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Scrittura

Un poeta neovolgare (II)

Segue da Un poeta neovolgare (I)

Capitolo secondo. La poetica

“La poesia riflette su se stessa; e si tratta di trovar le vie dell’operare, e tutto ciò che per questa strada vien promosso ha qualche rapporto — e direi proprio rapporto costitutivo — con quella istanza che di solito viene indicata con il termine, ricco di storia, di poetica”

Luciano Anceschi, Gli specchi della poesia

Quadro di Scatagli

Entriamo nel vivo dell’indagine sulla poesia di Franco Scataglini, partendo dall’analisi di un testo, contenuto in So’ rimaso la spina, che rappresenta in realtà una vera e propria dichiarazione di poetica:

Vita e scritura

Per me vita e scritura
ène compagni, el sai,
tuta scancelatura
dopo dulor de sbai.

Se cerca ’n sòno lindo
drento de sé e se trova
el biatolà d’un dindo
spèrsose ’nte la piova.

Innanzitutto balza agli occhi del lettore la sconcertante somiglianza linguistica con l’italiano. Tranne “biatolà” (“lamentarsi”), “dindo” (“tacchino”) e “piova” (“pioggia”) il lessico così come la sintassi non si discostano molto dalla lingua nazionale. Le uniche differenze, neanche troppo accentuate, si avvertono dunque sul piano fonetico e morfologico: lo scempiamento delle doppie, gli arcaismi “ène” per “sono”, “el” per “lo”, “sòno” per “suono”, ecc. Niente più che “metaplasmi” (alterazioni fonetiche o morfologiche di un elemento linguistico) della lingua italiana, come amava chiamarli Scataglini (un’approfondita analisi linguistica verrà effettuata nel prossimo capitolo). Perché dunque affidarsi a uno strumento linguistico così simile all’italiano eppure tanto meno prestigioso? Una serie di ragioni concorrono alla soluzione del problema e, come vedremo, possono essere tutte individuate a partire dai versi citati. Scataglini stesso li ha già portati ad esempio per spiegare il rapporto tra lingua e dialetto nella sua vita personale e mi servirò delle sue dichiarazioni per aiutarmi nell’analisi.

“Per me vita e scritura/ ène compagni, el sai”: a prima vista si potrebbe pensare a una reviviscenza dell’estetismo di inizio Novecento. In parte la considerazione coglie nel segno: come abbiamo già detto in precedenza, un’ala della poesia neodialettale, di cui Pasolini è l’iniziatore e Scataglini sicuramente uno dei maggiori esponenti, si ricollega alle poetiche simboliste e decadenti, a un’idea di poesia assoluta; ma la questione risulta essere ben più complessa — basti considerare i versi che seguono: “tuta scancelatura/ dopo dulor de sbai”. Ascoltiamo Scataglini: “avevo cominciato a scrivere [versi dialettali] al principio degli anni ’60 […] sebbene non li considerassi e continuassi a comporre versi in lingua, volgendo lo sguardo all’immaginario di una Poesia Assoluta di fronte alla quale mi sentivo come ‘un guitto sul proscenio del divino’”[1]. Se il diktat dell’estetismo, dunque, era “fa della tua vita un’opera d’arte”, i versi citati sarebbero il segno di un’incapacità, di un cronico fallire.

Quadro di Klee

Scataglini ha un profondo senso estetico (ne sono testimonianza il giovanile e istintivo amore per Montale, per i simbolisti francesi, dei quali per altro comprendeva soltanto le sonorità non conoscendo il francese, e per la pittura di Paul Klee), ma quando cerca la propria parola trova dentro di sé solamente il “biatolà d’un dindo”. Il “dulor de sbai” era provocato, nella sua giovinezza, proprio dall’incapacità di usare l’italiano correttamente e correntemente: “mia madre aveva fatto la sesta elementare, una rarità in quel luogo (Vallemiano, alla periferia di Ancona, n.d.a) dove non si andava mai al di là della terza, talché l’avevano chiamata la ‘signorina’. Lei stessa parlava in dialetto […] Eppure cercò di istillarmi il sentimento di una perfezione che non tollerava errori. E il dialetto anconetano, rispetto alla lingua nazionale, è pieno di ‘sfrondoni’ […] sbagli di grammatica o di sintassi in uno che si sforza, senza basi culturali, di parlare bene […] presi a reprimerlo in me fin dal primo anno di scuola, quando imparando a scrivere le prime parole e i primi pensieri, cercai sempre di evitare i tragici e avvilenti luoghi della vernacolarizzazione”[2]. Subito dopo aver confessato ciò, Scataglini cita i versi in questione.

1. Je ne sais plus parler

Quindi Scataglini, da un lato, si distacca dall’estetismo per il rifiuto di ogni orgoglio aristocratico e di raffinatezza estetica, mentre, dall’altro, potrebbe ricordare il je ne sais plus parler di Rimbaud (a cui, peraltro, si era già richiamato Pasolini[3]), ma solo apparentemente, come vedremo tra un attimo. Non c’è in lui quella convinzione crociana di un Marin o di un Pierro nella poesia e nel dialetto considerato esclusivamente come lingua della poesia; in Scataglini è presente più che altro la sensazione di non saper parlare la lingua colta. E di ciò non viene incolpata in prima istanza la lingua, quanto il suo rapporto pratico con la lingua. Ed ecco perché il suo non è propriamente l’esistenziale je ne sais plus parler rimbaudiano, il balbettio metaforico di chi non sa spiegarsi la condizione umana di debolezza e rimorso; una lettura del genere sarebbe possibile solo se si astraessero i versi dalla poetica e dalle condizioni particolari di vita che li hanno prodotti, e si considerassero il “dulor de sbai” alla stregua del rimorso rimbaudiano e il “biatolà del dindo” del balbettìo del mendicante (il che resta comunque plausibile se non si escludono gli infiniti livelli di lettura di cui dispone un’opera d’arte[4]). Scataglini appartiene a quella nuova classe di intellettuali provenienti dagli strati bassi della popolazione, nata con il diffondersi dell’istruzione e delle possibilità d’avanzamento sociale e culturale nel secondo Novecento (“No de raza padrona/ io so’ no de servile,/ i grasciari d’Ancona/ m’ha fatto da covile”, da Strofe per un’autobiografia in So’ rimaso la spina). In quanto appartenente a questa classe egli non ha, all’inizio della sua formazione intellettuale, una conoscenza “intima” della lingua oltre che della tradizione letteraria italiana, che non sente pertanto come proprio patrimonio. Dice, sempre a proposito dei suoi versi giovanili in lingua: “riciclavo. Rimettevo in circolazione un linguaggio che non era del tutto mio, che non era posseduto , di cui non avevo nemmeno totalmente il senso…” (E). Egli avverte una frattura tra sé e la lingua della tradizione, delle classi dominanti (come dirà in altre occasioni), ma sceglie di non ignorarla, di non rischiare di compiere per tutta la vita esperimenti in lingua insoddisfacenti. Sceglie di dare espressione al “biatolà”, al lamento[5].

2. Coscienza dialettica

Scataglini si accosta al dialetto con la consapevolezza che esso è la lingua di chi è stato condannato dalla storia ad essere muto. Il dialetto, soprattutto quello anconetano e con lui tutti i dialetti periferici, non può dare testimonianza di sé al mondo e alla storia: assumerlo come codice poetico, e farne oggetto di conoscenza, significa dunque riscattare la vita offesa dall’organizzazione sociale del lavoro, dare voce a chi non l’ha mai avuta. Ma proprio il dialetto, stando alla concezione adorniana, conserva in sé le tracce, oltre che della condizione del vinto, anche del vincitore, è per così dire espressione della sua vittoria: è per questo che sarebbe reazionario contrapporlo alla lingua scritta, alla quale invece “ozio, e perfino superbia e arroganza, hanno conferito un carattere di indipendenza e d’autodisciplina, che la mette in opposizione all’ambiente sociale in cui si è formata”, scriveva Adorno. Ecco allora che Scataglini, consapevole di tutto ciò, non si limita a una riproduzione anacronistica del parlato, ma rovescia Adorno redimendo il fantasma di questa lingua dannata, bandita dalla Storia, resuscitandola a un’esistenza gloriosa, grazie alla donazione di elementi colti e alla trasfigurazione melodica. Così facendo non tradisce i principi della dialettica negativa, poiché non contrappone ma dà testimonianza (testimonianza d’arte, frutto di “ozio, e perfino superbia e arroganza”, “indipendente e autodisciplinata”), e nel far questo risponde indirettamente anche all’invito di Adorno a seguire l’eredità di Benijamin: “la storia finora è stata scritta dal punto di vista del vincitore e deve essere scritta da quello dei vinti” (af. 98). È quanto si legge nella nota bio-bibliografica a E per un frutto piace tutto un orto, redatta da Plinio Acquabona: “Si trattava di inventare una scrittura popolare e colta a un tempo […] fuori dagli schemi […] di buoni sentimenti tradotti nella parlata improbabile di chi è stato più veritieramente condannato, dalla divisione del lavoro, ad essere muto”[6]. Del resto Scataglini non è stato il primo a tentare un’operazione di questo tipo ed è lui stesso a riconoscerlo, quando dice di amare Noventa “per la sorpresa del suo italiano-veneziano” e Giotti “per il suo spoglio triestino (sfrondato di ogni sovrappeso tipologico)”[7].

Forse si potrà eccepire sull’inserimento in una storia della letteratura italiana di Tessa a fianco di Montale, dato il volontario utilizzo da parte del primo di una lingua (il milanese) profondamente differente (non però separata!) dalla lingua della letteratura italiana, ma cosa si farà di poeti come Noventa, Giotti e Scataglini che con quella lingua fanno effettivamente i conti e scelgono di avvicinarvisi il più possibile allontanandosi dai rispettivi vernacoli? In poesia, differentemente dalla prosa (sempre che non sia prosa d’arte), si è sempre teso, soprattutto in Italia, alla costruzione di una lingua codificata, profondamente diversa dalla lingua parlata (già al tempo dei volgari). Non ha forse fatto la stessa cosa Montale, partendo dall’italiano parlato e dotandolo poi di arcaismi e cultismi? Così la base linguistica di partenza di Scataglini è un vernacolo assai simile al toscano (sulla natura dell’anconetano torneremo a discutere nel prossimo capitolo), quasi un italiano regionale, da cui il poeta ricava una lingua d’arte che non necessita di alcuna traduzione a fronte e che ha quindi tutti i diritti di trovarsi in una storia della letteratura italiana e magari di metterla ulteriormente in crisi con la sua presenza. A meno che non si vogliano riproporre anacronistiche posizioni puriste.

3. Coscienza poetica

Scataglini, dunque, per una sorta di incolmabile “dulor” derivato dalla consapevolezza di non possedere “intimamente” la lingua, decide di dare espressione a quel “biatolà” (il dialetto stesso probabilmente) che trova in sé al posto del “sòno lindo” che cercava, pur sentendo una forte esigenza estetica, la stessa esigenza che non aveva concesso a Pascoli e Gozzano di compiere la medesima scelta. Sempre a proposito degli scrupoli “estetici” nell’assunzione del dialetto, sono ormai celebri le pagine di Pasolini in cui egli ipotizza un desiderio represso di Pascoli di usare il dialetto, desiderio soddisfatto invece dai dialettali pascoliani del primo Novecento. Non sarà necessario ripetere quanto ci sia di parziale in questa ipotesi (Pasolini trasferisce su Pascoli le proprie istanze poetiche?), ciò che importa sottolineare è come il poeta neodialettale avverta la sostanziale differenza tra sé e i simbolisti e decadenti fin de siecle: la scelta del dialetto. Ma come può allora chi, come Pasolini e Scataglini, possiede un forte senso estetico compiere questa scelta? Fu Mallarmé a sancire il diritto del poeta a crearsi una propria lingua: Scataglini appaga dunque il suo senso estetico elaborando una variante preziosa dell’anconetano o, a seconda dei punti di vista, dell’italiano.

All’assunzione definitiva del dialetto come “lingua della poesia” Scataglini giunge dopo un ventennio di studio “matto e disperatissimo” da autodidatta, in cui matura una profonda coscienza del fare poetico che gli permette di arrivare a distinguere nettamente gli elementi musicali del dialetto e le sue modalità d’impiego. Questo grazie soprattutto, per sua stessa ammissione, alla lettura dei saggi di Pound e delle poesie casarsesi di Pasolini. Da Pound, oltre a quanto già detto nel capitolo precedente, ricava probabilmente l’idea oraziana che il ruolo del poeta sia quello di dimorare la “sottigliezza”, di dare conto dello “scarto” nelle “sfumature dell’espressione verbale”[8], il che peraltro rappresenta un’ulteriore giustificazione (esplicita stavolta) dell’uso di un dialetto così prossimo alla lingua. Ne Lo Spirito romanzo di Pound si ritrova infatti lo stesso concetto, nel capitolo dedicato alla psicologia dei trovatori, riferito alla missione del poeta: conquistare l’immortalità attraverso l’espressione il più possibile “precisa” di qualsivoglia tema, cosa che “non si trova tanto nelle parole […] quanto invece nelle sottili giunture, o venature, che solo chi sia dell’arte sa percepire”[9].

Ritratto di Pound

La scelta del dialetto si carica quindi di motivi “estetici”, non più solo esistenziali o sociologici. E il suo uso, “esteticamente” motivato, diviene imprescindibile. In altre parole, all’orecchio del poeta maturo il termine dialettale rivela ora una sua particolare nuance, che non permette di rendere il suo significato in altri modi, di sostituirlo cioè con la sua pedissequa traduzione in italiano, anche quando l’espressione dialettale sia molto vicina a quella della lingua, come nel caso dell’anconetano o del romanesco. In un testo del 1989, intitolato proprio La “nuance” dialettale, Scataglini, citando due versi di Marco dell’Arco (“Er vento de la pianura/ batte ar filo spinato”, da Tormarancio), spiega: “Rispetto alla lingua lo scarto è minimo ed è marcato dai tratti distintivi e /i e r /l in due granuli della sequenza. C’è come la palpebrazione di una nuance che alterando minimamente due sintagmi, uno nel primo e uno nel secondo verso, dà espressamente luogo a un inedito effetto di senso […] lo schema allitterante [er-ur-ar] e paronomastico si risolve in tropo con uno spostamento dal piano morfologico a quello semantico: la sequenza er-ur-ar funge da vero e proprio incastro tra le parti forti dell’enunciato: vento, pianura, battere, filo spinato; e la vibrazione in r che lo percorre diventa l’immagine acustica di un brivido d’aria pei ricinti di un esilio malinconico e lacerato. Proviamo a sostituire la r con l’altra liquida, la l; e la [a ] con la i: Il vento della pianura/ batte il filo spinato. C’è come uno slegamento delle parti: la connessione tropica regredisce a connessione morfologica, e i due versi si afflosciano l’uno sull’altro come due stracci. Se tutto ciò sembra troppo sottile, diremo che l’estetica è l’ambito delle sfumature del senso. E che un dire fuori dall’estetica può essere tutto fuorché poesia”[10].

Abbiamo citato questo lungo passo, oltre che per esplicitare ciò che il significato di “nuance dialettale” per Scataglini, anche per mostrare la sua dimestichezza con il linguaggio del critico, il che peraltro conferma, per l’ennesima volta, l’importanza dell’elaborazione critico-teorica nel lavoro del poeta moderno (continuamente ribadita in passato da Luciano Anceschi in polemica con lo “spontaneismo” crociano e ripetutamente indicata da Mengaldo quale novità della poesia novecentesca, assieme all’attività traduttiva). Tutto ciò ad onta di chi ancora ritiene il poeta dialettale in sé un attardato e un nostalgico dell’ingenuità poetica.

La concezione di Scataglini della nuance dialettale, a dire il vero, può essere ricollegata alle concezioni simboliste della poesia pura: la musicalità delle parole è carica infatti di una “sfumatura di senso”, diviene “sema”; ma con una differenza: il senso celato nella particolare pronuncia non è quello cosmico o panico, comunque metafisico, di tanta poesia simbolista (dei nostri Pascoli e D’Annunzio ad esempio), è piuttosto quello esistenzialista di una parte della poesia del Novecento, da Gozzano a Montale a Caproni. Inoltre, c’è in Scataglini la consapevolezza, assente o rimossa in tanti simbolisti e post-simbolisti, che “questa differente musicalità che percorre i dialetti non è tuttavia astraibile dai reticoli socio-linguistici all’interno dei quali, distintamente, essi assumono la loro identità (da questo punto di vista l’uso del dialetto come lingua della purezza supplementare, per una poesia, come dire, ‘più poetica’, mi sembra un banalissimo miraggio)”[11]. La r di Dell’Arco è, per Scataglini, “la pronuncia struggente dell’esistenza reclusa e separata cui i segni di vita offesa non interdicono lo sguardo e la coscienza degli spazi liberi”[12]. C’è insomma una concezione materialista alle spalle che non abbandona mai la poetica di Scataglini e infatti, dopo le parole riportate, compare di nuovo citato Adorno, contrapposto nell’occasione a Borges “grande scrittore , ma non proprio un ingegno dialettico” secondo il quale “niente è più pericoloso (per gli effetti parodici che trae inevitabilmente a sé) dell’uso letterario di un vernacolo troppo simile alla lingua”[13].

Non è infatti il comico che si cela nella pronuncia dialettale (il comico, aggiungiamo noi, è semmai l’effetto prodotto dall’uso che se ne fa, come ad esempio quando lo si contrappone alla lingua) ma una tragica “disperazione”. Scataglini cita un passo dell’aforisma 72 di Minima moralia in cui Adorno rivela “le determinazioni necessarie e profonde” di un suo lapsus dialettale, di un congiuntivo “risibilmente falso di un verbo già di per sé non proprio del tedesco puro” usato già nell’infanzia: “la malinconia, che mi trascinava irresistibilmente giù nell’abisso dell’infanzia, ridestò sul fondo l’antico suono impotentemente struggente. Come un’eco la lingua mi rimandò l’umiliazione che l’infelicità mi recava scordando ciò che io sono”[14]. Scataglini come Saba riconosce i motivi inconsci che si nascondono nella parola, non nega il razionalismo che li stana, non ha quasi più niente a che fare con l’ermetismo, e neanche con il simbolismo, la sua poetica si sostanzia, oltre che delle teorie estetiche e della tradizione poetica romanza, della dialettica negativa della Scuola di Francoforte. Dalla fine degli anni ’70 anche la psicanalisi apporterà il proprio contributo.

4. Pasolini-Gramsci / Scataglini-Adorno

Prima di parlare degli apporti della psicologia freudiana e junghiana nell’opera di Scataglini, dovremmo soffermarci a riflettere sul rapporto di Scataglini con Adorno. Viene subito alla mente un’altra relazione, quella tra Pasolini e il pensiero di Gramsci. Nel saggio La confusione degli stili («Officina», 9-10, 1958) Pasolini si interroga su quale lingua si possa fondare la “nuova poesia” (specchio della “nuova cultura”, ovvero la cultura marxista anni ’40-’50): non potendo contare né sulla “koinè strumentale”, creazione della borghesia conservatrice, “la lingua dei giornali, dei rapporti pratici interregionali”, “l’italiano insomma della piccola borghesia che va al potere”, né sul “gergo letterario” delle élite culturali, appartenenti alle “avanguardie borghesi”, “un’innovazione letteraria determinata da una nuova cultura nel suo farsi, dovrebbe presentarsi come atto politico contrario ad ambedue queste tendenze”.

PasoliniPasolini parla qui dell’impegno morale ispirato in lui dall’esempio di Gramsci, dalla sua concezione del pensiero marxista, che lo ha portato a rinunciare alla “libertà stilistica” novecentesca, all’assunzione mallarméana di una “lingua privata” della poesia, per un nuovo sperimentalismo stilistico che presupponesse “una lotta innovatrice non nello stile ma nella cultura e nello spirito”[15]. Gramsci è dunque nel contempo, per Pasolini, esempio di intellettuale impegnato nell’elaborazione della nuova cultura ed esempio di pensatore isolato, “tanto più libero quanto più segregato dal mondo, fuori dal mondo, in una situazione suo malgrado leopardiana, ridotto a puro ed eroico pensiero”[16]; quel Gramsci “carcerato” insomma a cui Pasolini si sente particolarmente affine. Pasolini, insomma, avverte in sé, all’epoca del saggio citato, un atteggiamento che lo allontana dallo “sperimentalismo novecentesco”, lo avvicina al pensiero marxista, ma lo tiene distante da una sua ortodossa assunzione, mantenendolo in quel difficile e “frustrante” stato d’indipendenza, così simile a quello gramsciano. Ma questo marxismo del secondo dopoguerra può ancora contare su una radicale fiducia nella potenza trasformatrice del reale propria del proletariato.

L’indipendenza di Adorno e Scataglini è invece dal socialismo reale, e consiste in un atteggiamento profondamente critico nei confronti del marxismo applicato. In Adorno ciò trae fondamento da considerazioni filosofiche riguardanti l’imposizione violenta delle ideologie (fossero anche “positive”, come quella illuminista e quella comunista), mentre a Scataglini deriva dalla sua stessa esperienza, dal viaggio del 1951 in Russia. In Adorno e Scataglini c’è dunque tutto lo sconforto e il nichilismo del pensiero tardomarxista, anti-sovietico, che ha ricondotto in molti casi l’arte che da esso prende spunto ad atteggiamenti d’inizio secolo, individualistici, soggettivistici, oltranzisticamente avanguardisti. Alcuni conoscono l’estetica di Adorno e sanno come egli fosse radicalmente modernista, per un’arte che non scendesse affatto a patti con l’industria culturale, il che vuol dire con la cultura di massa e con la società dello spettacolo. Scataglini invece si pone da un altro punto di vista: l’arte per lui non deve essere necessariamente indecifrabile, ostica, l’importante è che contenga in sé il seme della condizione umana, specialmente degli umili, dei “dannati dalla storia ad essere muti”, “perché esse muto è ‘l tema/ de vive in tanta gente” (M’hai lasciato un giardì in F). Scataglini quindi accoglie ad un tempo l’invito di Adorno a raccogliere l’eredità di Benjamin — a scrivere la storia dal punto di vista dei vinti, dando insieme espressione al lapsus della disperazione — e l’essenza politica del programma pasoliniano fondato sul connubio nuova cultura-nuova letteratura: “Il dialetto, dunque, come lapsus della disperazione? E questo non è già un seme di poetica (e di politica)?”[17]. In Scataglini, come sottolinea Raffaeli, c’è la volontà di “compiere una permuta di alto e basso, di corpo e psiche; in altri termini cerca una voce per ciò e per chi non ha mai avuto voce”[18].

5. Il dialetto come lapsus della disperazione

Ora veniamo al rapporto tra la poetica di Scataglini e la psicanalisi. “La mediazione tra la realtà e la poesia è l’immaginario: un poeta — se è poeta — si colloca rispetto alla realtà con la mediazione del suo immaginario scegliendo le forme a lui congeniali”[19]. Franco Scataglini ha iniziato attorno al 1980 una collaborazione professionale con il dottor Carmine Grimaldi, medico psicoterapeuta della scuola Maya Liebel, operante ad Ancona: assieme a Francesco Scarabicchi, altro poeta di Ancona, hanno fondato la casa editrice Residenza, iniziando le pubblicazioni nel 1982 con l’edizione di Carta Laniena, il terzo libro dialettale di Scataglini, il segno di una svolta. In questo libro (dedicato proprio a Grimaldi) il poeta attraversa infatti l’universo del dolore e della lacerazione, simboleggiato nel suo immaginario proprio dal macello (laniena è voce latina che sta per “macelleria” e “lacerazione”: “El nudo mattatoio” era una presenza fisica nell’infanzia del poeta, si trovava infatti vicino alla sua abitazione). A questo approdo Scataglini giunge “a conclusione d’un personale lavoro nel setting analitico, la cui intrapresa data grosso modo alla stampa del volume precedente [So’ rimaso la spina, 1977]”[20].

L’idea dell’“immaginario” come mediazione tra il poeta e la realtà risulta essere dunque, da quanto appena detto, di probabile ascendenza psicanalitica. Torneremo su questo punto. È interessante nel frattempo notare come Scataglini tenti addirittura, nel 1980, di abbozzare una teoria della poesia dialettale a partire proprio da un’analisi psicologica del fenomeno e dell’idea che se ne ha.

Nel capitolo intitolato Il fico d’India [21] del già citato saggio La cerimoniosa mascherata egli riporta le definizioni di poesia dialettale date da Contini e Mengaldo: secondo il primo, come anticipato sopra, la denominazione “poesia dialettale” avrebbe la stessa validità epistemologica di quella di poesia femminile, ovvero nulla; secondo Mengaldo invece essa rappresenterebbe, in quanto opposizione di tutti i dialetti alla lingua, un fenomeno di opposizione e resistenza, magari in articulo mortis. Da tali definizioni Scataglini deduce che la chiamata in causa della poesia femminile, nel primo caso, e dell’“articolo morto” (come “mi viene assolutamente spontaneo tradurla”[22]), nel secondo, sarebbero “allusioni inconsce al fatto che la poesia dialettale investe, in qualche modo, il problema del fallo” e che dunque “nella cultura italiana, la presenza della cosa spinosa detta poesia dialettale si aggiri come uno spettro di castrazione”[23]. Secondo Grimaldi, a dire il vero, se come poeta ha grande valore, “Scataglini come teorico del fallico può suscitare qualche perplessità”[24].

Non mi interessa controllare l’esattezza delle teorie linguistico-analitiche del poeta, ma constatare l’influenza esercitata nella poetica di Scataglini dal pensiero psicanalitico, sin dai primi contattati con la psicoterapia (e forse anche da prima). Prestiamo dunque attenzione alle sue definizioni di poesia tenendo conto di tale influenza. Prima dobbiamo però precisare che, a differenza di quanto generalmente fanno i poeti, Scataglini non fornisce dichiarazioni assolutistiche di ciò che è poesia (non cadendo così nella contraddizione, rilevata egregiamente da Anceschi, di quelle poetiche ed estetiche particolari che pretendono di essere universali), ma ribadisce sempre il carattere soggettivo delle sue definizioni: ne La cerimoniosa mascherata si richiama direttamente al concetto lacaniano di “semidire”, per il quale “le cose non si posso dire che a metà, o in doppia partita, precisamente sostenute dal soggetto”[25]. Risulterà normale quindi che prima di fornire la definizione citata all’inizio del paragrafo, il poeta abbia tenuto a precisare “io mi appello alle ragioni della soggettività, che sono unilaterali e parziali, e penso che questo sia nel pieno diritto del poeta, parlare in nome della sua visione delle cose, essendo la poesia il suo attestato di ragioni”[26].

A proposito della definizione del poeta come colui che “si colloca rispetto alla realtà con la mediazione del suo immaginario scegliendo le forme a lui più congeniali”, Grimaldi esprime la sua opinione, prendendo spunto dalla scelta del dialetto da parte del poeta, di questa “forma — cioè — a lui più congeniale”: “Scataglini scrisse in italiano — bene per giunta. Ma non gli corrispondeva emotivamente”: il che da una parte significa, come rileva lo stesso Grimaldi, che l’italiano era per lui una lingua “altra” (“appresa”, “più abito che sangue”, secondo lo stesso poeta[27]), “frigida” in quanto “fredda”, rispetto al “calore” della lingua “materna”, il dialetto; ma dall’altra la non corrispondenza “emotiva” richiama alla mente la più volte citata identificazione di Scataglini con chi viene posto ai margini della storia. Ciò significa che l’immaginario a cui allude Scataglini non è il rasserenante alveo materno, ma “ciò che è respinto fuori dalla cultura, fuori dalla realtà culturale, fuori dal sistema di dominio di questa realtà”: è questo ciò di cui “la poesia dialettale nell’immaginario dà conto”[28]. E “nell’universo dell’ingiustizia, della discriminazione tra gli uomini” parlare “da parte del discriminato vuol dire non solo rinunciare a chi discrimina ma proporre di sognare, di immaginare un modello della ricomposizione”[29]. Qui si intravede ancora una volta il magistero adorniano: la sintesi è un processo dialettico, la verità si rivela per contrasto[30].

Scataglini per far capire cosa sia e come agisca l’immaginario in un poeta cita il caso di Belli: “non posso pensare che abbia fatto il ritratto della plebe romana con un’operazione scientifica. Belli ha messo in versi la sua anima, il suo immaginario”. Da tutto ciò risulta abbastanza chiaro che la nozione di immaginario nel passo citato non ha nulla a che fare con quella lacaniana[31], è in qualche modo collegata con la concezione junghiana del “mondo immaginale” (il quale dà conto di una realtà — quella dell’anima — altrettanto valida di quella esteriore e comunque da questa non aliena)[32]; ma soprattutto la nozione di immaginario viene calata nell’universo della poesia dialettale e sostanziandosi della dialettica negativa di Adorno diventa un principio di poetica “antireazionaria”.

La poesia per Scataglini (“se è vera poesia”) “ha la funzione di richiamare l’immagine della vita su ciò che non vive, su ciò che è espulso, messo fuori dall’ambito della realtà”[33] e infatti nella sua poesia egli dà conto di un immaginario fatto di simboli d’isolamento e di abbandono:

[…]
So’ ‘n ombra che camina
l’ombra de ’n omo solo

[…]
So’ come un viaggiatore
che ha perso la sua nave
[34]

[…]
Su ‘l spazio in abbandono
c’è ‘l fiore de la malva
[35]

emblemi d’esclusione:

[…]
io so’ ‘l ciglio del mondo
te sei la voragine
[36]

La funzione propria dei simboli rappresentai dal poeta di richiamare la vita su ciò che non vive appare chiaramente, inoltre, in El senso del mio testo (F):

[…]
D’un quadro me sovieno:
un scuro de taverna,
’n omo a sede, ’l baleno 
fermo de ’na ma’ eterna

che chiama quella vita
fori
[37] dal suo binario
[…]

La vocazione di Matteo di Caravaggio

Il quadro in questione è La vocazione di Matteo di Caravaggio: il poeta vorrebbe partecipare della stessa sorte di Matteo, “quel’omo ordinario” a cui il divino si è rivelato donando la pienezza della vita. La figura di Matteo simboleggia, dunque, l’emergere dal destino di morte e oblio in cui si vedono condannati gli umili, richiamando “la vita su ciò che non vive”, ma è anche la testimonianza di un bisogno profondo di spiritualità, a cui però il poeta non può (forse non sa) ancora rispondere:

[…]
L’assenza de quel gesto
da sempre me tortura.
El senso del mio testo
è ’na cancelatura.

Si noti, nell’ultimo verso, una parola (cancelatura)che apparirà anche in Vita e scritura [38], la poesia citata all’inizio del presente capitolo. Vita e scritura rappresenterebbe quindi una ripresa di El senso del mio testo, per la evidente affinità tematica, oltre che per quella meramente terminologica. E in effetti Grimaldi interpreta la seconda parte di Vita e scrittura, da me analizzata seguendo esclusivamente la falsa riga autobiografica fornitaci dallo stesso Scataglini, come l’espressione di un’intuizione: “Se cerca ‘n sòno lindo/ drento de sé…” rappresenterebbe, secondo Grimaldi, “l’intuizione di un bisogno di ricerca spirituale, da cui poi nascerà la volontà di fare l’esperienza psicanalitica”. Ricerca interiore che però il poeta compierà soltanto tra la comparsa del secondo libro e la composizione del terzo: in So’ rimaso la spina Scataglini è ancora “avinto/ drento ’l suo labirinto/ de paura e d’orgasmo”, mentre, come nota Raffaeli, già nella poesia d’apertura di Carta laniena può consegnare al passato remoto tale condizione:

Mèz’omo e mèzo toro
andai p’i coridoi
dai architravi d’oro
e bianchi com’i scòi.

Fui servo de la brama
che m’ha cegato
[39] e vinto
fàtase fildelama
in fondo a labirinto.

Il mito di Asterione è qui utilizzato per indicare la condizione semiumana in cui si trovava il poeta prima di intraprendere il suo cammino verso la comprensione del Sé (cioè verso la “totalità dell’uomo” o “individuazione”, come la definisce invariabilmente Jung). A questo proposito Grimaldi fornisce ancora una volta il suo parere professionale: “il Minotauro è una figura in cui non c’è piena esplicitazione dell’umano, in cui insomma l’uomo non è venuto fuori completamente. È una figura ambivalente, in qualche modo primitiva. Simboleggia una situazione in cui il poeta non si sente completamente realizzato spiritualmente”.

Un altro possibile collegamento a livello di poetica fra i versi di Scataglini e la psicologia analitica è rintracciabile nel titolo della prima sezione di Carta laniena: La fabbrica del ponte. La costruzione di un “ponte”, infatti, tra il conscio e l’inconscio, tra il pulsionale e lo spirituale, è proprio ciò che si propone la psicoterapia junghiana — non stupirebbe dunque scoprire che questo è anche l’intento del poeta, celato nella scelta di quel titolo. Ma se è vero che con l’analisi Scataglini ha in parte appagato il suo bisogno di ricerca spirituale, quest’ultima non è cominciata con l’analisi o, per lo meno, non si è conclusa con essa.

Poesie di Simon WeilÈ stata più volte citata Simone Weil (“senza le riflessioni di Simon Weil sulla sofferenza avrei scritto Carcere demolito?”[40]): il suo pensiero Weil ha molto influenzato la Weltanschauung del poeta e la sua stessa concezione della poesia[41]. E assieme a Simone Weil, sulla cui influenza su Scataglini bisognerebbe maggiormente indagare (io mi limiterò a pochi accenni), ci sono i classici del misticismo, come San Juan de la Cruz, nei quali il poeta trova “le linee maestre di una psicologia sperimentale della Trascendenza”[42]. Notiamo a questo proposito che psicologia sperimentale della Trascendenza potrebbe essere definita la psicologia junghiana da Psicologia e religione (1939) in poi: il fatto che negli scritti disponibili non si trovino molti riferimenti a Jung potrebbe essere ricondotto alla rottura, avvenuta nel 1982, con lo junghiano Grimaldi, interpretabile fra l’altro come un allontanamento dalla psicologia analitica.

Non Jung, infine, ma “queste letture” (i mistici) vengono in prima istanza indicate, dallo stesso Scataglini, per dar conto “in qualche modo” di quelle che Ceriani definisce “le qualità primarie”[43] del suo lavoro, cioè di un metodo di composizione che si potrebbe definire ascetico, fatto com’è di continue sottrazioni e rinunce.
Mentre, però, nell’intervista a Ceriani viene messa in luce, dallo stesso Scataglini, soprattutto l’affinità di questo metodo con una “grafia dura, spigolosa, aspra ma diafana” in cui “i corpi nel dominio incontrastabile della luce non fossero più di sassi d’una grava”, a me preme rilevare anche l’antinomia, la profonda dissonanza di quel metodo ascetico con la materia linguistica di partenza — il dialetto, lingua della più bassa carnalità — e con buona parte della tematica prediletta dal poeta — la cieca “brama”.
Si veda, ad esempio, la seguente poesia di E per un frutto piace tutto un orto:

Io so’ ‘l sgombro vorace

Intiza e toie pace
l’esca de ’na sotana.
Io so’ ’l sgombro vorace
che ’n cuchiarì l’ingana.

L’epigrammatica brevità del componimento (una perfetta quartina di settenari) cozza violentemente con la bestialità dell’immagine e la carnosità erosa della pronuncia (le apocopi — “so’” per “sono”, “cuchiarì” per “cucchiaino” — rodono le parole quasi come un animale la preda). E qui c’è tutta la poetica di Scataglini: il dialetto come lingua di chi è condannato “ad arrotondare la bocca che non ha nulla da mordere” (Adorno) ma allo stesso tempo nobilitata da un metro e da uno stile rigidamente regolato. In realtà siamo di fronte, specialmente in quei componimenti in cui si tratta del dolore e del destino di sofferenza dell’uomo (Carcere demolito e Carta laniena, su tutti), non ad una mera contraddizione tra materia e forma, ma ad un tentativo di sintesi, che può far venire in mente il nuovo stile sublime della Bibbia o del romanzo moderno[44]. Ecco dunque spiegato il richiamo ai mistici, i quali, come Simone Weil (ma prima ancora, aggiungerei, la mistica della passio Christi del XII secolo — Bernardo da Chiaravalle, ecc.), con la bassezza del reale avevano un rapporto privilegiato. Ecco la radice della permuta di alto e basso individuata da Raffaeli come segno distintivo della poesia di Scataglini.

L’aspetto carnale della materia dialettale richiama inoltre alla mente il destino a cui sono stati sottoposti i dialetti dal Cinquecento in avanti, quello cioè di essere i portavoce privilegiati della rozzezza e della carnalità, appunto. In quel caso, però, non vi era una nobilitazione della materia, ma, come rileva lo stesso Scataglini, un “raddoppiamento simbolico della rozzezza”[45]. In quel testo effettivamente appare, come dicevamo all’inizio, un vistoso riferimento alla psicanalisi (non junghiana in questo caso, bensì freudiana e lacaniana), poiché Scataglini, da una parte, interpreta il modo di parlare e di trattare la poesia dialettale come una rimozione del corpo dalla coscienza letteraria, un “fantasma di castrazione”, dall’altra, riconduce la poesia dialettale riflessa a una sorta di “cerimoniosa mascherata”, un’attività scenica “come il sogno, il sintomo, il lapsus”, in cui riappaiono sotto forma “di spettacolo, gioco, immagine” i contenuti che “il discorso dell’ordine, del potere, dell’autorità, traveste o esclude o nega”[46].

Ma Scataglini rifiuta la ghettizzazione della poesia dialettale riflessa, si richiama alla fase anteriore alla scissione cinquecentesca tra lingua nazionale della poesia e vernacoli come lingua della realtà, tra alto e basso, per rivendicare al poeta il diritto a dar conto in poesia del proprio immaginario — non della realtà — “nelle forme a lui più congeniali” — non necessariamente “in forme realistiche, volutamente fedeli alla rozzezza dei singoli vernacoli”[47]: nel suo caso, si tratterà proprio di congiungere l’alto con il basso, di impiegare una lingua il più possibile dirozzata e nobilitata (che diventa così lingua della poesia) per dar conto — non necessariamente in modo realistico — del destino di privazione a cui il poeta partecipa assieme ai “discriminati”[48] e di ciò a cui la maschera dialettale rinvia (perché la vocazione dei dialetti non viene rinnegata): “l’indicibile, il residuo — o costo — di ogni discorso e di ogni rappresentazione: il reale, sociale o pulsionale, o, se preferibile, il corporale”[49].
Il dialetto come lapsus della disperazione significa soprattutto questo: “e non è già un seme di poetica (e di politica)?”.

6. Il metro e la musica

Ho accennato al metodo compositivo di Scataglini e a come esso abbia fatto venire in mente a Ceriani le prove di rinuncia, i voti di castità, le “dure vigilie notturne” dei mistici. Scataglini ribadisce più volte la sua concezione callimachea, oraziana, della poesia, fondata per l’appunto su un estenuante processo selettivo, come in questo passo in cui risponde a una domanda di Davide Rondoni sulla riscoperta dell’andamento poematico tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90: “ho l’impressione che la poematicità di questi anni si possa identificare con la effusività verbale che per me è il segno più deleterio della caduta della tensione poetica. Quando non trovo in una poesia l’intensità della struttura verbale ne perdo il senso, non so più cosa significhi tutto quel mucchio di parole. Per me la poesia ha una struttura granulare, è fatta di entità discrete legate indissolubilmente le une alle altre. È come la composizione di un mosaico: tessera per tessera”[50].

L’identificazione della poematicità con l’effusività verbale ricorda un antico motivo callimacheo, ripreso anche da Orazio: la polemica con i poeti epici, con la loro poesia che come l’Eufrate assieme a tanta acqua trasporta anche tanto fango, in contrapposizione all’esiguo ma purissimo rivolo della poesia alessandrina[51]. Esiste per giunta un riferimento (forse l’unico) diretto e documentato di Scataglini ad un classico latino e si tratta proprio di Catullo, il primo dei callimachei romani[52]. L’allusione a questi grandi classici non è casuale vista l’impressione che si riceve dalla straordinaria brevità e concisione di alcuni testi (soprattutto delle prime due raccolte dialettali). A volte nel giro di una quartina o di due o tre si coglie l’attimo, la peculiarità di una situazione che svela un senso, tutto il superfluo viene scartato. I mezzi per ottenere tale compattezza, oltre al generico labor limae, sono la metrica e la rima. E a tal proposito Pier Vincenzo Mengaldo ha scritto che con l’uso limitato delle rime sgargianti “pare che Scataglini turbi il meno possibile la scorrevolezza e naturale limpidezza «classica» del suo schema prediletto [la quartina di settenari, n.d.a.]”[53].

Ma sotto questa veste classica, si nasconde qualcosa di non classico, come messo in evidenza dallo stesso Mengaldo a conclusione della sua analisi formale: “una dizione aspra e anche ingrata, feriale e mentale assieme” che con lo schema “regolare, nitido e melodico” si vorrebbe “contenere” e “armonizzare”[54]. Ciò richiama alla mente quanto detto dallo stesso Mengaldo a proposito di Saba[55], nel quale la sostenutezza del dettato sarebbe maschera dell’Io selvaggio e terrestre. E in effetti Saba, assieme a Penna e Caproni, è un altro poeta a cui Scataglini ha guardato quasi come a Montale. Da questi (e dalla linea dialettale Di Giacomo-Marin-Giotti), non dai classici, egli riceve infatti le sue lezioni di forma[56].

Ritratto di Biagio Marin

Con Saba, Caproni e Penna, Scataglini condivide infatti, oltre all’identificazione con la gente offesa, gli umili (cfr. “Ma supremo fra tutto era l’odore/ casto e gentile della povertà”, Sandro Penna, Ero per la città, fra le viuzze, in Poesie), una pronuncia poetica assieme popolare e letteraria e una ricerca melodica anti-novecentesca. Con Penna, inoltre, Scataglini ha in comune lo stretto monolinguismo e il ripetersi degli schemi metrici; con Saba il rapporto tra un Io lacerato e il bisogno di immersione nella “calda vita” (basti guardare di Scataglini il poemetto Tuto è corpo d’amore).

La vena melica, incontaminata nella prima raccolta dialettale, viene però lentamente corrotta da soluzioni più novecentesche: si passa così da un rapporto metrica-sintassi spesso coincidente ad uno abbondantemente divaricato, soprattutto in Carta laniena e nei testi di Laudario, editi, assieme ad una scelta antologica dei precedenti, in Rimario agontano (1987); si infittisce l’uso di versi a scalino e delle parentetiche. Già in Giotti lo schema della canzonetta di sette- ottonari rimati veniva sovente contraddetto da un trattamento per fratture e dissonanze.
È lo stesso Scataglini che ci mostra questa evoluzione, prendendo ad esempio un testo del 1972, pubblicato in E per frutto, poi riapparso modificato in Carta laniena. La prima versione è la seguente:

Ritorna de sasso

Un coco rotondo
calciato da ’l molo:
un rapido volo
e fila ’nte ’l fondo.

I cerchi dabasso
s’alenta e scompare.
El spechio de ’l mare
ritorna de sasso.

La seconda invece recita così:

Cocheto, dal molo
calciato, un segondo
la vita de volo
non dura p’un mondo

d’inerzia.
            Da basso
s’archiude le bare
a cerchi.
            È de sasso
la speca del mare.

A parte la diversa denominazione dell’oggetto (“coco” e “cocheto”)[57], la differenza tra i due testi è evidente: “il secondo sta nella griglia strofica e rimica come su un tavolo da tortura”[58]. A dire il vero si scorge una forte intellettualizzazione del tema originario: innanzitutto c’è l’esplicitazione sapienziale di ciò che prima rimaneva celato nell’allegoria: “la vita de volo/ non dura p’ un mondo/ d’inerzia” contro “un rapido volo/ e fila ‘nte ‘l fondo”; poi arcaismi (“speca” per “spechio”), inversioni (“dal molo/ calciato”, “s’archiude le bare”) e altre figure retoriche (“i cerchi” diventano “le bare a cerchi”) concorrono a rendere il tutto più ellittico e forzato. In generale tutto il discorso poetico, da Carta laniena in poi, si fa più complesso, di pari passo all’approfondimento psicologico, all’immersione nel labirinto “de paura e d’orgasmo”, alla ricerca di una nuova ricomposizione, la quale avverrà nell’accettazione del destino di morte che tutti ci accomuna — il “murì de compimento” dell’ultimo componimento di Laudario.

Per quanto riguarda infine la vena melica della poesia di Scataglini non bisogna trascurare il legame con la poesia romanza: “il mio dialetto”, afferma il poeta, “non corrisponde al parlato, o solo nelle sonorità che lo fondano. E attraverso quelle io risalgo a somiglianze originarie: i miei modelli sono duecenteschi”[59].

Ritratto di Jacopone da TodiÈ Jacopone da Todi in questo senso, non Leopardi o Pascoli come per Saba e Penna, il modello di musicalità più vicino a Scataglini. “Ho imparato presto a distinguere la sonorità di un verso dal suo significato […] Sulla base di questa pratica ho potuto individuare, più tardi, le sonorità essenziali dell’anconetano e intuirne la relazione con quelle della poesia umbro-marchigiana delle origini (dal Ritmo di Sant’Alessio a Jacopone da Todi). Il mio lavoro dal punto di vista musicale, si è svolto per la più parte in questa direzione”[60]. Si prenda la poesia forse più “francescana” di Scataglini:

Tuto è corpo d’amore

Tuto è corpo d’amore
la tera ’l cielo ’l pà
i ucceli de cità
spenati, senz’unore
[…]

la si confronti con pochi versi di una lauda jacoponica; ad esempio Sopr’onne lengua Amore:

[…]
De tutto prende sorte;
tanto ha per unione
de trasformazione,
che dice: «Tutto è mio».
Aperte so’ le porte
[…]

la somiglianza è davvero notevole, sia a livello metrico che fonetico (su questo aspetto torneremo più approfonditamente nel prossimo capitolo). Dalla consapevolezza di queste somiglianze originarie dipende forse la frequente ricorrenza dell’appellativo “antiga”, utilizzato da Scataglini per designare la propria “scritura” (Tre versi che ben sona, in F), come anche alcuni dei “luoghi” fondamentali della sua poesia: la propria città (cfr. i “vechi/ muri” di Voce senza figura, in F; le “mura antighe” di Io so’ ‘n pedò che bada, ibidem,o il “giardineto al fondo/ d’antiga via” di [in giardineto al fondo], in C), l’“obedienza” al desiderio (Un’antiga obedienza, in F) o lo “strazio”, ad essa indissolubilmente legato (cfr. “Non so che antigo strazio/ m’ha fato ca’ infedele” di Bei ochi di topazio, in F).

Una musicalità “antiga”, dunque, certo non la eliotiana “musica latente nel linguaggio comune di epoca”, ma neanche la musicalità ottocentesca di un Saba o di un Penna, né, a guardar bene, la sensuale musicalità vagamente occitanica di Poesie a Casarsa.

“Antigo” in anconetano ha una duplice valenza, un po’ come in italiano: da una parte indica ciò che appartiene ad un’altra epoca, mentre, dall’altra, carica di valore spregiativo questa appartenenza, soprattutto quando ad essere “antiga” è una persona vivente o un modo di comportarsi, di vestire, ecc. In questo caso “antigo” starebbe per antiquato. Ed effettivamente uno dei rimproveri che più di frequente si fanno alla poesia dialettale è di essere arte d’antiquariato. Ma è lo stesso Scataglini a rispondere a questa obiezione, nella già citata intervista di Ceriani: “Come i costruttori romanici di chiese: un capitello, un pezzo di colonna, un rudere d’ara, avanzi di chissà quale antico tempio marmoreo, tutto entrava nell’insieme e vi veniva interamente risolto in base alle risultanze estetiche dell’occorrenza […] Non c’è niente di archeologico nel mio modo di fare perché non c’è mai niente di morto che non possa rimettersi a vivere”[61].

Segre, parlando della lingua con cui Scataglini ha tradotto il Roman de la Rose, dice: “Di solito, chi traduce testi medievali ha il problema di evitare anacronismi linguistici […] e magari di elaborare una qualche patina evocante il passato. Scataglini, al contrario, può fruire in partenza dell’arcaicità propria del dialetto (o almeno del suo dialetto), che collima con l’arcaicità del settenario, verso da laude jacoponica o da poema allegorico quale il Tesoretto. Anzi, a prima vista verrebbe da dire che il poema gotico è reso romanico, dunque retrodatato, dalle caratteristiche dei mezzi espressivi”[62].

Una musica “romanica” è, quindi, quella che emana la poesia di Scataglini, una monodia profana, con qualche tratto di espressionismo scultoreo: le membra tozze (“i ladri i questurì […] — musi guzi aneriti/ schiene da signorsì”, Tuto è corpo d’amore, in RS), le espressioni accentuate (“Io te guardo da dietro/ sbiego come fa i vechi”, Vetrina, in F), i gesti umili (“el còce sui forneli”, Tuto è corpo d’amore, in RS), i cieli stellati (“I primi astri s’è cési/ come tizi de rola”, Al Poggio, in RS).

7. Un trovatore maledetto

“Amo Rudel come se fosse qui […] colui che ‘fez de leis mains vers ab bon sons, ab paubres motz’: fece delle belle melodie con povere parole. È ciò che ho cercato di fare con il mio anconetano, quali che siano gli esiti”[63]. Scataglini amava davvero Rudel se è vero che quando lavorava di notte alle Raccomandate di Posta-Ferrovia, portava con sé i suoi Vers [64], rischiando di essere deriso dai “ruvidi” colleghi (i quali invece “finirono per accettare e proteggere quel mio laborioso appartarmi”[65]).

L’opera di Scataglini condivide con la poesia dei provenzali, oltre alle somiglianze generali rinvenute dallo stesso poeta grazie alla lettura di Pound, Contini e Pasolini, una specifica tematica: il “desio” amoroso. Si potrebbe addirittura interpretare il complesso della poesia di Scataglini secondo lo schema ternario elaborato da Leslie T. Topsfield studiando l’esperienza amorosa nei provenzali[66]. Il livello mondano del desiderio fisico, che si realizza nell’esperienza dei sensi, è quello in cui si consumano (e si esauriscono) i primi due libri dialettali (E per un frutto piace tutto un orto e So’ rimaso la spina); a livello dell’immaginazione onirica si situa La rosa; mentre ad un livello “trascendentale”, lontano da entrambi i precedenti, in cui si attua l’esperienza della visione, può rinviare Laudario. Uno stesso elemento compare, però, in tutte le raccolte e a tutti i livelli: è il “giardì”, il “brolo”, l’orto. Un po’ come la corte dove Montale scorge gli augurali limoni, l’orto per Scataglini è sempre un luogo “magico” al di fuori della storia (“mondo de le piante beato”[67]), dove “ce ‘riva solo ’l balzo/ de chi ha capito ’l mondo” (Chi ha capito ‘l mondo, in F).

Eugenio MontaleLa “dalia gialla” che vi si trova (e che ricorda ancora una volta Montale, i suoi “limoni” e il suo “girasole impazzito di luce”) attraversa come un fantasma il labirinto “de paura e d’orgasmo” delle prime due raccolte e riappare “In giardineto al fondo/ d’antiga via”, accanto a “el nudo matatoio” di Carta laniena. Al di là cioè di carnali e colpevoli amori, della perdita di orientamento e della presa di coscienza della nullità dell’esistenza, nell’orto, tra “arbori e ciafi [cianfrusaglie] morti”, il poeta può sempre trovare “’na luce” che “splende/ su quei grovigli imoti”, dove “sopra ’n ramo s’acende,/ rotondi, i fruti loti” (E per un frutto piace tutto un orto, in F).

È evidente che tale iconografia deriva da due opposte tradizioni: l’una di origine, diciamo, contadina e proletaria, che vede l’orto come il piccolo regno del povero (cfr. M’hai lasciato un giardì); l’altra di origine colta, greco-latina e romanza: l’hortus conclusus in cui il filosofo trova la pace dei sensi, il verger dove sia Carlo Magno che il re pagano Marsilio tengono consiglio (cfr. Chanson de Roland, vv. 11 e 103)[68] e dove gli amanti hanno le loro non sempre caste riunioni. Se è vero infine che in tutte le raccolte la figura del giardino fa la sua comparsa, ne La rosa, rifacimento dei primi 1600 versi circa del Roman de la Rose, essa è addirittura al centro dell’intero poema. Come nel poema medievale, Scataglini narra di un sogno ambientato proprio in un giardino favoloso, circondato da un muro istoriato con le allegorie dei vizi, dove danzano le virtù, gli uccelletti fanno festa (“nel memorando brolo/ tuto era sono e svolo./ Lai d’amore, cortesi/ sonetti e sirventesi/ d’uceleti nel folto”, vv. 743-45) e dove infine il poeta rimane stregato da un “bociolo de rosa”.

E assieme al “giardì” anche la “rosa”, soggetto-oggetto eponimo sia del capolavoro medioevale che del rifacimento operatone da Scataglini, percorre trasversalmente quasi tutte le sue prime raccolte, fino ad approdare al grande poema allegorico. La si trova, ad esempio, nei versi di Jacopo da Lentini[69] posti a epigrafe della poesia dedicatoria del primo libro dialettale (“Dai ochi m’arosa/ un’aqua d’amore/ che sape de rosa”[70], in F); riaffiora poi in So’ rimaso la spina nella poesia Hai puntato ‘na rosa; dà il titolo a una sezione di Carta laniena (Rosa, rosae, …), in cui coincide già con il nome dell’amata reale (Rosellina Massi), alla quale è dedicato poi Rimario agontano; Rosa compare infine quale titolo di una parte di Laudario. Tutto ciò ha fatto parlare Segre di “incontro predestinato” di Scataglini con il Roman de la Rose.

Se, però, il giardino gli si presenta subito come una via di fuga (dalla realtà dolorosa), che mai veramente lo appaga[71], l’incontro con l’amata, l’amore come compimento, si avrà, proprio come in Rudel, solo nella maturità.
Viene naturalmente da pensare subito all’eroe cercatore per eccellenza — Odisseo: la figura dell’eroe vagabondo si può ritrovare in Carta laniena e in Laudario; nel primo caso indica il pericolo di naufragio insito in ogni approdare:

Pel nome d’Odisseo
se viagi, nave greca,
a la salina spèca
del porto del Pireo

mèntova de la bassa
riva el malo portento:
da omo, al primo vento,
el mar fece carcassa.

mentre nel secondo caso si tratta, all’inverso, dell’apparizione salvifica di Ino:

sempre te vidi, amata,
’nt’un ombra che s’indìa
drento al desio, portata
da l’ondosa dolìa

[…]

come p’Ulisse idìa
se forma a la murata
su l’ondosa dolìa
del mare, in lume (o amata!)

Ino

Per quanto riguarda il rapporto tra giardino e odissea della ricerca è utile ricordare l’interpretazione di Horkeimer e Adorno dell’episodio dei Lotofagi[72]: Ulisse è costretto a trascinare con la forza i compagni, che vogliono restare a inebriarsi con il mitico frutto del loto, per impedire che il nostos (nell’interpretazione, il progresso) si arresti, esattamente come il poeta non si appaga completamente dello splendore dei “fruti loti”[73] (in questo caso sono i cachi, ma l’analogia è evidente) e decide di percorrere tutte le tappe dell’esperienza amorosa.

Ritratto di SabaCominciamo da E per un frutto piace tutto un orto. L’amore a quest’altezza è una “voia” (voglia) tormentosa (cfr. Sei qui ochi de menta), che costringe il poeta a gesti che lo fanno sentire “ladro” (cfr. Io me sentivo ladro); è “un’antiga obedienza” che come un guinzaglio lo stringe alla gola e lo piega verso la donna (una donna qualunque, come donne qualunque, anche quando abbiano appellativi — “ochi de menta” — o nomi veri e propri — Nada, Nella, ecc. —, sono tutte quelle prima di Rosa). In alcuni testi centrali del libro (da Sei qui, ochi de menta a Te sei la voragine circa) Scataglini marca tutta la sua distanza dall’amor cortese, che non è estraneità, ma vera e propria carnale degradazione. Si parte con dei componimenti che prefigurano da subito il fondo torbido della passione, come Sei qui, ochi de menta e Io me sentivo ladro, mentre in seconda battuta appaiono testi in cui ci si avvicina maggiormente ai moduli “gioiosi” dell’amor cortese: appaiono similitudini e allegorie, a partire da Come un’oliva tonda (“Come un’oliva tonda/ in fondo a ’n rivu chiaro,/ ’nte l’acqua che m’inonda/ io perderìa l’amaro”) e Madrigalino (“In tanta nebia, tanta/ tra breci e ipocastani,/ un canario che canta/ sarìa ne le tue mani”, cfr. Quan lo rossinhols el folhos di Rudel[74]) — anche di carattere popolare (cfr. Franco Scataglini, Bionda come i lupini); situazioni e scenari tipicamente cortesi, come in Tra case color cocio, in cui peraltro è presente per la sola e unica volta un accenno fuggevole alla felicità (il Jois):

Tra case color cocio,
arbori come un’onda.
La nuca nera e tonda
de lia pareva in bocio.

Pe’ un miraggio felice,
tenendoce per ma’,
sentìmi la radice
de la felicità

[…]

Fino ad arrivare a un gruppetto di quattro testi (da Un’antiga obedienza a Te andata via) particolarmente significativi, su cui vale la pena soffermarci. Il primo, Un’antiga obedienza, lo abbiamo già citato, ma ora conviene trascriverlo integralmente:

’Sta dòna che se bea,
nuda, de le sue forme,
s’insogna de esse dea
nel letto ’ndó s’indorme.

Un guinzaglio m’ha chiuso
tut’intorno a la gola:
ciò ’nt’i ochi un recluso
desio senza parola.

Me piega in ver de lia
un’antiga obedienza
co’ la malinconia
de chi se fa imanenza.

Qui è espresso ironicamente l’ideale della donna angelicata: la protagonista del componimento si bea delle sue nudità, stesa divinamente nel letto dove s’addormenta, ma “s’insogna” soltanto — non è — una dea; e non come un angelo di luce, ma come un diavolessa sadica, rispettando per altro perfettamente il cerimoniale cortese, ha schiavizzato il poeta, l’ha ridotto all’“antiga” condizione feudale di “obedienza”. In realtà è tutta un’illusione (“s’insogna de esse dea”) e non si ha nessuna esperienza di tipo trascendentale, esperienza che nell’antica poesia trobadorica e stilnovista nobilitava il poeta, ma un’immanenza carnale che immalinconisce il poeta. L’ideale non è negato, ma soltanto parodicamente rivissuto.
Veniamo al testo seguente, Solo el vero amatore:

Spoiàmme de l’orgoio,
seguítte ’ndove vai?
Te decidi, e io voio
esse
[75] come me fai.

Solo el vero amatore
pole
[76] provà diletto
a esse ’n poro
[77] oggetto
ne le ma’ de l’amore.

Illustrazione di un'opera di RudelÈ chiaro che ci troviamo di fronte a un altro riferimento all’antico cerimoniale amoroso, ma ancora una volta assunto con una certa ironica distanza. È espresso perfettamente il patto di abnegazione alla donna, che il poeta promette di seguire ovunque vada, proprio come Rudel (cfr. Quan lo rius de la fontana: “ E no·n pousc trobar meizina/ Si non vau al sieu reclam” ovvero, come traduce Casella: “E non posso trovarci altro rimedio che quello di seguire il suo invito”), ma quasi a malincuore: la domanda retorica dell’inizio prevede quasi un “tu sei matta!” come risposta, la risposta vera non è che il segno di una rassegnazione e il “poro” riferito all’oggetto nelle mani d’amore indica una specie di compatimento per “el vero amatore”. Inoltre l’“orgoio”, che pure è un termine tecnico della lirica cortese, in realtà dovrebbe indicare “l’atteggiamento della persona amata che non corrisponde”, come ad esempio in Jacopo da Lentini[78], mentre da Scataglini è usato nella sua accezione comune ed è riferito a se stesso. Come si noterà anche da altri componimenti c’è in Scataglini, oltre che una rivisitazione parodica, un vero e proprio rovesciamento della lirica cortese: molto spesso è lui che non corrisponde all’amore della donna. Si veda ad esempio Bei ochi de topazio:

Se comoda ’na fieza [79]
su la tempia, distrata.
Cià ’n viso l’amareza
de la dòna inganata.

Bei ochi de topazio,
pur io mastigo fiele.
Non so che antigo strazio
m’ha fato ca’ infedele.

Ma questo rovesciamento si attua proprio a partire dal fallimento dell’esperienza d’amore come esperienza di fedeltà, di devozione e di elevazione; fallimento espresso chiaramente nei due testi seguenti a Solo el vero amatore, cioè ’Sta nudeza tua prima:

’Sta nudeza tua prima
’ndove s’incastra forte
el mio desio, è ’na rima
de silenzio e de morte.

A l’esenziale, el sesso
pare ’n’allegoria:
ie se po’ trovà ’l nesso
solo co’ l’agonia.

Guardame in ’sta caduta:
fiato roto, disfato
come un cane da muta
disperso in mezo al ghiacio.

e Te andata via:

Come de sopra el letto
l’impronta de l’assenza,
te andata via, ’nte’l petto,
ciò un voto de coscienza.

Nel primo caso si tratta di uno sviluppo negativo di Un’antiga obedienza: il sesso è visto esplicitamente, nella sua essenza, come agonia, “allegoria”[80] della lotta persa in partenza con la morte.
È facile notare come la pulsione originata dalla donna, che nella lirica cortese era di natura doppia (di vita e di morte assieme), si è polarizzata negativamente; la sua nudità “prima”, cioè primitiva, dopo che l’ideale di donna angelicata, da essa evocato, era sfumato nella poesia Un’antiga obedienza, si è completamente trasformata in “’na rima de silenzio e de morte”. Solo poche pagine prima, invece, si poteva trovare una poesia come questa:

Questo vol dì ‘na tresca?

Quando te godo un grido
me smore ne la boca
– afondo in una cioca
dei tui capelli e rido.

[…]

Il godimento era sempre caratterizzato da un “affondare”, ma gioioso. In ’Sta nudeza tua prima è l’esatto contrario.
E la perdita di un punto di riferimento, il sentimento di smarrimento evocato già dall’immagine del cane “disperso in mezo al ghiacio”, diviene reale in Te andata via: l’assenza (altro termine tecnico della lirica cortese) della donna, che in Rudel era origine di tutti i suoi mali ma anche modo di raggiungere il sommo bene, qui è soltanto causa di vuoti di coscienza, cioè di sensi di colpa.

Dopo questo gruppetto centrale di testi, vi è in E per un frutto piace tutto un orto un susseguirsi di testi in cui il dolore e il senso di frustrazione si fanno sempre più acuti. Ormai gli incontri con l’amata (o le amate) sono soltanto occasione per pensare, “dopo l’ultimo cine”, “come e quando se finisce d’ama” (Sabato, stesso stampo) e per constatare come “Ogni incontro è dolore” (Ce fermamo a parlà), in una progressione che va dal rendersi conto che per tutta la vita

Io come ’ste palline
de flìppere, sbattendo
’n tra tante lampadine
dove che mai m’acendo,

giù pel piano inclinato,
a tentoni, de fuga,
da quando che so nato
vo cercando la buga
[81]

arriva alla volontà di suicidarsi:

Davanti a un muro drito

’Na festa, un pomerigio:
le strade meze vote
’ndó fa un binario grigio
le gome de le rote,

davanti a un muro drito,
cega, sorda, fatale,
la volontà ho sentito
de spigne giù ’l pedale
[82],

alla perdita di ogni speranza (cfr. Se non c’ho più speranza). Fino a testi nuovamente significativi dal punto di vista del rapporto con la lirica cortese, come ad esempio ’Sta pagina segnata:

Tardi, tardi sarìa
pe’ avé un cespo de fiori
da ’sta calligrafia
streta e senza colori;

’sta pagina segnata
non me darà la dòna
sempre da me ’spetata:
mia, che me se dona,

che c’è, vive e che dura
come dura el lamento
costante e senza acento
de me ’nte la calura?

Notiamo subito l’utilizzo del termine “lamento”, altro termine tecnico della lirica cortese: nella sua forma bretone, lai, designava tanto i lamenti dell’innamorato deluso, quanto un genere poetico utilizzato dai trovatori per cantare, con intonazione spesso dolorosa e coll’accompagnamento della musica, storie amorose d’ambientazione fantastica o simbolica.

Quadro di Klee

In questo caso però si tratta di un lamento monotono e sordo, che ricorda da vicino il “biatolà d’un dindo/ spersose ’nte la piova” della poesia citata all’inizio del presente capitolo, anche s