antipatico ma con spiragli di umanità. Chiaramente caratterizzato da disturbo della personalità oltre che dal narcisismo patologico e la dipendenza.

Spesso nella serialità tv statunitense il tema del disagio, mentale ma non solo, viene trattato in maniera molto contemporanea e innovativa, rispetto a quanto ha fatto il cinema mainstream americano da una parte, o il cinema e la serialità italiana ad esempio, dove prevale qualora si affrontino questi temi, un atteggiamento pietistico se va bene, o se va male si ricorre agli stereotipi del pazzo pericoloso e del “mostro”.

In molta serialità statunitense ma non solo, invece, il disagio comincia ad essere parte integrante del personaggio, svolge sì una funzione spesso narrativa e lo caratterizza molto, ma viene raccontata con un realismo nuovo, con i suoi lati tragici di sofferenza, ma anche con le sue possibilità di trovare un posto nella società, di svolgere un ruolo spesso significativo, di avere relazioni, di essere parte della comunità, di essere amato e voluto bene, o anche odiato, ma di essere in relazione – anche se come nel caso di House, relazioni spesso distorte e malate – ma questo essere in relazione scavalca lo schermo, e permette se non l’identificazione e l’immedesimazione (ciascuno ha i suoi piccoli fantasmi), la fascinazione e l’interesse da parte dello spettatore, che riproduce quella relazione possibile.

Sono diversi i modi in cui questo nuovo approccio si manifesta. Tratteremo qui solo alcuni casi diversi tra loro per dare un accenno del tema che meriterebbe una trattazione più approfondita.

ElementaryUn modo diffuso è quello che riguarda le varie manifestazioni a vari livelli di disturbi dello spettro autistico legati a serie poliziesche e thriller, dove i tratti autistici del protagonista gli permettono un’acutezza di osservazione, un’attenzione ai particolari e un’intelligenza fine che lo portano alla risoluzione dei vari casi. Spesso quindi si direbbe prenda la forma di una sindrome di Asperger, un autismo ad alto funzionamento. Fatto curioso è ritrovare i precursori di tale aspetto nella letteratura classica giallistica. Hercule Poirot era sicuramente un autistico, come Sherlock Holmes, che viene descritto anch’egli con le tipiche caratteristiche di cui abbiamo detto, più una mente brillante e acuta aiutata dalla cocaina. Anche lui presenta difficoltà di relazione interpersonale, ma proprio quelle difficoltà lo rendono fragile, tenero agli occhi dello spettatore nelle crepe in cui riesce ad avvicinare il prossimo. Ci sono più serie dedicate a un riadattamento moderno di Sherlock. Elementary è una di quelle dove i personaggi vengono stravolti, si mantiene l’origine inglese ma trapiantata negli States del protagonista, ex eroinomane anziché cocainomane, con forti difficoltà relazionali se non con poche persone fidate, un’intelligenza estrema e un’attenzione ai particolari. Curiosa la scelta di Watson, sua tutor nel percorso di cura che poi resta al suo fianco e lavora con lui. Donna indipendente e intelligente, che fa da argine a molte possibili cadute di Sherlock. Anche qui il personaggio conquista lo spettatore per l’arguzia della battuta sagace, ed anche per il lato tragico e ironico del carattere.

Il Detective Monk invece è una serie che vira il poliziesco verso la commedia. A partire dalla sigla, allegra e spensierata, impariamo a conoscere un uomo in fase di ripresa, distrutto dalla morte della moglie, chiuso in casa per anni, ora tornato a lavorare come detective appunto per le solite capacità di intuizione, attenzione al particolare e intelligenza nel risolvere i casi. Da sottolineare la bravura del protagonista, Tony Shaloub, che riesce a impersonare un personaggio che viaggia tra il comico, il ridicolo a volte, per le sue manie: il terrore dei microbi e gli immancabili fazzolettini ogni volta che tocca qualcuno o qualcosa per disinfettarsi, e l’aspetto tragico del non riuscire a uscire da dei loop autistici, quali spegnere la luce, rientrare, riaccenderla e spegnerla e andare avanti così per dieci minuti. La novità di Monk sta nel tono della narrazione e nel riuscire a coniugare aspetti comici e tragici del disagio mentale del protagonista, che comunque instaura relazioni significative con la sua infermiera che prende le veci della sua collaboratrice, e del capo della polizia che diventa suo stretto amico.

Bates MotelProviamo a tornare ad un punto critico, che ha messo in difficoltà questa disamina, perché ambivalente e forse punto di svolta. Bates Motel, il prequel di Psycho, fantastica serie con attori fantastici. Perché una parentesi la si deve fare sulla riscossa degli attori e degli sceneggiatori nella serialità, rispetto alla centralità dei registi nel cinema. Sono sceneggiatori e attori ad avere la meglio. Qui abbiamo un giovane con un leggero disturbo della personalità, molto dolce nelle sue fragilità che ci fa empatizzare con le vicende che lo accompagnano, vicende tormentate di una famiglia tormentata; di una madre, l’attrice Vera Farmiga, bellissima e seducente. Donna che instaura con il figlio un rapporto di complicità e di simbiosi, donna che mostra anch’essa segni di disturbi psichici soffocati. Potremmo quindi annoverarlo in questa nuova onda di racconto, uno Psycho non mostro ma condotto alla follia dall’ambiente, dalla società, da ciò che attraversa. Se non fosse che invece la serie, risultando ancora più inquietante, introduce in vari episodi una precoce predisposizione del ragazzo agli scatti violenti e alla psicosi che ci lasciano interdetti. E affascinati.

Chi mette invece al centro una specifica diagnosi, tanto cara al cinema mainstream, è United States of Tara. Come ci dice il titolo geniale, si tratta del disturbo dissociativo di personalità multipla. Nel cinema mainstream abbiamo casi continui nel thriller, e non si sa perché una delle personalità debba essere per forza un assassino. Nella realtà si tratta di un disturbo davvero raro, per fortuna. United States of Tara ce lo racconta nei termini, potremmo dire, di una commedia divertente, di una madre con due figli; famiglia che vive con serenità la condizione della madre; i figli forse non esprimono poco più di un leggero imbarazzo ai cambi di personalità radicali della protagonista. Il tono è appunto quello delle situazioni farsesche e comiche che derivano da questo disturbo, niente di più.

Nessun efferato omicidio, nessuna personalità malvagia che cerca di prevalere, solo una persona semplice, con una famiglia, che cerca di vivere come meglio può la sua condizione.

Ci sono poi in altre serie dei personaggi marginali, come il fotografo schizofrenico nella serie Dirt ambientata nel circuito del gossip e della moda. Fotografo geniale, che talvolta rifiuta di prendere le sue medicine, e cade quindi in crisi psicotiche. In un mondo che immaginiamo spietato e dettato da ritmi frenetici, la direttrice della rivista ha un rapporto di totale rispetto e pazienza con il suo fotografo preferito, si prende cura di lui, gli dà il tempo per riprendersi e tornare a fare il suo lavoro.

Anche qui attenzione, non giudizio, inserimento nel tessuto sociale.

Babylon BerlinQuesta tendenza prende piede anche in serie europee, per brevità ne citiamo una tedesca alla fine, Babylon Berlin. La serie tratta dai libri del giallista Volker Kustcher, ambientata tra il 1929 e il 1934, ha come protagonista Gereon Ruth, commissario di polizia alle prese con intrighi internazionali post e prebellici, pornografia, la vita notturna della Berlino del tempo, l’ascesa del nazismo. Fin da subito il protagonista ci fa intravvedere nel suo passato dei traumi mai risolti, famigliari prima e poi personali, legati alla guerra. Soffre si direbbe oggi di stress post traumatico, ha dei flashback potenti che lo disorientano, e che tiene a bada con uno strano farmaco che ottiene sottobanco da una farmacia equivoca.

Spiace che l’Italia della rivoluzione permanente Basagliana, delle parole d’ordine di non giudizio, cura e presa in carico totale e inserimento nella comunità non sia ancora riuscita a permeare la narrazione seriale di questi temi, spesso lasciata o al pietismo o alla demonizzazione.

Si spera si possa trovare presto una via autonoma italiana allo storytelling del disagio mentale nella serialità mainstream, cosa che si è fatta sicuramente in alcuni film d’autore, ma qui premeva affrontare il racconto popolare che oggi assume la forma della serie tv in maniera prevalente.

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