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Fumetto

La via italiana alla ligne claire (II)

L'opera di Milo Manara e Vittorio Giardino

2. Vittorio Giardino

Vittorio Giardino è nato a Bologna il 24 dicembre 1946. Nel mondo del fumetto è noto per aver intrapreso un percorso artistico tra i più originali e meno ortodossi: laureatosi in Ingegneria Elettronica, Giardino esercita la professione all’incirca fino ai trent’anni, allorché attraversa una profonda crisi scaturita in seguito ad un periodo di malattia, la quale lo porta a riconsiderare le proprie scelte di vita secondo nuove angolature. Durante questo periodo legge Una ballata del mare salato di Pratt e scopre in questo modo le possibilità espressive insite nel linguaggio del fumetto. Inizialmente, comincia a disegnare fumetti come dilettante, finché guadagna la stima degli addetti ai lavori, che gli concedono la spazio necessario a far prevalere la nuova attività sulla prima, che decide infine di abbandonare del tutto per dedicarsi esclusivamente al fumetto.

Immagine articolo Fucine Mute
Hugo Pratt, Una ballata del mare salato

La formazione artistica di Giardino non è pertanto accademica, ma assolutamente autodidatta, cosa tanto più sorprendente allorché se ne conoscano la precisione e l’equilibrio formale. Il caso di Giardino è insomma straordinario sia per la convinzione con cui l’autore ha affrontato la propria carriera, sia per l’evoluzione pressoché istantanea del suo stile. L’inserimento di Giardino nel mondo dei fumetti sembra comunque in un primo momento difficile: invia le sue prime tavole alle redazioni di “Linus” e “Il Mago”, che non sembrano tuttavia interessate al suo lavoro. La situazione si sblocca nel momento in cui Giardino incontra Luigi Bernardi, che conosce attraverso una trasmissione radiofonica condotta dal critico bolognese per “Radio Città”. Bernardi introduce Giardino ad un gruppetto di giovani autori, tra cui Carpinteri e Panebarco, che riunisce poi su un supplemento a fumetti del settimanale “La città futura” (diretto dallo stesso Bernardi). Con questa esperienza Bernardi getta le basi per una futura casa editrice, L’Isola Trovata, che avrà il merito di lanciare una generazione di nuovi talenti in grado di realizzare prodotti competitivi nei confronti di quelli che erano allora i due colossi dell’editoria a fumetti in Italia, Mondadori e Rizzoli. Questi sforzi culmineranno in seguito nella fondazione dell'”Orient Express”, una delle più belle riviste d’autore degli anni ’80 in Italia. Nel 1978 L’Isola Trovata pubblica l’antologia Indagini nell’Altroquando, un volume di grande formato interamente dedicato ad autori emergenti, tra cui figura anche Vittorio Giardino con la sua La pratica Ab, che viene ancora oggi ricordata come l’esordio ufficiale dell’autore nel mondo dei fumetti. La pratica Ab, una tra le più belle storie del volume, è un omaggio all’immaginario di Franz Kafka, che l’autore correda di un intreccio poliziesco, un genere verso il quale Giardino e Bernardi nutrono una passione comune. Da un punto di vista grafico, la storia costituisce una sorta di unicum nella produzione dell’autore bolognese, che di lì a poco cambierà radicalmente stile e forse proprio per questo motivo essa conserva ancora oggi un suo fascino del tutto particolare, quasi misteriosamente sospesa tra Moebius e il futuro Nizzoli. La nuova maniera di Giardino si vedrà invece su “Il Mago”, dove egli approda faticosamente nel 1979 dopo una serie di rifiuti dell’editore Bepi Zancan, che lo tiene volutamente sulle spine per spronarlo  -così almeno vuole la leggenda- a “fare ancora meglio”.

In effetti, la serie dell’investigatore Sam Pezzo [v. figura a lato ], pubblicata finalmente dal maggio del ’79 al dicembre dell’80, è una delle serie più riuscite e apprezzate nel panorama del fumetto d’autore italiano. Sam Pezzo è il risultato più alto della passione di Giardino nei confronti del genere poliziesco, o giallo che dir si voglia. Sam Pezzo è un investigatore privato, figlio della migliore hard boiled school americana. La scuola dei duri (secondo la dicitura italiana) è quel filone di letteratura gialla, che si propone come un sostanziale abbassamento dell’investigazione teoretico-deduttiva classica di origine anglosassone (Conan Doyle, Agatha Christie, per capirci), portata a un livello più mondano, ma anche più crudo, tanto negli eventi raccontati quanto nel linguaggio adoperato per raccontarli. Raymond Chandler ha sintetizzato il concetto nelle seguenti parole:  “Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per ragioni concrete, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori. E questo delitto lo ha fatto compiere con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali. Ha messo nella carta i suoi personaggi e li ha fatti parlare e pensare nella lingua che si usa, di solito, per questi scopi.”  Sam Pezzo è dunque un discendente diretto del Sam Spade di Dashiell Hammett, ma anche del Philip Marlowe di Raymond Chandler, figure complesse, eroi che, come scriveva Oreste del Buono:  “… sono coraggiosi, tenaci, duri, all’occorrenza spietati, ma anche pieni, a volte, di scrupoli sentimentali, capaci di sfidare la morte, di passare tra risse e sparatorie senza batter ciglio, ma di arrivare all’orlo della commozione più intensa, quasi alle lacrime, al ritornello di una canzonetta, al colore di un paio di occhi amati, al suono di un nome…”  L’idealismo e l’integrità morale degli eroi hard boiled si rispecchiano nel anche nel personaggio creato da Vittorio Giardino che, come nel caso dei suoi padri putativi, mitiga il proprio ruolo di eroe romantico con una dose, sia pure amara, di autoironia. Sia chiaro che Sam Pezzo non è un vincente a tutti i costi e men che meno nei contrasti fisici, dai quali esce sempre piuttosto malconcio. Franco Spiritelli lo ha definito “donchisciottesco abbastanza da non arretrare quando le cose sono più grandi di lui” e probabilmente proprio in queste debolezze, in queste gaffes, sta gran parte della simpatia che riesce a trasmettere al lettore. Sam Pezzo come Sam Spade è un eroe romantico, ma anche un eroe postmoderno, nel senso di un eroe citazionista, che non inventa nulla di nuovo, ma accetta le convenzioni di un genere già dato, ossia di un ready-made, che egli recupera e personifica con il massimo scrupolo e convinzione. La precisione grafica che contraddistingue da sempre l’opera dell’artista bolognese può essere letta allora anche come un segno d’amore per la riscrittura di un copione già scritto, che gode nell’atto di rappresentare all’infinito quei minuscoli dettagli che sono poi quelli che determinano, in fin dei conti, la cifra dello stile di Giardino: la foggia di un capello, piuttosto che un mobile d’arredamento o l’etichetta di una bottiglia di whisky. Il citazionismo presente in Sam Pezzo si riflette anche nella sua ambientazione anacronistica: Sam vive in un contesto senza luogo e senza tempo, che assomiglia plausibilmente alla Bologna dei nostri giorni, ma è al tempo stesso corredato da una serie di riferimenti fuorvianti, che farebbero pensare più che altro a una metropoli americana degli anni Trenta. Prendiamo ad esempio l’ultima vignetta dell’episodio dal titolo: La trappola. Da un lato sembra di trovarsi di fronte a un’indicazione piuttosto chiara: “È in partenza dal primo binario il rapido per Vienna, ferma a Verona, Trento, Bolzano…”: non può trattarsi che della stazione di Bologna. Dall’altro la città di Sam Pezzo mostra ampi boulevard, più raramente un portico,  che fanno pensare più a una città come Los Angeles o New York, con tanto di Chinatown e personaggi italoamericani incorporati. Similmente per le indicazioni temporali, se la modernità degli edifici e delle automobili tende a suggerire una collocazione nel presente, il look gessato di certi gangsters e l’abbigliamento démodé di certe protagoniste femminili non possono che far pensare ad altri tempi, i tempi di Orson Welles o Alfred Hitchcock, tanto per citare due tra i registi più amati dall’autore. L’immaginario di Giardino deve infatti sicuramente molto anche al cinema, dall’uso delle inquadrature alla scelta di certe luci. Come possiamo vedere, gli autori della generazione dei nati intorno al ’45 non si fanno alcun problema a rendere espliciti quelli che sono i propri punti di riferimento stilistici: se Manara ammette candidamente il proprio debito nei confronti di Moebius e di Pratt, Giardino si dichiara a sua volta seguace di Pratt e di Hammett. Se quest’ultimo può essere considerato come la fonte di ispirazione primaria (assieme a Chandler) per le storie di Sam Pezzo, il confronto con il primo ci sembra, anche se meno diretto, ancora più significativo. Giardino interpreta infatti alla lettera la definizione di Pratt del fumetto come di una “letteratura disegnata”, nella duplice accezione di incorporare all’interno del fumetto una struttura narrativa di tipo letterario e di inserire il linguaggio del fumetto nel contesto più ampio della letteratura. Con opere quali Shit City, Rapsodia Ungherese   e Jonas Fink, Giardino ha tenuto fede alla definizione del maestro con una tale coerenza, che egli può essere considerato a tutt’oggi in Italia l’unico autore vivente a lavorare ancora all’insegna del romanzo a fumetti (già un autore come Mattotti, per esempio, ha sfiorato piuttosto i vertici del “poema a fumetti”, oppure ha disegnato a fumetti alcuni romanzi sui testi di scrittori veri e propri, il che è leggermente diverso). Per concludere il discorso sui “parenti” di Sam Pezzo, se prendiamo in considerazione un po’ più da vicino l’ambito del fumetto, oltre allo stesso Hammett (che forse non tutti ricordano essere il creatore del mitico Secret Agent X-9 disegnato da Alex Raymond), oltre al Dick Tracy di Chester Gould e al Red Barry di Will Gould, ricorderemo come, in tempi più recenti e per l’esattezza nel 1975, abbia visto la luce in Italia proprio sulle pagine di “Alterlinus” il personaggio di Alack Sinner, per mano degli argentini Muñoz e Sampayo. Anche Alack Sinner come Sam Pezzo è un investigatore privato hard boiled, con la differenza che Muñoz e Sampayo stabiliscono il loro personaggio all’interno di un contesto dalle coordinate spazio-temporali ben precise: una New York dei nostri giorni opportunamente stralunata e a tinte fosche.


J. Muñoz e C. Sampayo, Alack Sinner

Con Alack Sinner, Muñoz e Sampayo compiono in sostanza un’operazione analoga a quella compiuta a suo tempo da Hammett, ossia abbassano l’orizzonte dei fumetti a un livello meno fantasioso e più mondano. Nei fumetti di Alack Sinner assistiamo infatti per la prima volta alla rappresentazione disinvolta di un eroe, visto tanto nei momenti salienti dell’avventura, quanto in quelli che sono invece i suoi gesti più quotidiani. Tipico di queste storie è, ad esempio, il momento del risveglio mattutino: la camera in disordine, il dettaglio del posacenere che trabocca di mozziconi di sigarette, la stanza da bagno, il luogo dove il protagonista si lava, urina o magari se ne sta semplicemente in piedi davanti allo specchio a esaminarsi le pieghe del volto, che reca regolarmente tutti i postumi della sbornia del giorno prima. Si tratta di dettagli di un certo peso in quella che vuole essere una fenomenologia del fumetto: se in fondo il Corto Maltese di Pratt non perde mai il suo self control e non si lascia mai andare troppo alle droghe, ma si limita tutt’al più ad accendersi “uno di quei sigari sottili che si fumano solo a Bahia o a New Orleans”, Alack Sinner ci va invece giù piuttosto pesante e si ubriaca regolarmente tutte le sere. Se il primo è in fondo ancora un eroe, a volte magari un eroe corsaro, ma pur sempre un “gentiluomo di fortuna”, il secondo è un ex poliziotto, fallito e alcolizzato, in lotta contro il mondo e con se stesso, che riesce a malapena a campare con lo sporco lavoro dell’investigatore privato che si è rimediato. Alack Sinner ha vissuto i suoi anni d’oro proprio nel nostro paese, al punto che Munoz e Sampayo potrebbero quasi essere considerati due autori “italiani”, dato che hanno creato il personaggio per un editore italiano e in Italia si sono per un certo periodo stabiliti (uno dei due, José Muñoz, vive tutt’oggi a Milano). Anche se non avremo modo in questa sede di dedicare loro un capitolo autonomo come meriterebbero, tuttavia abbiamo voluto perlomeno concederci una digressione sul tema, utile a evidenziare la presenza, all’interno del panorama europeo della seconda metà degli anni Settanta, di due modelli distinti: da un lato, la linea francese di Moebius, dall’altro quella argentina di Munoz e Sampayo. Queste linee verranno assimilate rispettivamente all’interno dell’opera di Manara e di Giardino, con la differenza, per quest’ultimo, che l’influenza di cui parliamo è da ascriversi al solo piano del contenuto (Sampayo), visto che il disegno di Giardino è quanto di più distante dall’espressionismo esasperato di Muñoz e semmai più vicino alla linea della ligne claire francese. Ad ogni modo, queste due linee (Moebius e Muñoz-Sampayo) attraverseranno la generazione di Manara e Giardino e conosceranno a loro volta uno sbocco nella nuova generazione, per la quale costituiranno due punti di riferimento costanti, sia pure secondo modalità diverse: il segno grottesco e stralunato di Muñoz attecchirà soprattutto nel primo Mattotti, mentre quello lineare e flessuoso di Moebius influenzerà invece Pazienza, che nel suo eclettismo non rinuncerà nemmeno a introitare nella propria poetica le tematiche mondane e cruente dei fumetti di Sampayo, che si può dire anzi verranno esaltate da tutto il gruppo di “Frigidaire”. L’esperienza con “Il Mago” dura soltanto un paio d’anni, poi la rivista chiude all’improvviso, prima tra le vittime del declino delle riviste d’autore. L’ultimo ciclo di avventure di Sam Pezzo (comprensivo di Shit City) vedrà la luce sulla neonata rivista “Orient Express” dal novembre del 1982 al dicembre del 1983. I primi quattro numeri della rivista di Bernardi (giugno-settembre 1982) sono inaugurati anche dalla nuova creatura di Giardino, Max Fridman, con la lunga storia a colori Rapsodia Ungherese, che l’autore realizza nel lungo arco di tempo che separa “Il Mago” da “Orient Express”.

Con Max Fridman, Giardino passa così dalla detective story metropolitana di Sam Pezzo alla spy story dall’ampio scenario internazionale. In questo caso, la rosa dei riferimenti letterari si fa più vasta e composita: si va dai capostipiti del genere quali Eric Ambler, Graham Greene o John Le Carré ai classici della letteratura avventurosa, quali Hemingway, Conrad e Kipling, che fungono più che altro da modelli ispiratori. La complessità tipica delle storie di spionaggio richiede un maggior rigore rispetto alle vicende raccontate in  Sam Pezzo, che si esplicita sostanzialmente in una ricostruzione spazio temporale più referenziale e nella figura di un protagonista dal profilo più basso. Le storie di Max Fridman sono infatti inserite in un contesto storico ben determinato: lo scenario è quello dell’Europa dell’Est (dai Balcani al Bosforo) alle soglie del secondo conflitto mondiale (1938-1940). Per quanto riguarda il protagonista, Max non è un personaggio meno appassionante di Sam, ma senz’altro più anonimo, dotato di una personalità più misteriosa e sfaccettata, meno monolitica di quella del suo predecessore. Max Fridman è un ebreo francese, ex agente della Ditta, un’organizzazione di spionaggio che opera per conto dei servizi segreti francesi, periodicamente costretto a ritornare in servizio in occasione di inaspettate quanto indesiderabili nuove missioni. Egli è in fondo un uomo comune, a tratti perfino un pusillanime, che però si trova a dover impersonare la parte dell’eroe che non è e che si trova quindi sempre costretto suo malgrado a dare il massimo di se stesso, fosse anche solo per salvare la pelle. A questo punto, esauriti i cenni fondamentali sul piano del contenuto di questi due cicli di storie, occupiamoci un po’ più da vicino del piano dell’espressione.

Rapsodia Ungherese e La porta d’Oriente (il secondo episodio della saga di Max Fridman, uscito a puntate nel 1985, dal n° 6 al 12 sulla rivista “Corto Maltese”) proseguono sostanzialmente sulla stessa lunghezza d’onda della serie di Sam Pezzo. Anzitutto, la struttura della tavola in Giardino è sempre molto essenziale e leggibile, anche se non mancano qua e là alcuni incastri tra una vignetta e l’altra, che spezzano l’uniformità della tavola a registri di strips sovrapposte adottata da Pratt. Ma a parte questi artifici, del resto sempre molto calibrati (a volte perfino simmetrici), non è tanto la costruzione della tavola a interessare Giardino, che a differenza di Toppi o Battaglia accetta l’incorniciatura delle vignette e i relativi interstizi, quanto la giustapposizione tra un’inquadratura e l’altra, la modulazione della linea, l’accordo cromatico, in poche parole, l’equilibrio formale. Il disegno di Giardino gode di una pulizia e di una trasparenza davvero impeccabili: come nel caso di Manara, l’astrazione delle forme non è solo un indice di sintesi grafica, ma anche un processo di raffinazione, di depurazione delle figure da ogni loro possibile imperfezione naturale nell’intento di renderle semplicemente sublimi. Il che non sta a significare necessariamente che l’autore sia preda di un culto esasperato della forma perfetta, con tutti gli stereotipi che ne conseguirebbero, ma che persegua semmai una forma di estetismo capace di includere al suo interno la più eterogenea varietà di forme geometriche presenti in natura. I personaggi di Giardino potrebbero rientrare in una sorta di catalogo ideale di fisionomia umana: Giardino è forse il fumettista che ha rappresentato la più vasta gamma di nasi, menti, capigliature, più in generale di tipologie somatiche pensabili. D’altra parte, è pure vero che se Giardino disegna, tanto per fare un esempio, il profilo di un naso con la gobba, ebbene la curva di quel naso si conformerà alle rimanenti curve della figura cui appartiene con una tale armonia di causa che finirà per sembrarci ovvio che la tale persona rappresentata debba avere “per forza” un naso simile. Questa disposizione è a nostro avviso quanto di più lontano dal realismo o addirittura dall’iperrealismo, talvolta attribuito all’autore bolognese, ma rispecchia ancora una volta un aspetto fondamentale di quella stilizzazione tipica del fumetto. Ovviamente non si tratta di una stilizzazione espressionista, come nel caso di Muñoz, bensì di una stilizzazione idealista, che  seleziona cioè la linea che più si avvicina alla forma nella sua quintessenza. Come dire, di fronte all’universo grafico disegnato da Giardino ci troviamo sempre all’interno del migliore dei mondi possibili. Il sublime di Giardino non è del resto mai un sublime sfarzoso, ma semmai modesto, non magniloquente, ma piuttosto sussurrato, mai sopra le righe, ma sempre sotto (sub, appunto). Questo sublime dal profilo basso, per così dire, non è che un altro segno di quella purezza grafica ricercata da Giardino, una purezza ancora una volta non casuale, ma calcolata, strategica, volta nella fattispecie a individuare una chiave interpretativa personale di quella medietas stilistica tipica della ligne claire. Il nome dell’autore bolognese è stato infatti spesso e insistentemente associato a quelli della ligne claire di Hergé, di Jacobs, di Tardi, trascurando — al di là delle evidenti somiglianze — quelle che sono la peculiarità proprie dello stile di Giardino.

Una volta tanto, è la voce stessa dell’autore, con la sua cultura e il suo gusto, che ci aiuta a fare luce su una fenomenologia che potrebbe altrimenti apparire a tratti incerta o arbitraria:  “La linea chiara viene fuori da una tradizione, credo io, di grafica francese (europea comunque) a cavallo dei due secoli, al limite da Toulouse-Lautrec, anche dai grandi illustratori, Daumier e così via, che naturalmente non sono “linea chiara”, ma che andavano secondo me nel senso di produrre figli-figli-figli-nipotini… Hergé e tutti questi precursori, a loro volta guardavano i giapponesi come Hukosai, Utamaro, la grafica giapponese in genere. Ora, io sono rimasto colpito fin da giovanissimo da libri di grafica giapponese, oppure disegni di post-impressionisti […]. Ma dirò di più. Addirittura i disegni di Van Gogh, che non sono tanto conosciuti come i suoi quadri, dimostrano, secondo me, l’influenza giapponese e sono splendidi, e certamente mi hanno influenzato come tipo di segno. Quindi questa filiazione non è diretta, è più una fratellanza.”  Anche se non ci siamo finora occupati direttamente della grafica giapponese, dovrebbe risultare ormai chiaro a prima vista come le posizioni enunciate dall’autore convivano in piena sintonia con quelle espresse sino ad ora. Come sappiamo, la grafica giapponese appartiene a una cultura figurativa che non ha mai conosciuto la rivoluzione prospettica operata da Leon Battista Alberti e compagni ed ha vissuto pertanto sempre in un clima di estemporanea anti-modernità. La concezione piana e lineare dell’arte giapponese è di conseguenza perfettamente omologa a quella della grafica postmoderna, sulla quale abbiamo finora tanto insistito, e si riconferma pertanto anche nel caso di un autore come Giardino. Il discrimine tra gli artisti della ligne claire francese e lo stile di Giardino può essere individuato — se vogliamo — proprio nel confronto con il citato Toulouse-Lautrec.


H. de Toulouse-Lautrec, La Danse au Moulin Rouge, 1890

Se esso può essere considerato un modello diretto per gli autori della ligne claire, nel caso di Giardino si deve parlare più che altro di una transazione indiretta, in quanto la vena moderatamente caricaturale presente nell’artista francese non compare invece in alcun modo nell’opera dell’autore bolognese. Casomai, proprio l’insospettabile caso di Van Gogh, confessato poco sopra dallo stesso Giardino, mostra una purezza simbolista, molto affine ai risultati del nostro autore. Si guardi al repertorio dei disegni realizzati intorno al 1880, ad esempio al Ricoverato d’ospizio con berretto e bastone, una matita del 1882: a parte l’ombreggiatura degli abiti, bandita per principio dalla linea chiara a favore di campiture piatte omogenee, la precisione e la leggerezza che dimostrano la mano di Van Gogh [v. illustrazione qui sotto ] in questo disegno, hanno sicuramente insegnato molto al disegnatore bolognese.

Nel 1983 Giardino si prende una pausa dal genere giallo-avventuroso di Sam Pezzo e Max Fridman, per dedicarsi ad un’opera di genere erotico: Little Ego. L’occasione gli si presenta con la neonata “Glamour International Magazine” di Antonio Vianovi, una sontuosa rivista che ospita alcune tra le migliori firme del fumetto erotico d’autore. Per questa rivista, Giardino crea per l’appunto un sexy divertissement a episodi dal titolo Little Ego, che non è altro che la parodia in chiave erotica dell’indimenticabile Little Nemo di Winsor McCay. Con quest’opera l’autore esce in un certo senso allo scoperto, dichiarando apertamente una delle sue grandi passioni fumettistiche e, ancora una volta, ci prospetta il caso di McCay come una preziosa pietra di paragone stilistico, che fa anche quadrare i conti rispetto al precedente caso di Manara. La comunanza stilistica tra i due non deve dunque addebitarsi tanto a un guardarsi reciproco, quanto a una chiara infiltrazione dello stile Art Nouveau, che secondo analoghi percorsi di maturazione, arriva a influenzare entrambi. A questo punto il cerchio è ormai chiuso e si definiscono meglio anche i termini di quella via italiana alla ligne claire cui si allude nel titolo di questo saggio: uno stile che dall’Art Nouveau si evolve nella grafica di Winsor McCay e dei suoi seguaci per arrivare, negli anni ’80, a una consonanza stilistica con quegli autori francesi, detti appunto della ligne claire (i già citati Hergé, Jacobs, Tardi…). Le storie della piccola Ego raccontano di una deliziosa fanciulla, la quale vive in sogno una serie di fantastiche avventure erotiche che, come nel caso del piccolo Nemo, si concludono sempre con un risveglio piuttosto brusco se non addirittura con una caduta dal letto. La genialità di Giardino in quest’opera è stata quella di aver saputo conciliare l’immaginario e lo stile del maestro statunitense con il proprio. Le storie sono sempre piuttosto brevi, come vuole la concisione della sunday page americana, la struttura della tavola è estrosa e sofisticata (per la prima volta Giardino adopera nelle vignette strutture curvilinee: tondi, mezzelune, occhielli…), l’erotismo leggero e brioso. Si tratta di un erotismo innocente e pudico, quasi infantile direi.

Con Little Ego Giardino restituisce l’invenzione di McCay a Freud, nei suoi chiari paradigmi di sessualità, inconscio e psicanalisi: alla fine di ogni episodio, al posto della figura materna come in Little Nemo, viene evocata invece quella dell’analista, con tutti i rimbalzi semantici che ne conseguono. La serie, iniziata sulla rivista di Vianovi nel maggio 1983, proseguirà lentamente dal luglio del 1985 al novembre del 1989 su “Comic Art”, che ne eseguirà anche una versione economica in volume l’anno successivo. Il tema dell’erotismo prosegue, nella seconda metà degli anni ’80, in un’altra raccolta di storie brevi dal titolo Vacanze fatali, racconti pubblicati originariamente per i supplementi di settimanali quali “Il Messaggero” e “L’espresso”. L’erotismo di queste storie non è tuttavia di tipo fantastico, ludico, come in Little Nemo, bensì concreto, drammatico, intimamente legato al tema della menzogna. Queste “storie di ordinaria bugia”, come le ha definite Mollica, sono in realtà dei veri saggi di tecnica narrativa in piccolo formato, che si presentano come degli amabili intermezzi rispetto ai grandi impegni costituiti dal terzo capitolo de Le avventure di Max Fridman (in corso di pubblicazione al momento in cui scriviamo, con l’episodio dal titolo: No Parasan) e nella attesa del grande evento degli anni ’90: la saga di Jonas Fink. Jonas Fink racconta la storia di una famiglia ebrea nella Praga di Stalin, tra il 1950 e il 1968, perseguitata dal regime perché sospettata di attività antirivoluzionaria e di spionaggio. Questa saga non aggiunge in fondo nulla di nuovo alla poetica dell’autore, se non riconfermarne la competenza in materia di letteratura disegnata e racconti ad ambientazione storica. Questa volta, Giardino si misura nella sfida di progettare una storia dal respiro ancora più ampio rispetto le opere precedenti: un romanzo di formazione in più volumi, dotati di una propria continuità narrativa. Si tratta di una delle ultime grandi opere che il fumetto d’autore ha saputo dare in Italia, venuta alla luce nonostante la sua problematica eclissi produttiva negli anni ’90, ma della quale opera sono usciti finora purtroppo soltanto due volumi.

Le poetiche del fumetto d’autore in Italia è il titolo della tesi con cui Matteo Orlando si laurea al DAMS di Bologna nel Novembre del 2000, sotto la supervisione del prof. Antonio Faeti. L’ipotesi portante di questo studio è che il linguaggio del fumetto sia, prima di tutto, un prodotto dell’età contemporanea. In termini figurativi, la cultura contemporanea viene altrimenti detta “post-moderna”, per il suo carattere di discontinuità rispetto alla logica prospettica dell’età moderna, teorizzata nel 1435 da Leon Battista Alberti nel suo Trattato della pittura. Con la nascita della macchina fotografica accade che la tecnica pittorica della camera obscura, celebrata nei secoli dai massimi pittori che seguirono le orme dell’Alberti si fa scienza, diviene invenzione tecnologica. Da quel momento in avanti la pittura non sarà più la stessa. La rivoluzione figurativa intrapresa da Cézanne e compagni si realizza infatti proprio attraverso la rinuncia ad una prospettiva unitaria e il conseguente abbandono del concetto di “punto di fuga” e di profondità, che vengono soppressi a favore di una rappresentazione piana. Laddove i pittori che utilizzano la prospettiva cercano cioè di suggerire la terza dimensione mancante alla superficie del quadro, gli artisti post-moderni recuperano invece la bidimensionalità propria delle raffigurazioni arcaiche. Allo stesso modo i pittori contemporanei prediligono la chiusura lineare del disegno contro l’apertura pittorica dello sfumato leonardesco. La soluzione che meglio racchiude il significato di queste ricerche è la tecnica del cloisonnisme adottata dai Simbolisti francesi, ovvero la chiusura del disegno entro un contorno ben definito. Ora, la mia tesi è che il fumetto prosegua esattamente la strada tracciata dai Simbolisti e dai Fauves prima, e dalla Pop Art poi, e si ponga come un modello di divulgazione e normalizzazione di questa cultura. Se è vero che la grafica dei fumetti in generale asseconda questo stile, è però nell’ambito del cosiddetto “fumetto d’autore” che si possono registrare i risultati più specifici e consapevoli. Il concetto di “fumetto d’autore” viene qui inteso nella sua accezione di fenomeno storico volto ad allargare i confini espressivi del fumetto popolare, piuttosto che come prodotto velleitario destinato a un’elite, come fattore di ricerca, piuttosto che come metro di giudizio assoluto. Attraverso l’analisi dei principali esponenti di questo fenomeno, si è così cercato di dare un quadro complessivo dei diversi risultati cui queste ricerche sono pervenute.


La via italiana alla ligne claire riproduce i capitoli relativi all’opera di Milo Manara e Vittorio Giardino e vuole, con questo titolo, concentrare la lettura sul contributo offerto da questi autori allo sviluppo del più emblematico fra gli stili della grafica post-moderna.


Altri estratti da Le poetiche del fumetto d’autore in Italia su Fucine Mute Webmagazine:

“La poetica di Guido Crepax”


“La via italiana alla ligne claire – L’opera di Milo Manara e Vittorio Giardino” (prima parte)


“La poetica di Attilio Micheluzzi, uno stile senza tempo”

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