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Omnia

Filosofia del videogioco

Dalla sociologia di Caillois ai simulatori di vita delle odierne console

Space InvadersA caratterizzare la pratica del gioco è un isolamento concettuale nei confronti della realtà, esso viene sempre istituito da una serie di regole che gli sono a fondamento come autentiche condizioni di esistenza. La condizione di possibilità del gioco è la sua autoreferenzialità, la sua autonomia rispetto alle norme vigenti nella vita.
Il gioco, com’è facilmente intuibile, non è mai anarchico; al contrario, come sapeva anche Wittgenstein, assieme all’indipendenza dal mondo, l’altra condizione di possibilità dell’esistenza del gioco è il “regolamento”, ovvero quella serie di limiti senza i quali nessun gioco potrebbe esistere.

Senza dilungarci sulla riflessione riferita alla valenza della dimensione epistemologica e teorica del gioco (che coinvolgerebbe gran parte della letteratura filosofica del Novecento, da Gadamer, a Wittgenstein, a Feyerabend), preferiamo fare riferimento a un testo particolarmente esauriente riguardo ai temi che ci accingiamo a trattare, ovvero I giochi e gli uomini di Roger Caillois. Questo perché il sociologo francese è particolarmente cosciente di come il gioco, pur partendo dall’impostazione concettuale dell’isolamento dal mondo (e perciò da una dimensione di autosufficienza che garantisce al giocatore di divertirsi e di distanziarsi, seppur momentaneamente, dalle responsabilità della vita), instaura differenti implicazioni di reciprocità col mondo e la realtà, a livello psicologico, ma soprattutto a livello culturale e sociale. Partendo dalla conoscenza di quali giochi si giochino in una precisa condizione storica e geografica, si può sviluppare un’analisi che coinvolge ogni manifestazione spirituale di un popolo, perciò anche la sua morale, il suo codice di valori, il suo humus la cui comprensione è fattore essenziale per focalizzare il problema, denunciarlo e adoperarsi per il mutamento. È innegabile che il gioco rappresenti un fattore antropologico d’eccezione, perché è all’origine dell’evoluzione umana, tanto da un piano ontogenetico (come una delle prime instaurazioni di spazi di condivisione collettiva e sociale) tanto ovviamente su uno filogenetico.

D’altronde Caillois non adotta pienamente la convinzione dello storico olandese Huizinga, per il quale tutto lo sviluppo di ogni civiltà umana sarebbe un derivazione e una riplasmazione di una certa modalità di adottare e praticare il gioco. Per Caillois il rapporto è ben più complesso, e i fattori sono difficilmente districabili: il gioco si gioca in una certa maniera perché radicato nelle condizioni storico sociali, e tali condizioni sono il riflesso di una certo modo di giocare[1].

Non pretendo affatto d’insinuare che la vita collettiva dei popoli e le loro diverse istituzioni siano una sorta di giochi […]. Sostengo al contrario, che l’ambito del gioco non costituisce in fondo che una specie di isola limitata, consacrata artificialmente a competizioni calcolate, a rischi ridotti, a finzioni senza conseguenze e a estasi addomesticate. Ma ho contemporaneamente il sospetto che i principi dei giochi, molle determinanti, tenaci e diffuse dell’attività umana, tanto tenaci e tanto diffuse da apparire costanti e universali, debbano segnare profondamente i diversi tipi di società.

Caillois delinea quattro tendenze attraverso le quali suddividere l’universo dei giochi: l’agon (ovvero la competizione), l’alea (la fortuna), il mimicry (il simulacro) e l’ilinx (la vertigine) – e ciascuna di esse si relaziona a un livello differente di paidia (gusto per il caos) e di ludus (gusto per la sfida regolamentata). Partendo da queste quattro categorie e dalle loro combinazioni, Caillois costruisce un’analisi sociologica della modernità. Per sintetizzare la sua analisi, potremmo sostenere che Caillois rilegge la secolarizzazione e l’avvento della modernità nel passaggio da una predominanza del binomio mimicry – ilinx (legato ai culti sciamanici ad esempio, o alle ritualità tribali) all’instaurazione della coppia agon – alea (che invece si presta meglio all’economia industriale, alla mentalità capitalista e di mercato, e alle culture democratiche, e, in formule profondamente differenti, all’universo sociale comunista).
L’epoca contemporanea, e perciò l’avvento della tanto predicata “postmodernità” ci costringe a tornare a riflettere sui temi affrontati da Caillois, magari riadattando le stesse categorie (ancora correnti ed efficaci) alla luce delle più recenti frontiere tecnologiche. A proposito del gioco, “nuove frontiere tecnologiche” non può che significare “videogioco”. In generale, il videogioco rappresenta una manifestazione considerevole e essenziale dell’attuale scenario culturale e sociologico; soprattutto nell’ultimo decennio, il videogioco è andato perdendo il suo luogo privilegiato (la “sala giochi”, che imperava negli anni Ottanta e Novanta), per rafforzare la sua dimensione domestica, perciò maggiormente privata. È indubbio che il boom delle piattaforme e delle console domestiche si sia avuto fin dagli anni Ottanta e per tutti i Novanta (Atari, Sega, Amiga, Commodore 64…), ma il videogioco “da sala” manteneva un fascino esclusivo dato anche da una definizione e una qualità grafica nettamente superiori.

Sala Giochi

Sempre per mantenere il riferimento all’opera di Caillois, è interessante mettere in evidenza le evidenti reticenze e antipatie che il sociologo aveva relativamente alle cosiddette “macchine mangiasoldi”, sia quelli che degenerano in autentici mezzi di perdizione (gli antenati degli attuali videopoker per intenderci) sia quelle più apparentemente “innocenti” come il flipper (antenato, questo, dei videogiochi da sala): “distrazioni illusorie che, riempiendo le ore d’ozio, assumono l’apparenza di giochi. Esse rafforzano la tendenza alla passività e al disimpegno. […] Esse bloccano, fissano l’attenzione su una pericolosa monotonia, appena sufficientemente diversificata da non stancare, ma abbastanza ossessionante da addormentare e incantare le coscienze”[2].

Oggi, le contemporanee piattaforme domestiche (dalla Playstation, alla Xbox, alla Nintendo Wii) non hanno nulla da invidiare ai giganteschi apparecchi a monete; con la Wii in particolare, neanche più alcuni simulatori da luna park hanno voce in capitolo. Ciascuna delle esperienze che un tempo venivano vissute in luoghi pubblici, lontani dalla propria stanza, ora possono essere provate senza muoversi di un metro, senza la richieste dello sforzo determinato dallo spostamento o dall’accaparramento di monete varie. Neanche a dirlo, questo esclude uno degli ultimi baluardi di luogo antropologico che ancora sussisteva, tutto a vantaggio dell’isolamento; e se è vero che tali console sono decisamente più stimolanti e divertenti se fruite in coppia o in gruppo (pensiamo al trionfo di un gioco come Winning 11) – seppur questo riesca almeno a restituire importanza e centralità all’esperienza condivisa – ciò che accade è che, in ogni caso, il divertimento non trova ostacoli dinanzi a sé.
In sala giochi, una volta terminate le monete, il divertimento è finito, e bisogna ingegnarsi al fine di raccapezzare qualche altra moneta per proseguire a divertirsi; così come la singola partita (con la sua necessaria spesa delle vecchie “500 lire”) acquisisce un’importanza radicale, viene vissuta ed esperita con un senso di sfida e di impegno ormai perduto dinanzi alla “partita infinita” che invece la console domestica offre. Un tempo, la logica del divertimento era sempre legata alla responsabilità del (seppur minimo) investimento, e al calcolo della spesa in relazione all’effettivo divertimento che il gioco avrebbe reso (spettava al giocatore ritenere meglio spese 1000 lire per un gelato o per un paio di partite a Street fighter II) ; oggi invece, le diffuse riunioni tra amici, le organizzazioni di tornei in salotto, potrebbero non finire mai; ogni partita persa rimanda a una rivincita, che non ha, per il giocatore, lo stesso peso della partita per la quale egli ha speso del denaro, poiché, male che vada, ha sempre la possibilità di una nuova ed ennesima sfida. Il divertimento è potenzialmente infinito, indubbiamente, ma perdendo la sua controparte dialettica (ovvero la responsabilità), degenera o in euforia, o in alienazione psicologica e fisica (non c’è orario a quale dover tornare a casa, perché già vi si è).

Oggi per molti si tratta di autentica dipendenza: è un divertimento deviato e pericoloso perché, a differenza di un approccio sano, si concentra su un’unica esperienza ripetuta all’infinito, e devitalizza lo spirito di innovazione, l’ambizione per la novità, la ricerca di nuove fonti di stimoli e interessi. Semplicemente, non c’è nulla da perdere. E proprio questa impostazione mentale è una delle cause dell’irrefrenabile declino e sconfitta delle nuove generazioni, sconfitta che è sotto gli occhi di tutti. Piuttosto che annoiare, il sempre-uguale sembra garantire un divertimento costante, riducendo il senso del tempo e il suo potenziale a ben poca cosa.

Dopo tale digressione, torniamo a Caillois e al videogioco elettronico. Il videogioco è un universo sfaccettato e complesso, le quattro categorie di Caillois sono tutte applicabili ad esso: l’agon si manifesta nella competizione o col processore (che si incarna nell’avversario o nei nemici da combattere) o con l’amico quando si gioca “in due” (come abbiamo detto, la dimensione “Playstation” svilisce l’agonismo perché non mette nulla realmente in palio, mentre la partita in sala giochi viene “pagata”), l’alea è a fondamento del videopoker e nelle slot machine (che, non è un caso, hanno preso il posto dei vecchi videogiochi in quanto hanno reintrodotto la messa in palio fino a degenerare nel vero e proprio gioco d’azzardo), l’ilinx si manifesta nel sentimento di vertigine dinanzi a videogiochi tecnicamente stupefacenti, capaci di farmi provare esperienze di interattività uniche e di forte coinvolgimento patico (e ne sono importanti rappresentanti anche i simulatori in 3D fino a quelle giostre interattive che continuano a resistere al predominio della console domestica, sfoggiando effettisti digitali sempre più sorprendenti), la mimicry è alla base di giochi sul web quali Pet society e i cuccioli della Nintendo DS.

Cuccioli per Nintendo DS

Mentre la maggior parte dei videogiochi sono volti a delle finalità determinate (rispondere ai quesiti, fare il punteggio più alto, finire il livello, giungere alla conclusione, eliminare tutti gli avversari ecc.), in quelli della mimicry non vi sono finalità di tal tipo. La mimicry è quell’attitudine antropologica capace di attribuire a un oggetto, a una persona (anche il teatro è ricondotto a questa logica, in Caillois), a un’entità qualsiasi un ruolo e una funzione che non appartengono realmente ad essi. Per spiegare meglio a cosa si riferisca tale categoria, facciamo l’esempio che fa Caillois, ovvero la bambola, uno dei giochi più longevi, antichi e ancora oggi diffusi tra le bambine. Giocare alle bambole, d’altronde, non comporta delle finalità specifiche: non è prevista la “fine del gioco” in funzione della conclusione di una specifica attività, non c’è “partita”.
Il successo della “bambola” sta soprattutto nella capacità che essa ha di stimolare l’immaginazione: essa è inerme, immobile, è solo la fantasia di una bambina è in grado di offrire a lei un qualche tipo di vitalità ed esistenza. I simulatori delle moderne interfacce ludiche sono assimilabili proprio alla bambola della quale sono eredi, tenendo però conto del diverso tipo di fruitori (il passaggio dai bambini agli adulti), che ha a che fare con ciò che abbiamo appena sostenuto, relativamente alla funzione che nel “gioco” assume l’attività immaginativa. E il livello di immaginazione è inversamente proporzionale alla qualità tecnica, alla sovrabbondanza di caratterizzazioni, alla tendenza a confondere vita e simulazione.

I videogiochi con cuccioli e avatar sono bambole postmoderne, non più fruite da bambini, pregiudicando il tipo di rapporto che viene instaurato. Ogni bambina ha e ha avuto una sua bambola privilegiata e preferita, dalla quale sarebbe stato quasi impossibile allontanarla; l’allontanamento è avvenuto per tutte le bambine (eccetto per i casi patologici) per ovvia conseguenza dello sviluppo mentale, che le ha introdotte in un successivo stadio di crescita. Le bambine che nel corso della loro infanzia cambiano rapidamente la loro idea sulle proprie bambole, mutando repentinamente la bambola privilegiata sulla quale investire la propria carica emotiva, sono solitamente le bimbe più capricciose, spesso le più viziate, alle quali viene offerta la possibilità di soddisfare continuamente le loro velleità o fissazioni.

Le più sanno che prendersi cura di una bambola significa trattarla come un figlio, sapere che magari non è l’ultimo modello, magari è malandata, ma resta pur sempre “la mia”, quella che mi ha accompagnato già per diversi anni e che io non scambierei per nessun’altra bambola. È un modo come un altro, anche questo, di mettere in luce il principio della responsabilità di contro a quello della fruizione senz’anima dettata esclusivamente dalla logica del divertimento e del consumo (e si può evidenziare qui come questa impostazione abbia radici profonde, fin dall’infanzia). Col videogioco il problema è che l’allontanamento non può avvenire a causa della naturale “crescita”, e perciò per lo svezzamento esistenziale e l’approdo nel mondo degli adulti, perché i partecipanti al gioco sono già belli che cresciuti. L’allontanamento o la perdita di interesse per un determinato simulatore, perciò l’abbandono di un animale virtuale per esempio, è verosimilmente assimilabile a quello della “bambina capricciosa”: ci si è stancati di quell’impegno, ci siamo convinti che sia stupido dedicargli tempo, ci siamo accorti della sua inutilità nonché della sua infantile banalità, e ci dedichiamo a qualcosa di nuovo, che però a sua volta sarà un nuovo simulacro di divertimento. La mancanza di immaginazione, ovvero la fruizione meccanica del fenomeno, mi costringe a un perpetuo inappagamento, e perciò a una necessaria perdita di interesse per l’oggetto al quale di volta in volta mi relaziono; tale perdita non rappresenta un’autentica crescita psicologica, ma solo uno spostamento della carica emotiva a un altro oggetto di interesse, che durerà anch’esso ben poco.

Se è il divertimento la pietra angolare che regola la temporalità, quando subentra il seppur minimo fattore di responsabilità allora si preferisce “ricominciare” lì dove è il divertimento indiscriminato e regolare l’ attività – magari trascinati dal fascino della scoperta e dell’apparente novità, che si rivela essere subliminalmente un “eterno-sempre-uguale”. Non si tratta di un’accusa, ma del naturale decorso delle cose, soprattutto nel mondo consumista della postmodernità, che rivela una mentalità culturale, una psicologia, una modalità di comportamento più generali, che implicano delle conseguenze nefaste nella nostra società attuale. Solo per far comprendere meglio questo passaggio con un esempio facilmente comprensibile: il primo rischio è quello di comprendere e concepire l’animale domestico “vero” come fosse un “pet digitale”, e perciò oggetto di un investimento emotivo solo provvisorio, inautentico, dettato dal capriccio, dal mettersi in gara con l’amico, dalla mera curiosità o peggio ancora dalla mera “tenerezza”.
Il disinnamoramento per il proprio animale domestico, e la perdita di interesse nei suoi confronti, o il rifiuto di continuare ad assumere dei doveri nei suoi confronti nel bene quanto nel male, sono fenomeni che evidenziano la deriva del senso di responsabilità, il rifiuto di dedicarsi a qualcosa d’altro dal sé poiché tale pratica “non diverte più”.

Note

[1] R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano 2007, p. 103.

[2] Ivi, pp. 213, 216.

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