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Scrittura

Lascia che la carne istruisca la mente: Intervista a Anne Rice (II)

Lascia che la carne istruisca la mente: Intervista a Anne Rice (II)

La presente intervista è tratta da The Anne Rice Reader, Writers Explore the Universe of Anne Rice, Ballantine Books, New York 1997, pp. 55-73, ed è stata originariamente pubblicata sulla rivista Quadrant: The Journal of the C.G. Jung Foundation for Analytical Psychology, New York 1991. L’autrice è la studiosa Katherine Ramsland, curatrice di molte opere che analizzano a fondo la letteratura e i personaggi di Anne Rice (1941-2021), che ne detiene il copyright. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.

La regina dei dannatiKatherine Ramsland (KR): Ha detto che un tempo voleva farsi suora. Secondo lei c’è un legame tra il fascino popolare nei confronti della figura del vampiro e la denigrazione dei sacramenti in quanto riti magici da parte della Riforma protestante?

Anne Rice (AR): Il vampiro ha fatto la sua comparsa in letteratura proprio quando la Riforma stava guadagnando ascendente, e certamente rappresenta la vecchia Europa cattolica. Sono sicura che i miei stessi vampiri vengono interpretati come figure che incorporano la magia del cattolicesimo della mia infanzia. Hanno il potere dei santi: possono fare miracoli e trascendere il tempo.

KR: Pensa che le riforme del Concilio Vaticano II siano state un errore?

AR: Non sarebbe corretto da parte mia parlare a lungo sull’argomento. Ho abbandonato la Chiesa nel 1960. Ho la sensazione che la Chiesa Cattolica abbia distrutto le profonde tradizioni di cui le persone avevano disperatamente bisogno. E molta gente se n’è andata.

KR: Il vampiro ha qualcosa da offrire in termini di trasformazione spirituale?

AR: Il vampiro rappresenta qualcuno che ha trasceso il tempo e trasformato se stesso in un essere immortale diventando come un santo oscuro – un essere con tutti i poteri che trascendono il corruttibile. Rappresenta l’ardente desiderio dell’immortalità e della libertà. Ammettendo che possa essere bellissimo.

KR: La nostra cultura ci nega questo?

AR: Sì, la nostra cultura ci dice di essere persone pratiche e di affrontare il fatto che nulla dura per sempre. A questo riguardo, siamo una cultura molto protestante. Si pone notevole enfasi sul lato pratico. Quando la gente mi dice: “Perché non scrivi di quello che conosci?”, oppure: “Perché i tuoi romanzi sono così diversi?”, quello che in realtà sta dicendo è: “Perché non scrivi il classico romanzo protestante – una storia incentrata su dei gran lavoratori che fanno il punto delle loro vite e cercano di mettere in atto un singolo istante di illuminazione o introspezione?”. Persino i personaggi dei romanzi dicono agli scrittori di scrivere di quello che conoscono, tenendo a freno la loro immaginazione.
Prendiamo ad esempio una storia come Il mago di Oz. Dorothy parte per il regno di Oz, che è come la mia finzione, piena di streghe e maledizioni e castelli e ombre, ma salta fuori che è tutto un imbroglio e un incubo. Dorothy finisce per tornare in Kansas e capisce che “la felicità è nel cortile di casa tua”. Se lo ricorda quel cortile? I maiali e la fattoria? Questo è quello che la nostra cultura insegna attualmente alle persone. Stai lì nella tua fattoria; non scappare nella grande città, perché ci troverai solo corruzione e peccato e malvagità.
E alla fine del Mago di Oz Dorothy cosa ottiene? Il conforto della mediocrità. Se ne starà con zia Em e i maiali per il resto dei suoi giorni. A me interessa altro – quello sforzo d’immaginazione in un altro ordine dell’essere, la reinvenzione del sé. Le mie opere sono piene di episodi in cui le persone sono distrutte e a pezzi e devono reinventarsi, come il cantante Tonio in Un grido fino al cielo quando viene castrato, o Louis in Intervista col vampiro quando viene trasformato in vampiro. Poiché la religione perde come per magia la sua presa sulle persone, le persone sono costrette a reinventarsi in termini di nuove idee.
Credo che il mio vedere la questione come una dicotomia Protestante/Cattolica sia dovuta al fatto che sto leggendo un libro di Ioan Petru Culiano, Eros e Magia nel Rinascimento. L’autore sottolinea come gli esercizi di spiritualità ignaziana, che facevano parte della Controriforma, incoraggiassero l’immaginazione sensuale. Dovevi immaginarti come Gesù, curvo sotto la croce; provare quello che si prova a sentire i chiodi che ti trafiggevano le mani. Alcuni dei problemi con cui si confrontano i miei vampiri – questioni riguardanti il bene e il male e l’esistenza o meno di Dio – sono indubbiamente le preoccupazioni della religione della mia infanzia.

Anne Rice

KR: I suoi libri sono una forma di creazione del mito?

AR: Non so come rispondere a questo. Non possiamo sfuggire al mito. Anche se siamo laici e non emozionali, sperimentiamo situazioni in cui siamo consapevoli del mito, sia che siamo in grado di descriverlo oppure no. Siamo consapevoli che stiamo vivendo un momento archetipico. Ad esempio, quando io vado a un matrimonio e un uomo si gira verso la figlia e le scosta il velo, e poi si gira verso lo sposo, quello è un momento archetipico che mi fa venire i brividi.
L’immagine del vampiro possiede una potenza di questo tipo. Risveglia qualcosa in noi che ci riporta indietro agli dèi dei tempi antichi. L’immagine è seducente, affascinante – un essere che prosciuga la nostra vita in modo che lui, o lei, possa vivere. In modo alquanto indefinito, l’idea di essere sacrificati a un dio di questo tipo assume toni romantici.

KR: Scrivere “di quello che si conosce” è da considerarsi per forza banale e privo di risonanza mitologica?

AR: No. La mia obiezione al consiglio dato in buona fede di “scrivere di quello che conosci” non vuole dire che il comune sapere è banale, ma che anche quello che conosci nella tua vita fantastica è “quello che conosci”. La dicotomia è falsa. Dire oggi a un giovane scrittore di scrivere di quello che conosce anziché scrivere fantasy è assurdo quanto lo sarebbe stato dire a Shakespeare che avrebbe dovuto scrivere del suo rapporto con la moglie invece di Amleto. Quello che le sorelle Brontë conoscevano erano le loro fantasie, e i loro romanzi sono legittimi e potenti quanto quelli basati sull’esperienza personale.

KR: Pensa che il fantasy epico sia il solo luogo in cui trovare grandi domande e intense passioni?

AR: No, ma glielo dico, come genere è quasi imbattibile. Per migliaia di anni il fantasy è stato il mezzo con cui le persone parlavano del vero senso della vita. Non è un caso che le parole “essere o non essere” compaiano in un testo teatrale che inizia con un fantasma. Il fantasma parla di colpa, amore, perdita e crudeltà, tutte domande fondamentali che è impossibile porre nei cosiddetti romanzi “realistici”, perché spesso sono cinici e troppo sofisticati. Se lei sta scrivendo un romanzo ben fatto su una donna che sta divorziando alla periferia del Connecticut, non può farla sedere al tavolo della cucina e farle dire: “Perché esisto?”. Parlerà in termini velati del suo stato di alienazione. Questo tipo di narrativa si è messa da sola in un angolo. Soddisfa la convinzione che nessuno parli del senso della vita. Il senso della vita diventa il tipo di domanda che le persone si pongono nelle loro “fantasie”. Continuo a utilizzare la parola fantasy ma non è del tutto corretta.

La regina dei dannatiKR: Quale parola userebbe?

AR: Fiction immaginativa. Nel Macbeth ci sono le streghe ma non è un fantasy. Mi riferisco a quelle opere che hanno personaggi straordinari, mitici, forze in lotta. Nella nostra cultura è profondamente radicata l’idea che la verità è insita nel familiare, nell’ordinario, addirittura nella classe media. Abbiamo perso la fede nella fiction immaginativa, e gli scrittori più raffinati se ne sono allontanati. Ma mi rifiuto di credere che il fantasy non possa avere un’enorme portata, ed essere profondamente valido e significativo. Insisto nello scrivere come le persone scrivevano due secoli fa. Credo che questa sia un’epoca spaventosamente sterile. Non abbiamo nemmeno un Faulkner o un Hemingway in grado di trasformare la normalità in mitologia culturale. Ci sono persone che corrono al cinema a vedere Il silenzio degli innocenti perché Hannibal Lecter è quanto abbiamo di più vicino a un personaggio splendido. La letteratura del nostro tempo non ci conduce molto oltre; ci lascia con una donna, a Berkeley, che abortisce, vive un istante di illuminazione, fa pace con il suo ragazzo e cucina la cena.

KR: Pensa che questa sia una cultura maschilista?

AR: Vorrei risponderle di no, ma è una domanda complicata. La nostra cultura è profondamente influenzata dalla vita domestica e dalle donne, ma le donne, in generale, fanno quello che gli uomini le costringono a fare. Una volta lessi un libro su come le scribacchine del diciannovesimo secolo presero il controllo della letteratura e alla fine buttarono fuori autori come Hawthorne e Melville. Parlo di scribacchine come Harriet Beecher Stowe, autrice della Capanna dello zio Tom. La parola scribacchine è un termine denigratorio per indicare le donne che scrivevano libri bigotti che si conformavano esattamente a quello che i ministri del culto pensavano che le persone dovessero leggere. Penso che questo tipo di atmosfera ci accompagni ancora – donne che si conformano alle idee degli uomini riguardo al decoro domestico, anche se i loro mariti fanno mostra di non essere costretti in un noioso ambiente domestico.
KR: Ho posto la domanda perché mi parlava del fatto che la cultura sta perdendo la fede in tutto a parte il realismo oggettivo. Una cultura razionale viene di solito considerata maschilista.

AR: Non credo che l’essere razionali abbia niente a che vedere con l’essere maschilisti. Gli uomini sono completamente irrazionali – vanno in guerra, stuprano, uccidono, prendono le persone a randellate. Il crimine è irrazionale e la maggior parte dei crimini, negli Stati Uniti, è commesso da uomini. Dire che questa è una cultura maschilista perché è razionale è ridicolo. Si potrebbe anche affermare che sono le donne a fornire il peso razionale alla cultura.

KR: Le lesbiche hanno accolto i suoi romanzi con lo stesso entusiasmo con cui li hanno accolti i gay?

AR: Ho un pubblico molto ampio di lettori omosessuali, sia uomini che donne, e ne vado molto fiera. Le donne nei miei romanzi sono androgine e forti. Sfidano le convenzioni e cercano di ottenere la libertà. Penso che l’intero pubblico omosessuale risponda al fatto che questi personaggi non sono definiti dal loro orientamento sessuale, ma sono a tutti gli effetti bisessuali; amano indipendentemente dal genere. Ogni volta che ne scrivo, per me questi personaggi sono vivi. Quando scrivo, per me gli uomini e le donne hanno lo stesso fascino. Non riesco a vederla diversamente.

KR: Ha familiarità con le convenzioni misogine delle tradizionali storie di vampiri?

AR: Personalmente ho una visione diversa delle tradizionali storie di vampiri, non le vedo come misogine. Nel Dracula originale, gli uomini non odiano le donne; infatti rivolgono tutto il loro odio verso la figura maschile del vampiro. Provano repulsione per l’animalesca mascolinità del vampiro – i palmi villosi, la pulsione animale. Sono puritani di epoca vittoriana incapaci di ammettere la loro sessualità che vogliono proteggere le donne da essa.

KR: Quando parla del Dracula originale si riferisce alla versione di Bram Stoker.

AR: Sì. Alla parte che sono riuscita a leggere. Le confesso di non essere riuscita a leggerlo tutto. Ho letto i primi capitoli riguardanti Jonathan Harker, qualcosa della parte centrale e poi la fine. E ho letto alcune descrizioni della trama.

KR: Non pensa che la descrizione che viene data delle donne, nel romanzo di Stoker, sia di esseri deboli e stereotipati?

AR: Non mi pare che la descrizione di queste donne le veda come più deboli rispetto a Jonathan Harker. Nella scena in cui lui si trova nella stanza con le donne vampiro, è a tutti gli effetti una vittima sessuale. La letteratura sui vampiri rovescia sempre le convenzioni di genere. La cosa non mi è nuova. Renfield e Harker sono vittime quanto Mina e Lucy. Infatti, quando Lucy viene trasformata in vampiro, la scena è carica di vitalità e magia nera.
Se torniamo indietro al Lord Ruthven di Polidori e a Le Fanu, la letteratura sui vampiri dice sempre che il genere non conta. Quello che conta è un desiderio più profondo di essere dominati, e la risposta a tale dominazione e al terrore di colui che soddisferà questo desiderio.

KR: Ci sono altri simboli nella cultura occidentale, oltre al vampiro, che ha avuto modo di esplorare e amplificare?

AR: Credo di aver esplorato un aspetto della dea madre con la figura della regina in La regina dei dannati e con quella di Gabrielle, la madre di Lestat: la dea fredda e senza cuore che lascia – per usare le parole di Robert Graves – “le ossa dei poeti sparse intorno a sé”. In questo libro, esploravo anche per intero la figura del padre e maestro – il paternalistico uomo saggio. La vedevo più in Marius che in chiunque altro. Marius crede nell’autorità e ha grande consapevolezza della sua autorità.

Il vampiro MariusKR: Attraverso la figura di Marius lei descrive anche la brama di un senso di coscienza continua. In che modo pensa che questa brama sia parte di ciò che lei è?

AR: Ho sempre trovato molto seducente l’idea della coscienza continua – qualcuno che sa tutto quello che è accaduto da sempre e perché. Mi dispiace che non esista, ma è un’idea che davo per scontata da bambina. Credevo che nel giorno del giudizio ci sarebbe stato un istante di grande illuminazione – quando ognuno di noi si sarebbe riunito e la verità di ogni singolo istante sarebbe stata pronunciata. Mi conforta molto leggere di esperienze di quasi-morte in cui le persone affermano di essere sottoposte a una sorta di revisione della loro vita e di vedere davvero il modo in cui le loro azioni hanno influenzato la vita di altre persone. Ma questa non è la consapevolezza continua come la immagino io. Quand’ero bambina ho sempre pensato che qualsiasi cosa tu stessi facendo, un giorno, qualsiasi fosse stato il malinteso al parco giochi, tutto si sarebbe risolto. Ci sarebbe stato un momento di consapevolezza e giustizia e armonia.

KR: Che cosa rende così seducente questa idea?

AR: È seducente perché porta con sé una promessa di ordine, di riscatto di ogni forma di sofferenza, dolore e confusione. Di riscatto di ogni cosa in un momento di grande illuminazione e comprensione. Penso che i fraintendimenti siano strazianti. Dev’essere interessante crescere senza l’idea della coscienza continua – credere che le tue azioni accadano in privato. Io non sono ancora del tutto sicura che le mie azioni accadano in privato. Vivo la mia vita come se a qualcuno, alla fine della settimana, sarà raccontato tutto. È quello che succede quando vai a confessarti regolarmente. Credo di vivere ancora in questo modo.

KR: Pensa che la sua scrittura faccia qualcosa per sanare o redimere la cultura?

AR: È una domanda troppo grande per me per saperlo. A volte l’unica cosa che mi fa andare avanti è il fatto che quando scrivo mi sento più felice e che ci sono persone che capiscono perfettamente. A parte questo, non so.

KR: La sua scrittura è per lei un’esperienza di guarigione?

AR: Oh, sì. Mi sento completa e viva quando scrivo.

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