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Fumetto

Danijel Zezelj

Oltre la città del sole

 Lorenzo Bertuzzi (LB): La prima volta che ho visto un tuo lavoro fu durante un concerto di un gruppo sloveno qui a Trieste — mi pare fossero i Demolition Group, una band in cui suonavano due musicisti che avevano suonato con i Laibach. Prima che il concerto iniziasse, un signore passò tra il pubblico tentando di vendere alcune riviste a fumetti in sloveno e in croato. A dir la verità non comprai niente — mi dispiace — ma ricordo che presi nota del nome di un artista che mi impressionò moltissimo (indovina chi era…). In che situazione si trovava l’industria del fumetto del tuo paese a quel tempo, durante gli ultimi giorni della Yugoslavia? Esisteva una linea di produzione nazionale di fumetti o le differenze tra le varie repubbliche influenzavano gli artisti (mi riferisco soprattutto alla Neue Slovenische Kunst nel teatro e nella musica)?

Danijel Zezelj (DZ): In quegli anni, l’inizio degli anni ’90, la situazione stava già iniziando a sfaldarsi economicamente, politicamente e culturalmente, sebbene penso che nessuno si aspettasse che sarebbe scoppiata una vera guerra — eccetto forse l’esercito professionale e certi politici. L’atmosfera nell’ambiente della cultura, per lo meno a Zagabria (la città in cui vivevo), era un insieme di euforia, disperate speranze e paura. C’erano momenti di straordinaria creatività. Per quanto mi riguarda provavo un forte senso di mancanza di tempo (inconsciamente mi stavo preparando a lasciare il mio paese per sempre). Esisteva ancora la possibilità di pubblicare fumetti in diverse riviste in tutta la Yugoslavia e il mondo e il mercato dei fumetti non erano ancora divisi tra le diverse nazioni. Per la prima volta comparivano case editrici indipendenti. Zagabria rappresentava probabilmente il centro di produzione fumettistica più importante, e questo era in parte dovuto alla “Zagreb School of Animation” (un’accademia dell’animazione, che aveva una lunga tradizione alle sue spalle ed era riconosciuta a livello internazionale) e al fatto che a quel tempo stava ospitando molti artisti giovani. Io pubblicavo comics su molte riviste (di fumetti e non), ma non venivo pagato per quei lavori.

Immagine articolo Fucine Mute

LB: Ho letto che hai studiato all’Accademia di Zagabria. A parte gli studi “classici”, cosa ti ha influenzato agli inizi della tua carriera come disegnatore? Non mi pare che si possano trovare molte influenze della produzione di fumetti occidentale e, soprattutto, americana. Per quel che ho visto, i fumetti croati mi sembrano molto creativi e liberali, in un certo qual modo più poetici… una delle spiegazioni potrebbe essere quella specie di libertà dall’esempio e dalle imposizioni dei prodotti europei, francesi e americani.

DZ: A dir la verità, negli anni ’70 e ’80 vennero pubblicati moltissimi fumetti differenti. E siccome passavano una selezione piuttosto dura, potevamo vedere pubblicati alcuni dei migliori esempi della produzione fumettistica di tutto il mondo, specialmente dell’Europa. Tutto ciò lo capii solo alcuni anni dopo, perché non ho mai letto regolarmente nessuna serie, eccetto Alan Ford di Magnus & Bunker (ho sentito che vendevano circa 60 mila copie nella ex Yugoslavia…). Seguii per due anni i corsi in una ottima scuola d’arte a Zagabria, la Scuola d’Arti Applicate. Oltre all’impostazione classica nel disegno e nella pittura che ci veniva impartita, scopersi, grazie ad alcuni amici di scuola, le opere di artisti come Moebius, Liberatore, Tamburini, Tardi, Bilal, Eisner, Crumb, Breccia… Attraverso queste opere imparai a conoscere la capacità d’espressione e di comunicazione dell’arte fumettistica, la sua forza, la sua vitalità: sentivo che un nuovo spazio infinito si stava aprendo davanti a me. La scoperta più importante fu Muñoz: le sue opere e quelle di Sampayo ebbero un forte impatto su di me. In quel momento sapevo esattamente cosa volevo fare da grande: raccontare storie attraverso i disegni. Qualche tempo dopo seguii un corso di pittura classica all’Accademia delle Belle Arti, per quattro anni: diciamo che fui fortemente influenzato anche dalla pittura e dalla scultura rinascimentali, dal barocco, con i suoi chiaroscuri, e anche dai movimenti artistici d’avanguardia dell’Europa d’inizio secolo. Posso affermare di essere entrato nel campo dei fumetti dal lato visivo.

LB: Qui da noi, in Italia, i fumetti hanno qualche ‘piccolo problema’ nel vedersi riconosciuti come una vera e propria forma d’arte; negli Stati Uniti sono considerati più che altro una forma d’intrattenimento per bambini. Come venivano considerati i fumetti dalla cultura ufficiale in una repubblica socialista?

DZ: Non penso che i fumetti venissero considerati una forma d’arte, men che meno una forma d’intrattenimento. I fumetti erano un mezzo di comunicazione al margine (questa posizione aveva comunque i suoi vantaggi), erano liberi da un pesante controllo da parte della censura dei piani alti e, essendo un’attività che non pagava (proprio come il crimine…), solo i più fanatici venivano presi in modo tale da cercare di farne un lavoro. C’era qualcosa di puro in tutto questo.

LB: Quali sono i tuoi rapporti con il cinema? Ne sei influenzato nel tuo lavoro?

DZ: Sono influenzato dal cinema più che dalla pittura e certamente più che da altri fumetti. Molto forte è l’influenza dei film muti d’inizio secolo, i primi film russi e quelli della corrente espressionista tedesca. Nei film muti l’elemento visivo è essenziale: ogni fotogramma è ordinato e valutato attentamente, le immagini sono costruite sulla precisa armonia del bianco e nero, delle luci e delle ombre.

Immagine articolo Fucine MuteIl montaggio mette in movimento l’intera storia, stabilendo il ritmo del succedersi dei fotogrammi e del flusso della narrazione, molto stilizzato, ma drammaticamente efficace. I film venivano montati manualmente, con il principio del taglia e incolla, fotogramma per fotogramma. I film muti portavano in sé una sorta di tragica forza e bellezza che non ho mai ritrovato nei film girati nell’era del sonoro, del colore ecc. È anche interessante quanto sia vicino il principio di narrazione dei film muti a quello dei fumetti.

LB: “Sono affascinato dalle spaventose e minacciose prospettive di Zezelj…“. Come ti sei sentito quando è stata pubblicata l’introduzione di Fellini a”Il ritmo del cuore“? Qual è il suo film che ti piace di più?

DZ: L’introduzione di Fellini per “Il ritmo del cuore” fu un grosso complimento al mio lavoro. Sembra che Fellini leggesse i miei fumetti nella rivista “Il Grifo” (Editori del Grifo) e che gli piacessero molto. Il mio film preferito tra quelli che ha girato è Amarcord.

LB: Hai lavorato in sei paesi diversi: quali sono le differenze più rilevanti tra il modo di pubblicare fumetti in Europa e negli Stati Uniti? Pensi che il fatto di aver iniziato a lavorare su una base più regolare per una major inciderà sul tuo lavoro o sulla tua indipendenza artistica?

DZ: Non sono un esperto di fumetti e non seguo da vicino l’ambiente fumettistico, per cui la mia risposta sarà totalmente soggettiva e arbitraria. Tra Stati Uniti ed Europa esiste una grande differenza nel concetto di fumetto e nella sua percezione, così come esiste una differenza nella percezione dell’arte. Negli Stati Uniti, i fumetti sono considerati (da un ampio pubblico) come merce da intrattenimento, soprattutto per ragazzi, come dicevi tu prima. Solo negli ultimi anni questa concezione sta cambiando poco a poco. In Europa, i fumetti sono invece considerati una forma d’arte, specialmente in Francia, ma sono ancora limitati creativamente dalle severe leggi del mercato. Sia in Europa che negli Stati Uniti, esistono i fumetti indipendenti, che sono più provocatori, più coraggiosi, più espressivi e, di conseguenza, più difficili da digerire. Il mondo underground è lo spazio in cui la creatività trova sfogo. Poi, però, se alcune di queste pubblicazioni ottengono successo, vengono trasferite al mondo delle major. Così facendo le case editrici più influenti rinnovano le loro linee editoriali, senza perdere la loro forza. Funziona così.

Lavorare per la Vertigo è un’esperienza del tutto nuova per me. Il processo creativo è più lento e più complicato, perché lavoro insieme a degli scrittori scelti dall’editor. Per fortuna ho un editor molto valido, le storie che mi arrivano sono interessanti, ben scritte. Il bello di tutta la faccenda è che sto imparando cose nuove, esercitandomi in un tipo di racconto visivo diretto ed efficace. Il brutto è che lo spazio per gli esperimenti è poco o nullo… e ciò mi porta a sperimentare ancor di più quando lavoro sui miei progetti personali.

LB: Che ne pensi della censura? Sai che in Italia è stato vietata la pubblicazione di “Psycopathia sexualis” di Miguel Angel Martin?

Immagine articolo Fucine MuteDZ: Il problema è che la vera censura non appare più nella forma del veto diretto alla pubblicazione da parte dell’autorità competente (nel qual caso è un’ovvia soppressione a cui ci si può opporre, che si può combattere… Ma c’è da dire, comunque, che l’opera che viene censurata riceve sempre pubblicità aggiuntiva). Di questi tempi, la censura va utilizzando sistemi sempre più sofisticati, ed è sempre più difficile riconoscerla, individuarla… Il confine tra positivo e negativo sta diventando confuso e lentamente stiamo scivolando in una zona grigia in cui non sono distinguibili né cose giuste né cose sbagliate, dunque senza conflitti, senza movimenti e senza direzione. Il Nirvana. Questa è la vera censura, ottenuta con successo solo nei sistemi più sviluppati, per esempio negli Stati Uniti. Il veto a “Psycopathia sexualis” è opera di una forma di censura ormai vetusta, quasi un esemplare da museo.

LB: Tempo fa hai portato avanti tre progetti multimediali e ora stai lavorando allo sviluppo di un CD-ROM… Cosa pensi delle nuove tecnologie? Credi che, in futuro, userai della grafica computerizzata nel tuo lavoro?

DZ: Le nuove tecnologie mi interessano solo se posso controllarle e utilizzarle come strumenti. Se iniziassero a comandarmi, imponendo la loro forma alla mia volontà, le prenderei a calci nel culo con dei vecchi anfibi sporchi comprati al mercato delle pulci a Monticello insieme a del pecorino e dei fichi di Sicilia.

LB: Sei una specie di vagabondo, ma io credo che tu sia molto legato alla tua patria… Cos’è per te ora la Croazia? Cos’hai provato alcuni anni fa quando hai sentito parlare Tudjiman dalle antiche mura di Knin?

DZ: Non ho visto discorsi politici, ma me lo sentivo che le cose sarebbero andate male. La mia famiglia proviene da diverse zone dell’ex-Yugoslavia, ma io sono nato a Zagabria e lì sono cresciuto. Quando scoppiò la guerra e lasciai Zagabria nel 1991, mentre viaggiavo in treno verso Budapest sapevo che stavo lasciando il mio paese per sempre. Non sono così strettamente legato alla Croazia. Sono legato ad alcuni ricordi e ad alcuni luoghi, ad alcune strade e ad alcuni odori. Sono molto legato ai miei amici e sono indissolubilmente legato alle persone che conosco e che amo.

LB: I sogni sono una costante nelle tue opere, rappresentano più che ogni altra cosa un portale che si apre su altri stati di coscienza o su altri luoghi della mente. Trai ispirazione dai tuoi sogni? Hai mai letto qualcosa di C. Castaneda?

DZ: Non traggo mai ispirazione direttamente dai sogni, sebbene questi influenzino innegabilmente le mie opere. Ho letto un libro di Castaneda, ma sto parlando di molti anni fa.

LB: All’interno dei tuoi progetti multimediali, hai lavorato anche con J. Lurie e in molti tuoi lavori la musica svolge un ruolo cardine. Che tipi di musica o che canzoni suggeriresti come colonna sonora delle tue graphic novel più famose?

DZ: Amo la musica ed è molto importante per me, ma non posso collegarla direttamente alle mie graphic novel. Il motivo è che i miei gusti musicali e i miei interessi cambiano: adesso non ascolto la musica che ascoltavo alcuni anni fa.

LB: Perché il boia, in “Sophia”, aveva le orecchie di Topolino?

DZ: Perché Topolino è un serpo (?!, ndr).

LB: Il male metropolitano che esprime la dicotomia tra essere umano e paesaggio urbano opprimente può essere considerato un leit motiv nei tuoi lavori. I profili delle città che disegni sono così opprimenti! Quasi un mix tra lo stile mitteleuropeo, la L.A. di Blade Runner e la Sagrada Familia… Odii le città? Hai mai visto gli studi preparatori delle prigioni di C. Piranesi?

DZ: Amo le città, le strade, gli edifici, le finestre, i balconi, i muri, le strutture… La città è un concentrato di energia umana sul punto di esplodere. È lo scontro tra il vecchio e il nuovo, dove passato, presente e futuro sono compressi in un blocco unico. L’architettura per me è un simbolo. Rappresenta lo spirito del tempo, pietrificato nei muri e nelle finestre, fluido invisibile racchiuso nella pietra da misure, proporzioni e forme: gli edifici sono dei perfetti romanzi fatti di pietre e spazi vuoti… ma alla fine è l’energia umana, sono le vite vissute dietro queste pareti che conferiscono loro bellezza.
Ho visto i disegni di Piranesi: l’elemento architettonico è in questo caso solo una copertura per la oscura visione espressionistica che vive al di sotto. Molte ombre…

LB: Nelle tue opere ritroviamo spesso un senso di solitudine e la voglia di fuggire da una vita ordinaria. È come se tutti noi, come il leone ne “Il ritmo del cuore”, fossimo ingabbiati e ci potessimo liberare solo ritrovando l’immaginazione e la creatività che abbiamo perduto. Il disegno è il tuo ‘tamburo’ o il tuo ‘pesciolino rosso’?

DZ: E qui non so proprio cosa rispondere… Innanzitutto credo che siamo tutti soli. Allontanandoci dalla nostra solitudine possiamo interagire con gli altri. Per quanto possiamo espandere la nostra prospettiva personale, la nostra esperienza, la nostra conoscenza, vediamo sempre il mondo con gli stessi due occhi, i nostri occhi. È insieme benedizione e maledizione, prigione e giungla. Tuttavia negli ultimi tempi ci completiamo solo con l’amore di e per qualcun altro, sebbene anche questa concezione stia mutando, evolvendo. Nulla rimane uguale per sempre e nulla è assoluto, tranne il cambiamento. Di modo che ci troviamo sempre in lotta per rimanere sulla superficie della corrente selvaggia, aggrappandoci alle rocce, affannandoci per respirare, ridendo e piangendo e sperando di raggiungere quel grande mare blu che è calmo e infinito… O forse no… Non lo so, non ci sono mai stato. Anche se lo sogno spesso.

LB: Nella maggior parte delle tue opere incontriamo dei simboli tribali. Provengono dal tuo inconscio o hai alcuni riferimenti culturali?

Immagine articolo Fucine MuteDZ: Ci sono dei momenti, i momenti più semplici del giorno, in cui possiamo riconoscere (in un improvviso cambio di luce nella stanza, nell’ombra di una tazza nel lavandino, nella forma di un gatto che cammina, nelle linee della nostra mano…) il flusso eterno di energia che congiunge il nostro mondo interiore con quello che ci circonda. Esistono rituali ed esistono simboli che alimentano questo congiungimento. È la sensibilità individuale (sforzo, desiderio, forza, fede…) che determina ordine e forma di questi rituali e simboli. Alcune forme mi parlano, altre no. I simboli che utilizzo sono allo stesso modo il risultato di una scelta razionale e di un flusso incessante del subconscio.

LB: Hai letto la storia di Grendel realizzata da Darko Macan? Ti piace?

DZ: Sì, l’ho letta… È una bella storia. Per me la cosa più interessante è il modo in cui Macan e Biukovic hanno trasformato l’esperienza di una guerra civile delle nostre parti in un fumetto supereroistico americano in stile Marvel o DC.

LB: Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

DZ: Devo finire la storia di 88 pagine per la DC Comics/Vertigo, devo finire la mia storia, devo finire il CD-ROM e devo andarmene da Seattle.

LB: Sei una specie di poeta o hai letto troppi fumetti?

DZ: Non sono un poeta. Sono un immigrante in fuga e non ho letto quasi mai un fumetto.

(traduzione a cura di Andrea Leitenberger)

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