Più passa il tempo e più riesco a capire quei lettori tirati su a Cino e Franco che gridarono allo scandalo quando su Comic Art comparve Andrea Pazienza. Non condivido il loro parere sul fumettista, ma mi rendo conto di quanto sia difficile stare al passo con le evoluzioni dei tempi.
Martin Panchaud è il nuovo fenomeno editoriale d’Oltralpe: svizzero francofono, ha scritto e “disegnato” Il colore delle cose, un’opera che consiste in palline di colore diverso viste dall’alto che recitano in planimetrie costruite ad hoc. In realtà la cosa è un po’ più articolata di così: a volte le sfere sono sostituite da altre figure (nella fattispecie, una balenottera azzurra che avrà un certo rilievo nella storia), e non manca qualche inserto di varia natura come una tavola anatomica per spiegare perché colpire al fegato fa più male che sulla cassa toracica. Ma la sostanza non cambia: è tutto realizzato con tecniche digitali.
Il lavoro di Panchaud è stato oggetto in Francia di alcune perplessità, se non di polemiche vere e proprie: è giusto che a fior fiori di sceneggiatori sia stato sempre negato il Grand Prix al festival di Angoulême con la giustificazione che non sanno disegnare, quando invece viene dato il Fauve d’Or a lui che demanda quella parte del lavoro a una macchina? «I tempi cambiano. I punti di vista anche. Niente è semplice…» è la conclusione (che non conclude nulla) a cui sono giunti i redattori di CaseMate numero 171.
Martin Panchaud si è fatto notare con un lavoro originale: le infografiche su Star Wars. In origine avrebbe voluto realizzare quelle di 2001 Odissea nello Spazio, ma si rese conto che il pubblico sarebbe stato fisiologicamente più ridotto. Come ha dichiarato all’incontro con la stampa, questi lavori nascono dall’unione dei suoi studi: da una parte quelli in multimedia e dall’altra quelli di grafica pubblicitaria. Ma il suo percorso di autore è più complesso. Proprio mentre studiava multimedia entrò in contatto con altri studenti che leggevano fumetti o li realizzavano in prima persona e questo portò il suo sguardo al mondo della BéDé, cioè del fumetto franco-belga. A dimostrazione del fatto che in Francia (o in questo caso nella Svizzera francofona) non vale il luogo comune secondo cui se non si leggono i fumetti da bambini non li si leggerà più: è perfettamente possibile cominciare a leggerli e apprezzarli anche dopo i vent’anni.
Martin Panchaud contribuì anche a realizzare una fanzine, dove sviluppò il suo stile personale. Ammette però che il suo immaginario si nutre principalmente di cinema e videogiochi, non di fumetti. E infatti approfondendo il discorso sul fumetto si scopre che in realtà più che un lettore sembra uno di quegli autori ammirati dal fascino per così dire accessorio del mondo della letteratura disegnata: non cita infatti delle opere che gli siano servite in qualche modo di ispirazione, ma dice di apprezzare più che altro la capacità di mettersi in discussione di certi autori, di non rimanere fermi in uno schema fisso; cita David Mazzucchelli che dopo varie incursioni in altri territori e generi si reinventò con Asterios Polyp. Più che le opere in sé, sembra che a Panchaud piacciano le complicazioni che presentano, e infatti dice che non gli interessano le cose facili da fare, ma preferisce affrontare sempre nuove sfide. La parte che lo soddisfa di più del suo lavoro è la fase di progettazione di una tavola, capire come risolvere i problemi che lui stesso si è inventato.
Le domande dei giornalisti in sala permettono di approfondire aspetti del lavoro e del pensiero di Panchaud: per quel che riguarda l’elemento tecnico del lavoro, i programmi che usa sono Illustrator per disegnare le immagini e In Design per impaginare le vignette.
Nonostante il ricorso esclusivo al computer, Panchaud non è affatto favorevole a una conversione di tutta la BéDé al digitale, ritiene anzi necessario che vi sia una pluralità di stili e di modi di raccontare, e non pretende nemmeno che il suo stile si imponga sugli altri.
Le intelligenze artificiali, argomento piuttosto spinoso di questi ultimi mesi (non solo nel campo del fumetto) non sono per Panchaud un pericolo per i fumettisti realmente creativi: secondo lui a farne le spese saranno principalmente quegli autori che per così dire “fanno il compitino”, cioè applicano le solite soluzioni canoniche. Quelli che invece operano in maniera totalmente originale non rischiano nulla.
Per quel che riguarda l’importanza del talento nel suo lavoro, cita Jacques Brel secondo cui «il talento è la voglia» (sottintendendo la voglia di fare): per Martin Panchaud un’opera si produce con l’1% di talento e il 99% di lavoro.
L’incontro si conclude con una séance de dédicace originale: invece di fare il classico disegnino con cui i fumettisti francesi decorano l’albo appena venduto, Panchaud tira fuori dal suo cappello a cilindro uno strumento di sua invenzione: una specie di plotter (o è più giusto chiamarlo pantografo?) a cui invia da un computer portatile l’impulso dell’immagine che andrà a decorare il volume. Sceglie il pennarello giusto da applicare alla macchina, imposta l’operazione e les jeux sont faits. Ovviamente chi conosce la BéDé non è nuovo a performance bizzarre, tra autori che strappano o bruciano o passano con la moto sopra i loro albi, ma la quasi totale esclusione dell’elemento umano trasmette una sensazione un po’ inquietante. È vero che Pedro Oyarbide nella sua conferenza si esibirà in una “dédicace” che consiste semplicemente nell’apporre un timbro che ha costruito lui stesso sul frontespizio di un libro, ma in quel caso ha dovuto comunque esercitare in prima persona la pressione per far attecchire l’inchiostro, non ha delegato tutto il lavoro a una macchina.
Il lavoro di Panchaud è solo una bizzarria o un’anticipazione di quello che diventerà il settore tra qualche anno? È legittimo che Panchaud vinca il Grand Prix di Angoulême se il suo lavoro è più quello di un programmatore che di un disegnatore? Si può ancora parlare di fumetto? Di fronte alle vendite accertate in Francia di quarantamila copie (ma l’ufficio stampa di Coconino mi informa che adesso ha toccato quota cinquantamila) sono domande che non ha senso porsi.
Una volta si sarebbe detto che il futuro ci darà le risposte, ma il futuro è già qui. E a me è venuta voglia di rileggere Cino e Franco.
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