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Musica

Marc Ribot

Ecologista della musica

I livello. Introduzione standard ad uso dei giovani con stomaco forte.

Qualche anno fa di fronte all’oceano, sulla spiaggia di Biscarrosse in Francia, ebbi per la prima volta la terribile sensazione che il tempo si fosse fermato. A posteriori ne parlai con diverse persone e scoprii che questa sensazione, anche se in modi diversi dal mio, era stata vissuta da molte persone della mia stessa generazione, con cui condividevo l’interesse verso i fenomeni emergenti dall’avanguardia o che semplicemente erano più sensibili di altri. Non era, ovviamente, la storia umana che si era fermata; era piuttosto caduta la credenza sulle possibilità di farvi parte in modo diverso da quello di un osservatore. Per i più consapevoli non vi erano grossi dubbi. Erano le condizioni materiali di vita nella società contemporanea a non permettere di poter essere-in-azione e la società stessa stava propagandando piuttosto un essere-in-osservazione. La mia sensazione era quindi più che motivata.

La tematica delle forme assunte dal tempo, visto come atto intenzionale (1) a risposta della nostra esperienza, ricopre una funzione piuttosto importante nell’ambito dell’interpretazione della cultura postmoderna. Penso che una delle problematiche da risolvere nel postmoderno sia proprio la mancanza delle protezioni temporali verso un futuro, giacché è venuta a cadere la credenza positivista nell’idea di progresso: in altre parole il futuro/progresso è stato superato, o meglio è diventato a noi presente e contemporaneo. Tutti i nostri “sogni” non sono quindi svaniti ma, al contrario, si sono resi “presente”, sono disponibili sempre, e potremmo anche affermare che si trovano lì, per noi, su uno schermo. è come se la società spettacolare in cui viviamo ci avesse tolto la possibilità di agire, per restituirla a noi, ormai solo meri spettatori anziché interpreti, sotto forma d’immagine. In un tempo quindi spazializzato, tutti gli “oggetti culturali” vengono presentati come “dati” con un nome e questo congelamento rende l’atto artistico un mero prodotto ormai privo di vita.

II livello. La scienza in cucina.

Nel campo della musica, uno dei movimenti più conosciuti, che ha dato e che sta cercando di dare espressione al postmoderno, è sicuramente quello dell’avanguardia newyorkese. A questo ambito appartiene Marc Ribot, considerato come il chitarrista più rappresentativo dell’estetica no wave (2) della Knitting Factory. Azzardando una definizione, potrei dire che la soluzione di Ribot è una sorta di detournement in grado di sradicare il “dato musicale” dal suo significato originale e ridargli nuovamente vita allargandolo armonicamente o disordinandone l’andamento ritmico, tanto da renderlo quasi irriconoscibile, oppure giustapponendolo consapevolmente in serie di “blob” sonori. Per dato musicale in questo caso intendo quella serie di conoscenze sonore della storia della musica pop, socialmente condivise, come ad esempio potrebbero essere una frase melodica o un intero brano dei Beatles, di Hendrix etc.: quel patrimonio insomma, che gli americani usano comunemente chiamare standards. L’esasperata evidenza degli elementi corrosi di questa materia musicale, in qualche modo restituisce loro un senso.

Tutto questo ci dice ancora ben poco del suo stile. In fin dei conti anche il jazz nasce dalla rivisitazione di canzoni, e in generale nel corso della storia della musica, quella popolare è spesso stata la fonte da cui attingere per creare nuove forme (la Sonata da camera ad es. inizialmente era un seguito di danze idealizzate o di pezzi derivati dalla Canzone o dal Madrigale). Inoltre se vogliamo, anche l’esasperazione degli elementi corrosi del romanticismo fu una delle prerogative “estetiche” dell’espressionismo, e quindi rischierei di rimanere troppo nel generico.


III livello. La cucina per gli stomaci deboli.

Raccontare almeno una parte della ricchissima storia biografica e musicale di Ribot è quindi indispensabile a rendere l’idea del suo personaggio e del suo ruolo nella musica. Molti dei dati che lo riguardano appartengono alla storia della musica moderna e prescindere da loro significherebbe limitare di molto la comprensione di ciò che Ribot rappresenta come musicista.
Marc Ribot è nato nel 1954 a Newark, New Jersey, e il suo approccio con la chitarra (classica) avviene fortuitamente attraverso Frantz Casseus, un musicista/compositore haitiano amico dei suoi genitori. Il successivo avvicinamento di Ribot alla chitarra elettrica ed il suo trasferimento a New York nel 1978 non interrompono il suo rapporto con la musica di Casseus e con lo strumento acustico dando come risultato la registrazione due dischi che comprendono molte delle composizioni del suo insegnante.

Ribot ha lavorato inizialmente come turnista (Jack McDuff, Rufus e Carla Thomas, Solomon Burke, Chuck Berry ed altri nomi storici del R’n’B) assieme alla band stile Stax/Volt dei Realtones (in seguito UptownHorns Band); la sua prima tournée risale al 1982 con la band del cantante soul Wilson Pickett che lo porta in Finlandia. Riguardo a questo viaggio, Ribot racconta del panico di Pickett dopo aver scoperto di trovarsi non lontano dai confini dell’allora Unione Sovietica; sembra che Pickett abbia dato in escandescenze con la convinzione che i comunisti l’avrebbero rapito e scambiato con delle testate nucleari o cose del genere… Ma Pickett non è stato l’unico leader “difficile” con cui Ribot ha collaborato; Tom Waits, anche se non allo stesso livello di follia sporadica, è stato un altro personaggio complesso che ha fatto parte — determinante dal punto di vista della carriera e dell’esperienza- della vita di Ribot. Waits lo ha contattato dopo averlo sentito suonare con The Lounge Lizards di John Lurie (vi ricordate Daunbailo’…?), formazione in cui Ribot consolida il suo stile che mescola elementi della tradizione blues stravolgendoli e rinfrescandoli in stile no-wave; nello stesso modo anche Elvis Costello è stato colpito dallo stile di Ribot ed ha voluto collaborare con lui. In qualche modo Costello e Ribot condividono una certa base culturale, il R’n’B, ed è su questo che si è basata la loro prima collaborazione, rimasta per il momento inedita nell’attesa da parte di Costello di un certo successo commerciale…

Al di là delle collaborazioni “illustri” di Ribot come sideman, il suo principale canale d’espressione rimane la sua band, i Rootless Cosmopolitans (Cosmopoliti sradicati), che in seguito all’abbandono del tastierista Anthony Coleman cambia nome diventando Shrek. Ribot racconta:

Il primo nome era in ogni caso molto lungo, e pochi sapevano che “rootless cosmopolitans” era un termine inventato da Stalin; a quel tempo era vietato essere un “cosmopolita senza radici” in Unione Sovietica, ed era con questo pretesto che Stalin faceva arrestare ebrei ed intellettuali.

Shrek è costituito da due batterie (Christine Bard e Jim Pugliese), un contrabbasso (Sebastian Steinberg) e due chitarre (Chris Wood e Marc Ribot), ma per questo progetto Ribot avrebbe preferito avere quattro batterie invece di due ed altri elementi nella stessa proporzione, se solo, ed è lui stesso a dichiararlo, avesse avuto più denaro a disposizione. Shrek propone sia composizioni originali (la maggior parte), che covers, originali anch’esse per interpretazione… Qualche purista ascoltandoli “demolire” classici come While my guitar gently weeps dei Beatles o The wind cries Mary di Hendrix, avrà pensato di sparare sul palco, ma una certa dose di shock ha sempre fatto parte della sua musica e Ribot anche dal vivo fa costantemente riferimento al modo di pensare che domina nelle sue registrazioni in studio.

Parallelamente al progetto Shrek, Ribot mantiene ed alimenta il suo interesse verso i cambiamenti della New York’s New Music lavorando con musicisti come Arto Lindsay, Don Byron, Elliot Sharp, Anthony Coleman, the Jazz Passengers, Evan Lourie, Cibo Matto e soprattutto John Zorn in ogni sua incarnazione.  Nel ’96 con “Don’t Blame Me”, un cd solo, rielabora classici standard americani. Recentemente ha lavorato in formazione con Los Cubanos Postizos. Al contrario di Cooder, che si limita ad accomodarsi in un contesto preesistente senza dare grossi contributi, Marc Ribot e Los Cubanos Postizos ridanno vita alla musica di Arsenio Rodriguez, compositore della stessa età dei Buena Vista, reinterpretando lo stile cubano classico per la generazione post-punk.

Venezia, 3 dicembre 1999 — Aula Magna della Facoltà di Architettura — Rassegna di nuove musiche contemporanee RISONANZE — Marc Ribot Guitar Solo

Al concerto si presenta con un classico kit da chitarrista d’avanguardia: diverse chitarre che poi suonerà anche contemporaneamente, un piccolo ventilatore con al posto delle palette degli elastici che passati sulle corde fanno le veci di una velocissima mano destra, un archetto da violino e per terra palloncini gonfiati da far scoppiare con i piedi ritmicamente durante i brani. Con questa premessa sarebbe facile aspettarsi una serata divertente, ma il pubblico dei concerti d’avanguardia si comporta come se si trovasse a un convegno sui problemi della prostata e reagisce con lo stesso preoccupato entusiasmo. Non capisco perché davanti a un Marc Ribot veramente ironico, i pochi (2-3) che hanno riso sono subito stati folgorati da sguardi di colta disapprovazione. Il concerto ha avuto sicuramente momenti di grande trasporto, oltre che spunti divertenti, ma bisogna dire che la sperimentazione non sempre riusciva. A volte penso che la forza di certe persone stia nel fregarsene di mode e convenzioni (che non risparmiano neanche ambienti avanguardisti) e per questo motivo di riuscire ad essere spontanei, assumendosi l’onere di un possibile fallimento o perlomeno di una possibile caduta di stile nella banalità: del resto queste persone sono le uniche a meritare il perdono se dovessero caderci.

L’intervista

Giampaolo Rampini (GR): Puoi dirci qualcosadel tuo progetto solistico…

Marc Ribot (MR): è una mescolanza prevalentemente di due o tre cose. Una parte del concerto riguarda dei pezzi dal cd di John Zorn intitolato “The Book of Heads” , una composizione per chitarra solista che contiene 35 pezzi che possono essere suonati come sono o usati come base per l’improvvisazione. L’altra cosa che stavo perlomeno tentando di fare, era di mescolare questo materiale con degli standards e la mia speranza per questa serata nel suo complesso era che si creasse una sorta di trasfusione dagli standards alla nuova musica e dalla nuova musica agli standards,… in modo che mettendole assieme accadesse ad entrambe qualcosa di diverso… in una serata buona comunque! (ride)

GR: Che cosa pensi dell’improvvisazione?

MR: Penso sia divertente!

GR: è sempre utile secondo te?

MR: No, non è sempre utile; l’improvvisazione è un tipo di scrittura, è un tipo di scrittura spontanea… è sempre utile, ma se funzioni sempre è un’altra questione… penso che funzioni sempre quando è Derek Bailey a farla! (ride)

GR: Hai affermato che l’improvvisazione è un modo di scrivere musica; è così che di solito scrivi la tua musica?

MR: Ad essere sincero di recente non ho composto molto, comunque di solito lavoro in diverse maniere. Qualche volta scrivo su partitura; per questa sera non ho realizzato nessuna composizione con la “K” maiuscola… prevalentemente negli ultimi tempi quello che ho fatto è stato interpretare la musica d’altre persone. A volte lo trovo più interessante che cominciare dal nulla, perché se posso prendere il materiale di qualcun altro e stravolgerlo completamente mi sembra in qualche modo di essere più ecologico; ci sono troppe composizioni in giro, penso che sia un bene costruire da materiali che già esistono…

GR: Una specie di riciclaggio…

MR: Sì… (ride)

GR: Che rapporto hai con il tuo strumento?

MR: (Ride) Be’, questa è una buona domanda da fare dopo questo concerto; questa sera avevo varie chitarre destinate a vari utilizzi, ma per qualche ragione ho scelto di usare una chitarra da 20 dollari che qualcuno mi ha dato; non sono sicuro del perché, ma in qualche modo è stato irresistibile; è uno strumento che ha qualcosa di magico, però è molto imprevedibile; qualche volta fa esattamente quello che voglio e altre volte non fa niente di quello che voglio; è come un essere a sé stante… fa in modo che si crei una certa lotta che mi piace.

GR: E questa sera c’è stata una lotta o…

MR: Un po’ entrambe le cose. Penso che ci siano stati dei momenti buoni… questo è un tipo d’ambiente molto diverso…

GR: Ti riferisci al pubblico?

MR: No, il pubblico era molto buono, di fatto; questo pubblico deve avere sentito molta di questa musica, perché hanno risposto…erano motivati ad assistere a qualcosa di difficile per certi aspetti, non ho sentito di dover fare da baby-sitter! (ride)

GR: Adesso qualcosa a proposito della tua storia; hai vissuto a New York dal 1978 ed hai potuto vedere cos’è successo alla musica da allora… che cos’è cambiato nella sua atmosfera musicalmente?

MR: Ho visto qualcosa di quel che è successo…sono cambiate molte cose; recentemente ho vissuto per la maggior parte del tempo nell’East Village… è una lunga storia, ho vissuto in molti posti… è cambiata la gente nell’East Village; è diventato uno delle zone più care di NY e questo ha in qualche modo cambiato il senso delle cose. Per la verità in questo momento non c’è molto spazio perché si crei una scena; c’è un certo numero di musicisti e compositori che conosco, e che mi piacciono ma lo spazio esiste per i musicisti elettronici, persone che sono pesantemente dentro il DeB e l’Hip-Hop. Io ho solo alcuni compositori che mi piacciono, e ci lavoro. Così vanno le cose…

GR: Hai suonato in molti progetti musicali, spesso molto diversi fra loro, da Wilson Pickett a Tom Waits, dai Lounge Lizards di John Lurie a Caetano Veloso, da John Zorn a Los Cubanos Postisos…per esempio hai registrato anche per “Dead bees on a cake” di David Sylvian…mi ha sorpreso vederti lì!

MR: Sì, anch’io ero sorpreso, non so neanche come ha avuto il mio nome, ma mi sono divertito molto a registrare, è stato bello lavorare con lui, molto intenso in studio; abbiamo fatto parecchie registrazioni, non ricordo se in uno o due giorni; è stato un breve lasso di tempo ma molto produttivo. L’ho ascoltato e sono molto contento di come ha usato le mie cose; l’intero disco era molto denso. L’abbiamo registrato parecchio tempo fa, penso più di due anni.

GR: Una domanda sull’arte: intendi l’arte più come azione o come contemplazione?

MR: Non posso immaginare nulla che si basi interamente sull’uno o sull’altro. Non conosco nessun tipo d’arte che non sia strettamente mimetica… certamente quello che io faccio è in parte critica , ma tutto quello che posso immaginare è in qualche modo in relazione critica con ciò che l’ha preceduto e allo stesso tempo per qualche verso è anche relativo al mondo; per esempio i testi… gli standards che io suono e canto hanno delle parole, sono delle canzoni d’amore ma io ne trasformo il significato.

GR: Quando suoni, anche una canzone d’amore, il tuo stile suona critico, sarcastico o parodistico…

MR: Le mie cose, per essere sincero, o qualsiasi cosa io possa immaginare di ascoltare, dovrebbero essere sia contemplazione sia critica, ma critico non deve necessariamente significare agit-prop…!

GR: Che cosa sarà la tua prossima registrazione?

MR: Ho appena finito di registrare un disco con Los Cubanos Postisos, che dovrebbe uscire in primavera. Mi piacerebbe anche registrare un disco con Jamaaladeen Tacuma, con cui ho suonato in The Young Philadelphians, un progetto d’improvvisazione, una specie di punk-funk-harmolodic-noise, ma molto intenso… Questo gruppo ha J.Tacuma al basso e Calvin Weston alla batteria (entrambi hanno suonato nell’Original Prime Time Band di Ornette Coleman) e sono entrambi grandi musicisti; avevamo John Zorn al sax e un altro giovane sassofonista di NY di nome Mike Gauch; spero di registrare questo e dell’altro materiale da solo.

GR: Il tuo modo di relazionarti al soul e al blues: è una combinazione cinica?

MR: No, non è per niente cinica, è un tentativo di divertirmi, è quello con cui sono cresciuto, è la musica del mio cuore…

GR: Ho letto che ti consideri un musicista soul…

MR: Nel senso più ampio del termine, mi piace pensarlo… (ride).

“…prevalentemente negli ultimi tempi quello che ho fatto è stato interpretare la musica d’altre persone. A volte lo trovo più interessante che cominciare dal nulla, perché se posso prendere il materiale di qualcun altro e stravolgerlo completamente mi sembra in qualche modo di essere più ecologico; ci sono troppe composizioni in giro, penso che sia un bene costruire da materiali che già esistono…”.

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