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Scrittura

Petrolio. Un romanzo di luce

Immagine articolo Fucine MuteBisognerà leggere a fondo, e a fondo riflettere, sul romanzo postumo di Pier Paolo Pasolini Petrolio, che la casa editrice Einaudi manderà in libreria il 30 ottobre. La sensazione prima di questa approfondita lettura — è che nelle pieghe di quest’opera incompiuta e frammentaria si nascondano, in codice, motivi che possono illuminare alla radice i moventi delle scelte estetiche e delle prese di posizione polemiche dell’ultimo Pasolini; e gettare una luce tremenda sulla realtà italiana oltre la sua morte, fino a oggi. Da questo punto di vista — ma ripeto; prima di una lettura approfondita — si può dissentire da Aurelio Roncaglia (che ha supervisionato la cura filologica del libro, svolta da Graziella Chiarcossi e Maria Careri) allorché, nella finale “nota filologica”, sostiene che tra i motivi per cui oggi, dopo 17 anni, se ne decide la pubblicazione si può annoverare anche la lontananza di “situazioni contingenti (politiche e di costume), oggi non certo dimenticate, ma in qualche modo lasciate alle nostre spalle”, se “oggi la società è mutata, ed è mutato anche il quadro politico”, questo mutamento si ha l’impressione che sia avvenuto nella direzione indicata da Pasolini, soprattutto in quelle opere, come Salò e questo Petrolio, in cui ragiona, attraverso una trasposizione allegorica del suo intimo vissuto, delle atrocità cui conduce l’anarchia del potere.

Ma è certo troppo presto, a proposito di Petrolio, per arrivare a queste conclusioni. Per presentarlo al pubblico l’Einaudi ha scelto la storica collana dei Coralli: su una copertina bianca, senza alcuna illustrazione, spicca in rosso il titolo e in nero quello dell’autore; nei risvolti di copertina e sul retro nulla che dia qualche indicazione, se non una dichiarazione di Pasolini rilasciata a “La Stampa” il 10 gennaio 1975: “Ho iniziato un libro che mi impiegherà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne, però basti sapere che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie”. Questa ‘summa’ sarebbe dovuta essere di almeno 2000 pagine. Alla data della morte, sul suo tavolo da lavoro, custodito in una cartellina logorata dagli anni, ce ne erano 522.
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Che cos’è Petrolio? Lo si può capire solo leggendo il libro. E infatti ieri, alla presentazione presso il gabinetto Vieusseux in Palazzo Strozzi a Firenze, Aurelio Roncaglia si è voluto limitare a parlare dei problemi filologici che ha posto la cura del testo e di quelli etici legati alla decisione di pubblicarlo. Per quanto riguarda i primi, ha informato che, trattandosi di un testo non solo incompiuto, ma la cui parte scritta era ancora in fase di abbozzo e sarebbe stata certo rivista da Pasolini e limata anche in quelle tranche che sembrano più compiute, si è lavorato soprattutto a restituire i materiali per quello che si pensa fosse il progetto dell’autore. E del resto, difficoltà particolari non ci sono state, dato che i 200 “appunti” o unità che Pasolini aveva scritto erano ordinati cronologicamente: i problemi sono stati soprattutto per la decifrazione di parole incomprensibili, a volte rimaste tali, e per decidere come restituire in stampa parti su cui l’autore manifestava incertezze attraverso segni grafici. Si è deciso così di dare al lettore tutti gli strumenti per capire il lavoro di ricostruzione effettuato, ma senza subissarlo di note e segnalazioni grafiche, che avrebbero rappresentato una foresta impervia trattandosi di un testo che è già impervio di per sé.
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Per quanto riguarda i problemi etici, angosciosi per Graziella Chiarcossi, che di Pasolini è nipote e erede, Roncaglia ha tenuto a chiarire che non si tratta “come nella vicenda di Virgilio, per citare un esempio classico o, per venire al novecento, di Kafka, che voleva le sue opere al rogo”, di un testo sulla cui pubblicazione esista un veto di Pasolini. Quale diritto avremmo avuto, ha poi protestato il filologo, rovesciando i termini del problema, di “tenere nascosto un libro, che può portare un grande contributo di studio o conoscenza sull’opera pasoliniana?”. .
Il progetto di Petrolio risale alla primavera o estate del 1972, anno in cui Pasolini stila una “scaletta”, riprodotta dal volume Einaudi, alla fine della quale spiega il motivo minimale e insieme folgorante della sua decisione di scrivere il romanzo: “Mi sono caduti per caso gli occhi sulla parola petrolio in un articoletto credo de “l’Unità”, e solo per aver pensato la parola petrolio come il titolo di un libro mi ha spinto poi a pensare alla trama di tale libro. In nemmeno un’ora questa “traccia” era pensata e scritta”.
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Ma, come spiega Roncaglia nella sua “Nota”, non si puo’ dire che l’opera si sviluppi secondo questa ‘traccia’. Che essa rimane il motivo del doppio, raro nell’opera di Pasolini, riluttante alle suggestioni romantiche: il protagonista è scisso in un Carlo Polis e in un Carlo Tetis, che poi corrispondono alle due dimensioni in cui vive l’opera, quella del pubblico, del politico, e quella dell’intimo del sessuale. Questo Carlo, industriale del petrolio, è metà donna e metà uomo, un androgino che condensa in sé il rispettabile borghese, però di aperte vedute, di sinistra, e quella, atroce, dell’essere simbiotico, orgiastico, che come Mister Hyde ha obliato ogni possibilità di redenzione.

Bisogna leggere a fondo Petrolio perché questo non è che un flebile tracciato tematico, scavalcato dal suo possente significato allegorico. Però non si può che rimanere colpiti dal fatto che mentre Pasolini, voracemente, come un fiume in piena, senza scrupoli di stile, scriveva disperatamente Petrolio, era tutto intento a cogliere l’interezza dei corpi e dei luoghi, girando i due ulteriori film della sua Trilogia: I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. “Di giorno” impressionava sulla pellicola il mondo intatto e popolare dell’universo novellistico orientale e medievale-anglosassone; di “notte” dissociava la vita del personaggio di Carlo. Finché con Salò, questo gioco non si ricompone in un’astratta, fredda, lucida, geometrica rappresentazione del Potere. è la stessa sconsolata e abissale necessita’ di “adattamento” al degrado neocapitalistico, denunciata nella sua famosa “Abiura”, che informa il suo romanzo postumo.
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Che “romanzo” in senso proprio non è spiega Roncaglia, senza volersi troppo perdere, però, nei nominalismi. Pasolini accarezzava da almeno otto anni, quando cominciò a scrivere Petrolio (che nella sua testa si sarebbe potuto chiamare anche Vas, forse per suggestione dantesca “Vas d’elezione”, “Natural vassello”), “l’idea di un libro scritto a strati… in modo che… si presenti quasi come un diario…; alla fine… come una stratificazione cronologica, un processo formale vivente… un misto di pagine rifinite e in abbozzo, o solo intenzionali”. Così, aggiungeva nell’appunto che contiene queste parole, datato 1 novembre 1964 (e ora “Nota n.1” in fondo a La Divina Mimesis), “il libro avrà insieme la forma magmatica e la forma progressiva della realtà”. Non solo: nella prima pagina di Petrolio, che risale alla primavera del ’73, Pasolini presenta la sua opera come un “meta romanzo filologico”, per usare le parole di Roncaglia: cioé un’opera il cui risultato sarebbe dovuto figurare come la collazione filologica di parti sparse (quattro, cinque manoscritti, concordanti e discordanti di cui due apocrifi, “con varianti curiose, caricaturali, ingenue o rifatte alla maniera”, e molto altro materiale scritto a mano.
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Se Pasolini non poté realizzare questo programma strutturale, ciò non di meno l’idea di mettere di fronte al lettore non un libro, ma un’esperienza, come era nelle sue intenzioni, scegliendo la strada dell’opera aperta musiliana, non decade, in virtù del fatto che il lavoro di filologia che sarebbe dovuto essere intrinseco al suo processo creativo, il fato — diciamo così — ha voluto che lo svolgesse dopo la sua morte, qualcun altro. Ed è agghiacciante, ma insieme comico “alla Kafka”, che abbia immaginato come autore dell’opera incompiuta, La Divina Mimesis, cioè se stesso, un scrittore morto ucciso a colpi di bastone a Palermo, l’anno scorso: e lui, nella finzione, ne risulta il filologo. Ricorda Roncaglia, che nelle Lettere luterane Pasolini ha scritto: “non c’è niente di più alluncinatorio del verificarsi, in atto, di qualcosa che si era prevista e descritta come…. possibilità”.
“E’ un romanzo, ma non scritto come sono scritti i romanzi veri: la sua lingua è quella che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private e anche per la poesia”, scrisse Pasolini a Moravia a proposito di Petrolio (la lettera è anch’essa riportata nel volume). E inoltre tra le pagine della sua opera, in cui riflette continuamente sul testo che sta scrivendo, estraniandosene al pari di un Hoffmann del ventesimo secolo (a cui lo accumuna il motivo del doppio, del borghese presentabile e del rifiuto vivente, com’è nel Gatto Murr), Pasolini scrive che è intenzionato non ha raccontare una storia, ma ad arrivare ad “una forma… ‘qualcosa di scritto’”, a un blocco di segni.

In questa intenzione, riflette Roncaglia, si palesa la sopraffazione del simbolo su la cosa narrata. Ma il “simbolo tende a tradurre il pensiero in immagine poetica”, così se il romanzo tende al saggio, il saggio tende alla poesia. Avremo, di conseguenza, un registro già sperimentato in Trasumanar e Organizzar, dove la provocatoria concettualizzazione della metrica a favore di un “parlato monotonale”, finiva per piegarsi alle esigenze primarie della poesia. “La poesia è in alcuni appunti del libro, compatti, conchiusi, che possono leggersi come novelle. Da alcune parti che descrivono l’Oriente, emana una luce”, ha detto Roncaglia. Infine ha ripetuto: “Si, si può parlare di un romanzo di luce”..
Bisognerà leggerlo a fondo, Petrolio, perché questa luce illumini, come sembra in suo potere, zone recondite del nostro presente, nonostante siano lontani lo scandalo del petrolio, o le stragi di Brescia e dell’Italicus, dentro cui trovava la sua incidentale cornice storica.

Da “il manifesto” del 25 / 10 / 92, per gentile concessione

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