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Scrittura

Chi è che fa la Rivoluzione?

La lotta al potere dal Settecento a Batman, passando per Camus

La maestra mi chiese di Massimiliano Robespierre.
Le risposi che i Giacobini avevano ragione e che,
Terrore o no, la Rivoluzione Francese era stata una cosa giusta.
La maestra non ritenne di fare altre domande.

(Offlada Disco Pax, Robespierre)

Francobollo russo dedicato alla Rivoluzione FranceseSembra siano tempi maturi per rivoluzioni un po’ in tutto il mondo. Dalle esperienze irrisolte della Primavera Araba, ai gruppi di dissidenza organizzati in maniera più o meno spontanea (da Occupy Wall Street agli Indignatos), fino ad arrivare ai risultati vertiginosi conseguiti nel nostro paese dal Movimento 5 Stelle. Eppure, mai come oggi siamo stati lontani da una reale rivoluzione politica, che in quanto tale possa essere in grado di sovvertire l’ordine costituito per inaugurare un nuovo ciclo di livello istituzionale, culturale e sociale.

Inaugurare un nuovo ciclo significa anche ristabilire le coordinate temporali, morali e storiche: una vera rivoluzione agisce sull’immaginario, rileggendo la storia a partire da essa, soprattutto celebrando gli eventi che hanno condotto al nuovo ordine inquadrandoli in una narrazione che definisce in maniera chiara e radicale i principi del Bene e del Male, progresso e reazione. Prima della riuscita evenemenziale di una rivoluzione è impossibile decretare chi sia l’eroe e chi il nemico, e nel giro di poche ore un vandalo, un furfante, un brigante può assurgere alla mitologia della nuova patria. Questa logica porta, come sappiamo bene, a delle conseguenze estreme, anche sanguinarie e agghiaccianti: Pol Pot metteva il fucile in mano ai bambini cambogiani affinché lo puntassero contro i genitori per costringerli a lavorare, perché gli adulti erano ancora ideologicamente contaminati dal “prima” della rivoluzione, e avrebbero sempre potuto mettere in questione quest’ultima con rimpianti di vario genere. I bambini, invece, hanno la possibilità di costruire ex novo il loro pensiero e le loro credenze, ed è in loro (dappertutto, anche senza arrivare agli eccessi deliranti di Pot), ovvero nelle nuove generazioni, che la Rivoluzione potrà radicarsi fortemente facendosi mitologia popolare.

Un altro caso eclatante è quello della fondazione del Calendario Repubblicano, instaurato per volontà delle frange più oltranziste e anticlericali dei giacobini, che intendeva ripartire dall’anno zero per intensificare la cesura con la storia precedente. La rivoluzione, evidentemente, ha sempre una necessaria dose di violenza: è la cultura rivoluzionaria che avrà il compito (non facile, al cospetto della storia di ogni secolo) di legittimare, tradurre, persino mitigare o rimuovere quella dimensione di violenza. Si possono dipingere gli antagonisti e il vecchio ordine peggiore di come era, si possono rimuovere dalla storia le fasi più sanguinarie e cruente, si può narrarne la necessità per il trionfo finale ecc. Una cosa certa è che la rivoluzione non può mai fondarsi sulla verità o muovere da essa, ma deve fondarla dal suo stesso interno per accogliere nel suo orizzonte il presente e il futuro della comunità; una volta fondata la verità, essa potrà venire adottata retrospettivamente per rileggere e ricostruire la storia.

Rivoluzione francese e ghigliottina

Il legame tra rivoluzione e violenza è profondo, e a tal proposito si propone l’inflazionato argomento della rivoluzione pacifica ghandiana; questo argomento non dimostra nulla, soprattutto perché è la tipica eccezione che conferma la regola. Come a dire: tutte le rivoluzioni della storia sono state violente, eccetto questa e tale asserzione farebbe gioco a quanto da noi sostenuto fino a questo punto. E d’altronde, la filosofia di Ghandi si fa espressione della Verità, e la Verità non può non avere sempre la sua faccia impositiva e ideologica, e perciò violenta seppur sul piano ideologico e spirituale.

Quello di rivoluzione è un concetto profondamente moderno, per quanto si sia prestato più di altri concetti ad adozioni anacronistiche, utile a operazioni fortemente ideologiche, come quella compiuta da Sergej J. Kovaliov, professore di Storia Romana all’Università di San Pietroburgo quando si chiamava Leningrado, sotto il regime stalinista. Ridimensionando fatti ed eventi canonicamente ritenuti centrali, il suo Storia di Roma si focalizza in particolar modo su episodi di indubbio significato della storia dell’Urbe, ma che l’autore carica di un significato radicale: dalle rivolte di schiavi, all’età dei Gracchi e ai successi dei populares, fino agli episodi di proto-socialismo… come è lo stesso autore ad asserire, la proposta è leggere la storia di Roma a partire dalle categoria della storia materialistica. Viene sacrificata la verità? A chi avesse rimproverato una cosa del genere a uno storico materialista sovietico, avrebbero risposto Questa è la storia vera… È la versione che hai conosciuto fino ad oggi ad essere stata distorta dal cattolicesimo e dalla cultura capitalistico-borghese. La rivoluzione fonda la verità, la impone, e per avere questa forza deve essere sostenuta, promossa, agita da larga parte del popolo.

Albert Camus trattava tali argomenti nella sua distinzione di Rivolta e Rivoluzione, pur essendo la seconda il necessario sviluppo della prima. Nell’ Uomo in rivolta, Camus vede nel no pronunciato dall’individuo l’essenza metafisica di ogni rivolta, il sacro rifiuto che garantisce esistenza a chi lo pronuncia, perché non si declina al futuro, a speranze utopiche, a progetti fondati su ideologie che si basano sul principio che “il fine giustifica i mezzi” restando in attesa di un “sol dell’avvenire” che però non viene mai. La rivoluzione, per Camus, burocraticizza la rivolta, la istituzionalizza, e fa perdere la spontaneità e l’autenticità del no individuale originario. La rivoluzione positiva, per Camus, agisce sul presente e pone i propri fini nel presente, di volta in volta, risolvendo problemi e situazioni contingenti e immediate, restando legata allo spirito della rivolta. Per questa tesi Camus fu accusato di essere un reazionario, perché – come è evidente – la sua tesi mal si coniugava con la linea dei Partiti Comunisti europei del dopoguerra. «C’est une Révolte?» chiese Luigi XVI ancora in dormiveglia, quando fu raggiunto dai tumulti della piazza; «Non, Sire, c’est une révolution», gli fu risposto; Camus evidenzia i mali del Terrore giacobino, che ha risposto a quella logica di irrigidimento dell’essenza della rivolta. Ma ci sentiamo di dire che ogni rivoluzione necessita di tale logica di irrigidimento morale, se consegue il fine tanto sospirato di sovvertire l’ordine. È dal nuovo ordine che andrà ridefinito il concetto di pace, libertà, persino di felicità, ed è un rischio grave che bisogna essere disposti ad accettare.
Veniamo, dunque, al riferimento al presente, ponendo due domande: “c’è oggi chi è disposto a correre quel rischio, ovvero di vedere riplasmato il proprio mondo a partire da un sovvertimento radicale?” e “c’è una classe sociale, politica, culturale in grado di assumersi l’onere di rifondare l’immaginario, anche se con la violenza?”

Lenin guida il popolo alla Rivoluzione

Chi è ,infatti, che fa la rivoluzione? I più ingenui risponderanno “il popolo”, ma significa tutto e non significa nulla e, per distinguere una Rivoluzione da una Guerra Civile, è necessario che il conflitto sia verticale, ovvero non avvenga frontalmente tra membri della medesima classe sociale. La ragione può venire rintracciata anche in ambiti ideologici differenti a seconda delle sensibilità culturali; può competere la fede religiosa, come per la Rivoluzione Iraniana, ma la finalità resta sempre quella di destituire il potere per un nuovo corso, e si rivolgono le armi contro gli occupanti dei livelli superiori della piramide. Se la prima Rivoluzione in senso moderno, non compiuta ed esauritasi in pochi anni nonché problematica per quanto detto sulla Guerra Civile, è stata la Rivoluzione Inglese cromwelliana del XVII secolo e la fondazione del Commonwealth, dobbiamo registrare che da allora abbiamo assistito a un graduale abbassamento dell’asticella. Nella suddetta Rivoluzione già assistevamo al protagonismo della classe borghese mercantile, ma c’erano molti membri della piccola nobiltà di provincia (la gentry) a sostenere il progetto antimonarchico. Con le Rivoluzioni di fine Settecento, la classe borghese afferma il suo dominio sull’aristocrazia, mentre con la Rivoluzione d’Ottobre è il proletariato ha reclamare il suo posto sulla scena della storia mondiale. Di volta in volta, si tratta di classi sociali disposte a perdere tutto; con l’avvento della democrazia, la rivoluzione è divenuta fuori moda perché, in un modo o nell’altro, si partecipa alle forme di amministrazione politica, e perciò bisogna sempre dirsi co-responsabili dei mali che ci circondano. Così non era per i borghesi francesi e americani, e non era così per gli operai e i contadini nella Russia zarista, ma anche tanto borghese. E oggi? Oggi non è così per quello che Giorgio Agamben ha definito homo sacer: colui che, nell’antica Roma, veniva privato di ogni diritto e riconoscimento sociale e civile restando “nuda vita”. Dopo aver violato il patto con gli dèi, avendoli offesi o ripudiati, nessun uomo poteva uccidere l’homo sacer perché la sua sorte veniva demandata direttamente alla divinità, e nessuno avrebbe voluto contaminarsi con lui. D’altra parte, chiunque avesse ucciso l’homo sacer non sarebbe stato perseguitato dalla legge.

Rivolta deli Indignatos a Madrid

Ebbene, dopo il proletariato c’è l’homo sacer, i “paria indiani” ad esempio, o gli africani che raccolgono pomodori in Calabria per riavere il passaporto, i clochard e gli zingari, i barboni alle stazioni dei treni, gli abitanti delle banlieu francesi o quelli dei quartieri in rivolta a Londra lo scorso anno, ma soprattutto i miliardi di persone in tutto il mondo che muoiono di stenti. Non può essere oggi la classe borghese o quella operaia a fare la rivoluzione: lo sdegno per la politica, il disprezzo per i governanti, non bastano, perché essa, la rivoluzione, presuppone uno sconvolgimento anche delle strutture politiche, economiche e sociali. Tutt’al più potrebbe partecipare la grande fetta di società rappresentata dai senza lavoro e i senza futuro, i disoccupati che dovrebbero in fondo fare la rivoluzione contro i propri genitori, che (nella maggioranza dei casi) il lavoro ce l’hanno ed è lo stesso lavoro che concede loro di campare. E se gli homine sacri provassero la loro rivoluzione? Essendo per definizione esterni al ciclo produttivo, questa è una possibilità alquanto remota, perché al di fuori di ogni possibilità di gestione della ricchezza o delle risorse. Solo una forza sociale in grado di fondare un nuovo ordine potrebbe avere i mezzi, le capacità, le facoltà di fare la rivoluzione, e viceversa.

Questa è la carica ideologica incarnata dall’ultimo episodio de Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan: coloro che compiono la rivoluzione a Gotham City, sotto la guida di Bane, attuano un piano geniale che dimostra dedizione alla causa, spirito di sacrificio, ma soprattutto capacità professionali e logistiche indiscutibili. Bane avrebbe riscattato questa classe di “feccia suburbana”, vissuta sempre ai margini della vita sociale della città, fondando un nuovo ordine socialista, di autogestione delle risorse, esclusione del mercato finanziario, ridistribuzione della ricchezza. Se non fosse che l’ideologia hollywoodiana ci mostra una Gotham post-rivoluzionaria in preda alla violenza barbara, al caos indiscriminato, alla totale anarchia e follia diffusa! C’è da credere che, semmai avverrà questa nuova rivoluzione, allora si girerà un nuovo Cavaliere Oscuro, dove il piano di Bane condurrà alla nascita di una nuova Gotham fondata sulla pace, la libertà e l’amore fraterno, e Batman sarà dalla parte dei reietti.

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