Nel castello (morte di un artista) di Giorgio Pressburger, allestito in prima assoluta con soprattitoli in italiano nella sala del ridotto del Teatro Stabile Sloveno di Trieste, e in replica fino al 3 dicembre, è un testo non facile da approcciare che denota, da parte dell’autore, un’immaginazione talmente complessa da lasciare spazio a molteplici interpretazioni a seconda di come lo spettatore si pone nei confronti dello spettacolo e di quello che gli attori riescono a trasmettergli.
Giorgio Pressburger (1937-2017) , nato a Budapest da famiglia ebraica e naturalizzato italiano, ha vissuto in prima persona la persecuzione nazista e la fuga disperata dal suo paese per poi diventare una delle voci più importanti sia del mondo della letteratura che del teatro. Come spiega il regista dello spettacolo Alessandro Marinuzzi nel programma di sala, generalmente era Pressburger stesso a occuparsi della regia dei suoi testi. Così, quando nel 2008 l’autore espresse il desiderio che fosse proprio Marinuzzi a dirigere il possibile futuro allestimento, il regista rimase spiazzato ritenendo che forse Pressburger avesse in un certo senso paura di quello che la sua mente aveva ideato. Ad anni di distanza, e dopo la morte di Pressburger, Marinuzzi ha avuto l’occasione di mantenere quella promessa omaggiando l’autore e mettendoci del suo, come è giusto che ogni regista faccia.
Nel castello è un testo lineare nella sua evoluzione, ma complicato nella lettura che se ne può dare. Ogni spettatore, infatti, in base al personale bagaglio culturale, alla forza della sua immaginazione e al contatto diretto con i personaggi a cui gli attori danno vita, è in grado di cogliere sfumature diverse e dettagli che possono anche portare a un punto di vista inedito sulla storia e il suo significato.
Quello che vi si legge in superficie è un ambiguo rapporto di dipendenza/ossessione tra un padre, grande artista, e un figlio adottivo/amante all’interno di un castello molto bramato da entrambi in cui il padre risiede e sta progressivamente morendo. A questo rapporto a due si unisce la moglie del figlio, che ci tiene a sottolineare l’importanza del suo ruolo nel conferire una certa rispettabilità a quest’ultimo, e il signore del castello che è colui che in tutti questi anni ha permesso alla famiglia di risiedere nella dimora ed è deciso a sbatterli fuori.
Andando a scavare più a fondo, emerge che questo castello è la metafora di un “qualcosa”, ma esattamente di cosa spetta allo spettatore deciderlo, ed è questo il bello di un’opera così concepita. Certamente si parla di una vita che sta finendo e di un corpo che si sta deteriorando, quello del padre, dell’artista, ormai impossibilitato a sfuggire alla morte eppure in perenne lotta per rimandarla il più possibile a costo di aggrapparsi all’esistenza con tutte le poche forze rimaste, ma c’è anche il prestigio, in tutte le sue sfaccettature, quel desiderio di preservarlo e non perderlo mai, imbrogliando anche le carte pur di mantenerlo.
Il rapporto padre/figlio è di quelli estremi e più intensi sul piano teatrale: affetto, invidia, violenza, sesso, sono tutti elementi che lo caratterizzano, e se i personaggi dell’opera fossero solo loro sarebbe un gioco al massacro a due, di quelli che però si sono già visti spesso sul palco. La moglie del figlio e il signore del castello introducono nuove variabili, e un punto di vista esterno, che portano ad ampliare la visione dello spettatore inducendolo a porsi ulteriori domande.
L’allestimento nel ridotto del teatro è azzeccato. Questa scelta permette una maggiore vicinanza con il pubblico e interazione con lo stesso, anche perché lo spettacolo è molto fisico. Non vediamo un padre morente steso a letto che si lamenta, ma un uomo in continuo movimento, un personaggio che manifesta con il suo corpo i suoi tormenti, e il figlio, la nuora e il signore del castello non sono da meno nell’esprimere fisicamente i sentimenti che li pervadono, con il loro prendere possesso della scenografia, degli oggetti di scena, sedersi a cavalcioni sulla parete di fondo, legarsi alle colonne, uscire da un lato per poi spuntare dall’altro, guardare negli occhi il pubblico come alla ricerca di un complice.
Quello che emerge è un grande lavoro di squadra: tra regista, attori e tutto il comparto tecnico dietro all’allestimento dello spettacolo. Ogni attore, anche chi ha un ruolo secondario, dimostra di sentire il testo, di averlo reso suo e di essere fiero di apportare il proprio personale contributo all’interpretazione del suo significato. L’opera non è certamente di facile accessibilità, ma lo spirito che si respira nel vederli recitare è qualcosa di unico.
Foto: Arhiv SSG Trst
V gradu (Smrt umetnika)
di Giorgio Pressburger.
Regia: Alessandro Marinuzzi
Traduzione: Janko Petrovec
Cast:
Alojz Svete
Primož Forte
Eva Mauri
Franco Korošec
Elena Husu
Marko Škabar
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