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Musica

Have Boss, will travel (VII)

Londra, Wrecking Ball Tour 2013

LondraHelsinki ci sarebbe bastata per il resto della nostra esistenza e sapevamo da subito che niente sarebbe mai più stato all’altezza, ma questo non ci ha impedito di grab tickets and suitcase e partire alla volta di Londra. Del resto, si digiuna forse per tutta la vita, dopo il più squisito dei banchetti? Si fa forse voto di castità dopo la più coinvolgente relazione? È chiaro, dunque, che quando ho fugacemente pensato di non andare più ad un concerto di Springsteen perché troppo appagata dall’ultima data europea del leg 2012 del Wrecking Ball Tour non ero in me.

Non ci sono del tutto neppure adesso perché, sebbene l’esperienza finlandese resti in cima alla mia classifica, stento a credere a ciò cui ho assistito nell’ultimo mese.

Il nostro tour 2013 comincia tardi, quando, cioè, Bruce ha già tenuto concerti in mezza Europa e manifestato a tendenza a suonare album interi, cioè tutte le canzoni presenti su un disco, nell’ordine in cui sono state pubblicate; come a dire: il sogno proibito di ogni fan.

Mentre facevamo la fila per prendere il braccialetto numerato per il pit di Padova, discutevo con Nicola, un fan di Vestone, di questa novità. Secondo lui, molto della bellezza di un concerto di Bruce sta nella continua sorpresa e nell’emozione dell’attesa. Ogni volta che una canzone termina, restiamo tutti con il fiato sospeso, sperando nel capolavoro o – almeno – nella rarità. Se Springsteen suona tutte le canzoni di un disco nell’ordine di pubblicazione, per un terzo del concerto questa emozione sfuma. 
All’epoca, pur comprendendo il punto di vista dell’amico e ammettendone la fondatezza, avevo ribattuto serafica che avrei preferito annoiarmi con tre ore di Born to Run suonato in loop, piuttosto che stupirmi con canzoni come Man’s Job, Let’s be friendsYou’ll be comin’ down o qualsiasi brano tratto da Workin’ on a Dream.

Non pensavo, mentre lo dicevo, che di lì a poco avrei temuto l’esecuzione di tutto Born in the U.S.A., poiché non osavo sperare che, in Italia, Springsteen osasse proporre un gioiello come, appunto, Born to Run, cosa che invece fece, accorciando di parecchio la mia aspettativa di vita.

A malapena ripresici dall’estasi patavina, snobbiamo Milano dopo la brutta esperienza del 2008 e voliamo direttamente a Londra, per la quindicesima data europea del tour. Partiamo da Trieste giovedì 13 giugno, il primo giorno di stagione davvero bella, lasciando la città sotto un sole splendente che la scalda fino a trenta gradi. A Londra il cielo è coperto e la colonnina del termometro si assesta intorno ai quindici. Bella scelta, Pravato, gran bella scelta anche stavolta.

Le intenzioni, per questa trasferta, erano le migliori: ci godiamo la vacanza e ci mettiamo in coda il giorno stesso del concerto, rinunciando deliberatamente alle prime file.
La notizia delle prime persone in coda da martedì 11 (il concerto si sarebbe tenuto sabato 15) ci rinsalda, dapprima nel nostro proposito, facendoci sentire molto saggi e maturi a non voler trascorrere le ferie davanti al muto dello stadio. Quando, successivamente, abbiamo appreso che il manipolo di irriducibili si andava facendo via via meno sparuto, la nostra convinzione ha iniziato a vacillare, perché abbiamo temuto di non riuscire ad accedere al pit.

Stadio di Wembley

Le informazioni che giravano dicevano che il pit contenesse 5.000 persone, perciò non avremmo avuto nulla da temere, ma a me è sembrata una stima troppo ottimistica.
Il campo dello stadio di Wembley misura, infatti, in osservanza alle linee guida della FIFA, 105×68 metri, il che significa 7.140 metri quadrati. Una parte di essi, però, è occupata dal palco. Non sono in grado di valutare, ad occhio, a quanto corrisponda la superficie occupata dal palco, ma considerando che il mio appartamento misura circa 100 metri quadrati e giudicando dalle mappe pubblicate sui siti che vendono i biglietti, direi che almeno 200 metri quadrati ce li giochiamo così. Per semplicità di calcolo, postulo che ne restino comunque 7.000.
Quanto spazio occupa un essere umano in piedi? Dipende dall’essere umano e dalla prossimità che vuole tenere con il proprio prossimo, ma fingendo di popolare uno stadio di maschi taglia 50 affiancati spalla a spalla, suppongo di poter assegnare a ciascuno mezzo metro quadrato. Il risultato è che il prato può contenere 14.000 spettatori, e mi pare improbabile che il pit si componga di più di un terzo di essi.
Ho deciso, comunque, di non seminare il panico e di tenere per me queste osservazioni, anche perché non sono mai stata molto forte in aritmetica e confidavo in un errore clamoroso, correggendo il quale la capienza del prato sarebbe aumentata esponenzialmente, ma ero tutt’altro che serena.

Nei giorni precedenti e durante il viaggio, abbiamo cambiato piano una dozzina di volte e ci siamo risolti, infine, di andare a prendere il numero venerdì pomeriggio, poco prima dell’appello delle 18.00, tornare a rispondere a quello delle 22.00 e poi metterci stabilmente in coda dopo l’appello delle 8.00 del mattino dopo, immaginando di poterci assentare brevemente, per andare a fare colazione nei dintorni, entro la mattinata.

Siamo rimasti ben saldi sui nostri propositi sia grazie a Internet, attraverso il quale monitoriamo il numero di fan in coda, che cresce senza diventare allarmante, sia grazie alle cinquanta sterline spese nel biglietto di ingresso alla terrazza panoramica del grattacielo Shard, volutamente acquistato in anticipo per costringerci a sfruttarlo.
La mattina di venerdì 14 non era serena, ma è comunque abbastanza tersa da offrire un panorama mozzafiato sulla città.
La cosa che più mi ha affascinata è stata il sistema ferroviario, che visto da lassù era una galassia di formicai comunicanti, con un via vai continuo e perfettamente sincronizzato. Ho quasi quarant’anni e un’attrazione verso i trenini appena scoperta.

Dato che l’indomani saremmo dovuti rimanere in piedi a lungo, ci è parsa una buona idea massacrarci gambe e piedi percorrendo a piedi mezza riva del Tamigi e buona parte della città, visitando molti dei luoghi simbolo della capitale inglese. In fondo – ci diciamo – siamo qui in vacanza, vogliamo divertirci e rilassarci, senza essere schiavi dell’orologio come nella vita quotidiana e senza l’assillo dei risultati e degli obiettivi da raggiungere.
“Quindi quanto ci mette la metro ad arrivare a Wembley?”
“Da qui, una quarantina di minuti”
“Ci conviene partire un’ora prima”
“Anche un’ora e un quarto, c’è scritto che dalla stazione allo stadio ci vogliono venti minuti a piedi, ma non mi fido”
“Giusto… beh, ma in fondo che c’è ancora da vedere qui? Potremmo andare”
“Andiamo!”

Il piano è proseguito poi senza intoppi fino all’appello di sabato mattina. Alle 7.30 siamo giunti sul piazzale (l’appello delle 22.00 della sera prima era iniziato un po’ in anticipo… non si sa mai…), alle 8.00 abbiamo iniziato, con gli altri fan, a metterci nelle rispettive file – veniamo già allineati a gruppi di cento – per rispondere alla chiamata.
Fino alle 9.00 l’unico che pronuncia il mio nome è stato un tizio che mi ha salutata.

Poiché i tornelli del nuovo, ipertecnologico paiolone di Wembley (ha perfino il manico, è chiaro che l’architetto s’è ispirato al recipiente per cuocere la polenta) sono impostati per sbloccarsi solo alla lettura di biglietti corrispondenti a quell’ingresso, abbiamo dovuto formare due code: una per chi ha biglietti di prato con accesso dagli ingressi B e C, l’altra per chi accederà dai cancelli E ed F (o F e G, francamente non ricordo).
Mi è parso ovvio che fosse sufficiente rispettare la successione dei numeri naturali, affinché – se i cancelli fossero stati aperti allo stesso tempo e l’accesso fosse avvenuto lentamente – le persone entrassero comunque nell’ordine in cui sono arrivate, o con uno scarto tollerabile.

L’autogestione dei fan, fino a quel momento impeccabile, ha inizialmente incassato bene il colpo della farraginosa – per usare un eufemismo – organizzazione dello stadio e ha conservato i presupposti per funzionare nonostante il colpo basso del doppio ingresso, del quale eravamo sì al corrente dall’acquisto dei biglietti, ma le cui dinamiche non erano ancora state precisate nel dettaglio.

Durante la mattinata di sabato, però, lo staff dello stadio ce l’ha messa tutta per distruggere il sistema – collaudatissimo e altrove ottimamente funzionante – della coda organizzata dai fan, e dopo numerose, scrupolose e costanti azioni di sabotaggio ha avuto la meglio, ottenendo un capolavoro di pericolo con un ingresso di massa da manuale del “Cosa non fare nella gestione del pubblico di un concerto”.
Sembrava di vivere in uno di quei film polizieschi americani degli anni Settanta, in cui l’ottima indagine dei poliziotti è compromessa dall’arrivo di supponenti agenti dell’FBI, il cui intervento inetto non fa che aggravare la situazione.

Bruce Springsteen liveDapprima, infatti, ci è stato sconsigliato di lasciare il posto in fila.
Sebbene, infatti, sia previsto un altro appello alle dodici, lo staff dello stadio non manifesta ai fan le proprie intenzioni, e ovviamente nessuno si è preso la responsabilità di garantirci alcunché se – ora che sono arrivati i federali – i programmi dovessero cambiare all’improvviso.

Quindi ci è stato detto che avremmo potuto “rompere le righe”, poiché nulla sarebbe accaduto fino alle sedici.
Non ci abbiamo creduto, dato che non avrebbe avuto senso distribuire i braccialetti un’ora prima dell’apertura dei cancelli, così nessuno si è schiodato. Ci viene detto di rilassarci, andare in bagno, mangiare un panino… insomma, di non stare così sul chi vive, seduti in terra ordinatamente uno dietro l’altro.
Senza allontanarci troppo a lungo, abbiamo a turno approfittato di questo stallo e pian piano ci siamo sparpagliati, sempre restando in zona; molti chiacchieravano, qualcuno leggeva, alcuni dormicchiavano, altri condividevano attraverso lo smartphone la coda più demenziale del millennio minuto per minuto.

È stato a quel punto che ci è stato richiesto di formare di nuovo la fila.
Perché?
Erano le undici, avevano detto che fino alle quattro non sarebbe successo nulla, perché non potevo stare seduta dalla parte opposta della strada? “Sta per succedere qualcosa o no?” – Il mio inglese dev’essere pessimo, perché la persona a cui l’ho chiesto se n’è andata senza rispondermi; mi convinco che non abbia capito per salvaguardare la mia stessa salute.

Dopo mezzogiorno, una fan estenuata ci ha rimessi in ordine di numero, dando fondo al suo ottimismo e alle sue forze.
È divenuto chiaro a tutti che non ci fossero molte possibilità che tutto andasse liscio, ma, in questi casi, se tutti crediamo che non funzionerà, agiremo come se la fila non fosse valida e non funzionerà davvero; se, invece, ci comporteremo come se potesse funzionare, ciascuno starà al suo posto e funzionerà, perciò noi e non pochi altri abbiamo ritenuto costruttivo prestarci alla farsa, sperando nell’effetto farfalla. Scoprirò dopo qualche ora che eravamo in troppo pochi a pensarlo, o tutti troppo pavidi, poiché anche io ho avuto poche esitazioni a superare numeri più bassi dei miei, dopo che mi ero vista superare da quelli più alti.

Siamo, quindi, stati divisi in settori, e abbiamo trascorso diverse ore in fila in piedi – o sedendoci a turno nel poco spazio che cera – sotto la pioggia.
Ad un’ora che non ricordo, ma comunque troppo tarda affinché la cosa avesse ancora senso, è avvenuta la distribuzione dei braccialetti per il pit (qui l’articolo di alcuni anni fa in cui spiegai cosa fossero), con un criterio sconvolgente, perfettamente in linea con la gestione allucinante dell’evento: dati in mano ai fan.
È prassi diffusa che il braccialetto venga allacciato al polso del fan da chi lo distribuisce, badando a stringerlo il più possibile, per evitare che, una volta entrati, i fan se lo tolgano e facciano entrare qualche amico, riempiendo il pit oltre la capacità consentita.
Con le moderne tecnologie, inoltre, non mancano coloro che lo fotografano e lo inviano agli amici a casa, che lo stampano e indossano per accedere in un momento di poca attenzione dello steward.

Parecchio tempo dopo l’assegnazione delle striscioline di carta color vomito, qualcosa si è sbloccato e il pubblico nel primo settore è stato traslato fino ai tornelli.
Noi siamo rimasti al nostro posto nel secondo settore, perché gli spazzini stavano pulendo il primo.
L’accesso al primo settore è stato dato mentre gli operatori erano ancora al lavoro con bidoni e ramazze. Con la gente che premeva alle spalle per passare, le possibilità che qualcuno si facesse male non erano poi così basse.

Abbiamo aspettato ancora, ma questa volta in mezzo al piazzale. I numeri si sono ben ben rimescolati: dietro di noi ci siamo ritrovati una coppia (il furlano e la sua santa moglie) che aveva numeri più bassi dei nostri di un centinaio di unità, davanti a noi cifre superiori del doppio alle nostre.
I federali non facevano che intimare di non correre, ma non hanno fatto nulla di concreto per impedirlo: non hanno ricacciato i numeri più alti al loro posto, non hanno lasciato avanzare quelli bassi, né hanno bloccato chi scappava loro sotto il naso.

A Trieste c’è una raffinata espressione che dice “più cul che giudizio”, ed è quello che ha avuto lo staff dello stadio di Wembley, quando ci ha raggruppati ad imbuto alle porte tagliafuoco del corridoio interno, per lasciarci correre come disperati (sempre raccomandandosi molto di non farlo, ovviamente) fino alla porta per scendere dalla gradinata al prato.
Giunti interi per miracolo alla strozzatura, diversi hanno chiesto di accedere in ordine di numero, ma sono stati accuratamente ignorati dallo staff che, però, ha rimproverato aspramente mio marito quando, spinto, finisce contro un ragazzino che non aveva visto.

Quando anch’io sono stata sparata fuori dal cancelletto sulla gradinata come fuori da una cerbottana – the flying Zambini, ho pensato ridendo –, cerco di percorrere le scale il più rapidamente possibile, non per raggiungere il pit prima di altri, ma per fuggire dalle persone dietro di me, che se si fossero mai riversate giù tutte insieme avrebbero fatto di me un hamburger di balena.
Abbiamo preso posto molto lateralmente, accanto a un francese sulla sessantina, col riporto, letteralmente sdraiato sulla transenna che sta tenendo il posto – si direbbe – a tutta la dinastia Bonaparte. Era lo stesso pazzoide epigono di Napoleone che qualche ora prima aveva minacciato la volonterosa e paziente ragazza che ci aveva messi in fila dicendole che non sarebbe riuscita a fare altrettanto a Parigi, perché i Parigini non si sarebbero fatti comandare. Mentre io già assimilavo i Parigini alle vecchiette che, in posta, si lamentano dell’introduzione dell’eliminacode perché, con il numero, non possono più fregare il posto al prossimo, e pensavo che il tizio fosse un imbecille integrale, dato che i primi duemila fan di Springsteen, ad ogni concerto, sono praticamente sempre gli stessi, a Milano, come a Parigi, come a Stoccolma, la piccola e ferma organizzatriceaveva risposto che lei a Parigi ci sarebbe andata, che non sapeva che organizzazione si sarebbe formata, ma che a Montpellier era filato tutto perfettamente e quindi non vedeva perché Parigi avrebbe dovuto fare eccezione.
Lui e sua moglie hanno perfino cercato di spingermi via, ma erano troppo piccoletti – e io troppo furiosa per come stavano andando le cose – per riuscire a smuovermi.

Bruce e la E-Street band sono saliti sul palco con soli quindici minuti di ritardo e un gran scintillio di dentiere, e mio marito si è detto già ripagato. 
Io non lo ero, anzi, guardavo Springsteen con aria di sfida, poiché ci sarebbe voluta proprio una scaletta pazzesca per controbilanciare una giornata così.

Darkness on the edge of town

Land of hope and dreams. Perbacco. Buon inizio Bruce, non c’è che dire… devi ancora fare tanta strada per ricompensare la mia abnegazione, ma la direzione è giusta. Jackson Cage: buono. Radio Nowhere: discreto, specie per la posizione in scaletta. Save my love: discreto, avrei preferito qualche chicca dal primo volume di Tracks, ma anche pescare da The Promise non è una cattiva idea. La serata, devo dire, è partita col botto e promette bene, ma ecco che Bruce pesca la richiesta Hungry Heart. È la settima volta che la sento in trentasei concerti. Non è abbastanza per essere stufi, ma per storcere il naso davanti alla banalità sì; poi, Bruce fa la faccia da Springsteen, si capisce che ha preso di mira qualcuno, ma non è ancora molto chiaro chi. La telecamera inquadra la porzione di pubblico oggetto del suo sguardo, ci sono due cartelli: Thudercrack e Rosalita. Mi piacciono molto entrambe, ma Thundercrack è una delle mie fisse, se la fa svengo dalla gioia. Dalla stesura stessa del reportage deduciamo che ha suonato Rosalita, che è comunque un eccellente recupero rispetto a Hungry Heart e con la quale – finalmente! – mi fa contenta. This hard land. Questo sì è un gran bel colpo, sono così contenta che a momenti non ci credo. Lost in the flood. Stasera Bruce vuole proprio che io perda i sensi, o che mi sbarazzi di mio marito, visto che da tre brani a questa parte, ogni volta che attacca qualcosa, io pianto le unghie nel braccio del mio fortunato consorte e lo scuoto con forza.

Sono talmente soddisfatta che, per quanto mi riguarda, il concerto potrebbe finire qua, ma Bruce riesce a farci ancora più contenti suonando tutto Darkness on the edge of Town. È tutto talmente bello che sono impietrita dalla meraviglia e anche adesso – me ne rendo conto – non sono particolarmente brillante nel riferire dell’evento.
Darkness è per moltissimi fan – tra cui mio marito – il disco più bello, e anche coloro che preferiscono altri dischi gli riconoscono essere di un pregio, per certi aspetti, inarrivabile.
È vero, manca l’effetto sorpresa, mancano l’emozione e la tensione nell’attesa di scoprire “e adesso, cosa suonerà?”, ma ci sono Something in the night, Candy e Racing una dietro l’altra, e Factory, e Prove it, e la stessa Darkness, che ci lascia sfiniti e intontiti, frastornati da una tale indigestione di bellezza.

Poi ci pensa l’immancabile Waitin’ on a sunny day ad abbassare la media del concerto e i brani che seguono non sono certo rarità, anche se Light of Day è un bel guizzo. Il fatto è che, a questo punto, potrebbe mettersi a cantare anche pezzi della Pausini e noi esulteremmo comunque, sentendoci gli unti del Signore per la rarità offertaci, oppure neanche ce ne accorgeremmo, ancora del tutto rimbecilliti da Darkness.

Non è la scaletta che ho sempre sognato, anche perché è più probabile che resusciti Clarence Clemons che che Bruce suoni la mia scaletta ideale, ma è una scaletta eccezionale, nella quale fino allo scorso anno non avrei neppure osato sperare, composta per più del 50% da alcune fra le mie canzoni preferite.
Considerata in prospettiva con lo show di Padova, mi ha permesso di veder suonare dal vivo i brani dei due album migliori di Springsteen, e forse i miei preferiti (solo il mio debole per i primi due dischi mi condanna all’eterna insoddisfazione). Quasi quasi – e non avrei mai creduto di dirlo – sono elettrizzata alla prospettiva di ascoltare tutto Born in the U.S.A. a Parigi, poiché, anche se non è un album che amo particolarmente, sarebbe un bel en-plein.

A questo punto mi aspetto di essere fatta fuori da un sicario da un momento all’altro – o dal nostro lettore-portafortuna Cristiano, magari, che a Padova sono arrivata ad un soffio dall’incontrare faccia a faccia –, poiché ho trascorso la mia giovinezza a dire “se divento uno di quei fan che vanno ai concerti aspettando la chicca, o il pezzo mai sentito, e sono contenti solo se Bruce suona qualcosa di assurdo, uccidimi”, e mi rendo conto del fatto che le ultime scalette mi abbiano oltremodo viziata e mi stiano conducendo lungo questa pericolosa china, ma sto assistendo a cose che noi nati in Europa dopo l’allunaggio non avremmo mai neppure sognato di vedere accadere sotto i nostri occhi, e se, a questo punto, tutto mi sembra possibile, non sono io che ho perso il senso della realtà, è Springsteen che ha deciso di farci uscire pazzi.

Bruce Springsteen a Wembley

La nostra prossima tappa è Parigi, dove giuro che arriverò tardi e non farò la fila per la transenna, visto che ci sono ben quattro accessi automatici allo stadio e il pasticcio è sempre in agguato. Intanto, a Gjón, la tappa precedente quella nella capitale francese, Bruce è stato avvistato con la mamma, mentre la moglie è a Nizza con la figlia.
Brividi!

La foto dello stadio di Wembley è tratta da yourwembley.co.uk.
L’immagine di Springsteen in bianco e nero è tratta dal sito ufficiale
La foto di Springsteen in concerto con la E-Street Band è tratta da The Times.

Le scalette di Londra e Padova sono pubblicate (fra l’altro) su Springsteenbootlegcollection.com. Ci sono moltissimi altri siti che le rendono disponibili, questo è semplicemente il mio preferito.

 

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  1. […] e Monaco di Baviera (per i quali è stata la terza replica), ma per noi – che pochi giorni prima, a Londra, avevamo avuto la fortuna di ascoltare tutto Darkness on the Edge of Town, e che ancora prima, a […]

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