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Cinema

La matita dell’alchimista

Fellini vignettista

Fellini ha sempre disegnato accanitamente: da bambino, quando riempiva le tovaglie di casa con interminabili ghirigori, da studente, quando faceva le caricature degli insegnanti o andava sulla spiaggia di Rimini, vestito di tutto punto, a caccia di clienti a cui fare il ritratto, da giovane in cerca di fortuna, quando collaborava come umorista e vignettista al “Marc’Aurelio”; e poi da regista, quando il disegno gli serviva per fissare i lineamenti di un personaggio, per abbozzare un costume, una scenografia, per captare le suggestioni cromatiche da riprodurre sulla pellicola. L’accanimento grafico di Federico Fellini ha coinciso con il suo modo di essere, con le sue manie, perché era una specie di mania quella che lo portava a imbrattare qualsiasi cosa, persino la patente di guida, con figurine, facce, disegnetti vari.

Al disegno Fellini ha affidato le sue fantasie più sfrenate, il contenuto dei suoi sogni, che fissava servendosi non delle parole ma del pennarello: al fumetto, parente stretto del disegno, ha consegnato i suoi film non realizzati, Viaggio a Tulum, Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet.
Sembra di capire che disegnare fosse per lui una specie di linguaggio irrinunciabile, una prima forma di masticazione del mondo, la maniera più diretta e immediata per cominciare a dare uno spessore artistico, un significato simbolico all’esperienza. Disegnare era per Fellini un’attitudine tanto varia quanto ambigua: aveva a che fare con lo sberleffo, con la risata, con il senso del ridicolo e del buffo, ma poteva anche avere un risvolto critico, come un giudizio muto e inappellabile affidato alla carta; era il sismografo degli stupori, delle meraviglie ma era anche un modo per venire a capo della noia, dell’indifferenza; una specie di linguaggio automatico che registrava i soprassalti dell’attenzione, della percezione, ma anche una strategia per congedarsi da un’emozione, per archiviarla almeno provvisoriamente. Suppongo che, soprattutto, il disegno fosse per Fellini un modo per non parlare, per parlare il meno possibile di cose tenui, imprendibili, per non farsi impigliare nei discorsi che ci trasportano subito nelle regioni più usurate dell’esperienza, un modo per non perdere il contatto con le zone calde della creatività, un continuo esercizio di riscaldamento. Se la psicanalisi junghiana è stata per lui un incoraggiamento a esprimere il suo mondo interiore, questo incoraggiamento si è materializzato anzitutto come matita e come pennarello. Per questa serie di motivi, parlare di un “Fellini disegnatore” equivale a dire tutto e niente, a usare una formula così vaga e generica come “Fellini uomo” o “Fellini testimone del tempo”. La abbandono subito, abbandono il sottotitolo che ho appena scelto per questa breve chiacchierata. Non provo neanche a inseguire le evoluzioni dello stile grafico felliniano, dalle caricature di gioventù alle prove successive: non ne sarei in grado.

Vorrei invece concentrarmi su una sola categoria di disegni, su quelli che hanno preparato e accompagnato la realizzazione dei suoi film, per tentare qualche modesta considerazione generale, nel senso di preliminare, introduttiva. Affiorano subito le domande più ovvie: vi è un’autonomia dei disegni rispetto ai film di cui sono gli araldi, i battistrada; hanno anch’essi una dignità pienamente artistica o sono soltanto degli schizzi, degli scarabocchi privi di un effettivo valore estetico? Anche la risposta è ovvia: basta sfogliare le raccolte più note dei disegni felliniani (1) ad uso cinematografico per capire subito di trovarsi di fronte, quasi sempre, a opere compiute, brillanti di luce propria, piccoli capolavori nel loro genere. Spesso non c’è nemmeno una somiglianza esplicita con la trasposizione filmica: i disegni non sono calchi preliminari, “sinopie” destinate a essere completate, ricalcate, perfezionate per ottenere il risultato finale, il film. Sono e restano altro, pur esprimendo la stessa aria, le stesse impressioni volatili, gli stessi tratti rivelatori che si ritrovano sulla pellicola.
Ma bisogna intendersi su questa autonomia espressiva, soprattutto non bisogna amplificarla troppo, perché‚ non va dimenticato che Fellini ricorreva ai disegni, a quei disegni di cui ho scelto di parlare, in vista del film, che era la cosa a cui teneva di più, il mezzo attraverso cui aveva deciso di dare fondo ai suoi multiformi talenti.

Ancora meno autonomia può significare una specie di suddivisione di ruoli, una diversità di stile: come dire, quando Fellini disegna si esprime essenzialmente attraverso la caricatura, quando gira dei film, oltre agli immancabili ritratti caricaturali, ricorre soprattutto a figurazioni simboliche, oniriche, metaforiche. Mi pare che in Fellini cinema e disegno siano autonomi solo nel senso che entrambi, con mezzi diversi, esprimono l’intera gamma delle sue possibilità creative, che insomma il disegno di accompagnamento al film non sia soltanto lo strumento per schizzare delle caricature, magari anche per anticipare in forma caricaturale ciò che poi diventerà simbolo, metafora, mito.
Fellini è stato un caricaturista in senso stretto durante la sua gioventù e non ha mai rinunciato anche in seguito all’umorismo tipico della vignetta, della “striscia”: lo riteneva una fonte di vitalità e freschezza, che alimentava la sua fantasia. Ha continuato a disegnare per amici e amiche una quantità impressionante di caricature, bellissime e geniali, ma, specie per i suoi film, ha usato il disegno anche come proiezione mitica, come lo specchio delle sue visioni più dense.

Sì, la dimensione ultima dell’arte di Fellini, che non esiterei a definire “mitica”, è presente con grande forza anche nei suoi disegni, e in fondo sarebbe strano il contrario. Il disegno non coincide con la caricatura, è invece in tutto e per tutto un analogo del film, forse un fratello minore ma con lo stesso patrimonio genetico del fratello più grande. Vediamo se a guardare le cose da questo punto di vista si riescono e evitare certe semplificazioni che prendono corpo immancabilmente ogni volta che si tenta di inquadrare il mondo figurativo felliniano.
In che senso è “mitico” il cinema di Fellini? Lo è in quanto si presenta come una specie di sogno a occhi aperti, come una continua trasfigurazione in atto, nutrita dall’immagine del sogno a occhi chiusi ma non direttamente, riproducendo il più fedelmente possibile questa o quella esperienza onirica, bensì indirettamente, passando attraverso un continuo intervento plastico sulla realtà, distillando il sogno come forza creativa a tutto campo.

Un grande disegnatore, non a caso, ha scritto che per Fellini “ciò che conta è questo meraviglioso rivelarsi di tutte le cose, questo commovente dischiudersi di essenze segrete, questa ineffabile trasfigurazione universale che unisce tutti, uomini, animali, piante, cose, in una gloriosa esibizione di sé in un animismo dolcissimo, in una reciproca adorazione panica”. Il disegnatore è Milo Manara.
La grande novità di Fellini è qualcosa di ancestrale: il mito, la “sapienza poetica” di cui ci parla Vico a proposito di Omero: questa è anche la sua geniale inattualità, la sua fruizione nel bel mezzo della società tecnologica. Allo stesso tempo, il cinema felliniano ci svela di continuo l’arcano di cui si nutre, ci fa entrare dietro le quinte dello spettacolo che mette in scena, non si limita a ripristinare in maniera ingenua dei valori archetipi: Fellini mitizza e demitizza insieme, entra nei suoi film in carne e ossa oppure si fa rappresentare da un alter ego, ci mostra quello che fa mentre lo sta facendo e spesso arriva a svelarci l’apparato di macchine e di strumenti di cui si serve per la sua magia. Anche certi suoi disegni, non tutti ovviamente, sono “mitici”: lo sono in particolare quelli di creature femminili, divine o demoniache, come Silvia ne La dolce vita, la Saraghina di 8 1/2, la bimba del Toby Dammit, e così via. L’Olimpo felliniano è governato da Era e non da Zeus, o meglio da tutte le personificazioni della donna: Afrodite, Artemide, le ninfe, ma anche le Erinni… Ed è sempre la fantasia di un uomo che le crea, di un uomo che oltre a crearle le cerca e si chiede chi siano oggi queste dee, che vita fanno, come vanno vestite, perché‚ vuole incontrarle, conoscerle, amarle.
Gran parte dei disegni che Fellini dedica alle donne dei suoi film, all’incirca da La dolce vita in poi, sono proiezioni mitiche e non caricature. Il principio della caricatura è la sproporzione tra il dettaglio e l’insieme, la deformazione di una parte rispetto al tutto, non tanto per rinunciare alla somiglianza tout court quanto per rendere il soggetto rappresentato più che mai riconoscibile, più riconoscibile della sua copia fedele. La forza della caricatura sta qui: nel farci riconoscere una persona proprio attraverso la sua deformazione parziale.

Anche nei disegni-mito felliniani c’è una deformazione, ma essa non è dovuta all’accentuazione di un particolare, di un dettaglio buffo o sorprendente o curioso: c’è invece una figurazione favolosa, una dilatazione che investe l’insieme della figura e la trasforma in qualcosa di grande, di mostruoso, di meraviglioso, di affascinante. In gioco è sempre la deformazione ma non della parte bensì del tutto. D’altro canto, proprio per questo tra la caricatura e il mito vi è, in fondo, una continuità più che una frattura: nei film come nella produzione grafica di Fellini le macchiette, le “sagome”, i tipi buffi e curiosi stanno accanto alle divinità, ai simboli arcani, alle figure dominanti, in fondo sono una specie di divinità minori, simpatiche e sgangherate, di cui non si può fare a meno. La caricatura è una prima forma di deformazione, preliminare o affine rispetto a quella deformazione di ordine superiore che assume il carattere della trasfigurazione, della trasformazione alchemica.

Restano comunque le differenze: i disegni-mito, di cui fornirò tra breve qualche esempio, nascono da una tonalità emotiva che non è quella della caricatura (il riso, il sorriso, il ghigno), nascono dallo stupore e da un senso di soggiogamento. In essi vi è la traccia di qualcosa che richiama il totem, il feticcio, l’icona, l’immagine religiosa. Basta guardare certi disegni preparatori de La città delle donne per farsene un’idea (nn. 242, 260, 261, 265); e la scena finale dell’incontro di Snaporaz con la bambolona-feticcio della Donna ideale non è costellata di manifesti, gigantografie di donne celebri e di dongiovanni altrettanto celebri?
Quando si vuole ricercare la fonte del mondo figurativo felliniano nella sua esperienza di disegnatore umorista, sostenendo che in fondo nel “Marc’Aurelio”, ne “Il Travaso” o in altri giornali simili c’era già tutto, i toni crepuscolari e angelici non meno delle maggiorate fisiche e di un certo gusto aggressivo e deformante, si dice per molti versi una cosa vera ma si dimentica che Fellini ha continuato a disegnare, a sognare, a fantasticare. Mai ha reciso i suoi legami con quel mondo, goliardico e sbarazzino, ma ha anche sentito e vissuto il disegno come il primo ricettacolo delle sue emozioni profonde, delle sue visioni, lo ha reso complice del suo progressivo scivolare verso un’arte sulfurea, rabdomantica, magica, sempre più dominata dagli elementi figurativi.

Ad esempio, che posto ha la pittura nel cinema di Fellini? È un discorso troppo lungo e difficile: mi fermo qui e mi limito a ripetere che, non solo nella sequenza temporale, tutto il cinema felliniano, e cioè tutti i registri formali ed espressivi di cui si compone, deriva dai disegni che lo preparano, è già condensato e raccolto in essi. Cosa siano poi il disegno e il cinema rispetto alle visioni dell’anima è la prima e l’ultima cosa che bisognerebbe chiedersi.
Come dicevo, vorrei soffermarmi su alcune raffigurazioni femminili: la donna è per Fellini l’alfa e l’omega della sua arte, è davvero l’altra metà del mondo, una polarità dialettica, l’Altro che ci sfugge e di cui non si può fare a meno, è quindi ciò che più si presta a una visione mitica. Comincerei, e mi scuso per l’ovvietà, da Anita Ekberg-Silvia de La dolce vita, un’immagine archetipo, dovizioso (n. 42), tanto grande da non essere nemmeno disegnata per intero (mancano le braccia oltre al resto della figura): su tutto domina l’onda blu del vestito, con una spirale di paillette che dovrebbe ricordare la Via Lattea, una dilatazione cosmica della donna, una specie di incarnazione del cielo stellato.

Immagine articolo Fucine Mute Due disegni preparatori de Le tentazioni del dottor Antonio (nn. 48, 49), episodio di Boccaccio ’70, insistono ancora di più sulla dismisura e sulla trasfigurazione di Anita come grande felino, una tigrona graffiante e protettiva, una tigrona da latte (“Bevete più latte” è lo slogan pubblicitario che accompagna nel film la gigantografia della Ekberg). Una tigre che fa anche paura: non aveva detto Fellini, vedendo una foto di Anita che “faceva la bimbetta a cavalcioni sulla ringhiera di una scala”, “Dio mio non fatemela mai incontrare”? Ma l’incontro ci sarà e si riverbera su queste forme disegnate con un senso di timorosa attrazione (nn. 46, 47). Sarà l’incontro, racconterà iperbolicamente Fellini, con “le idee platoniche delle cose, degli elementi”: “Ah, ecco, questi sono i lobi delle orecchie, queste sono le gengive, questa è la pelle umana”. E Marcello ne La dolce vita: “Lo sai che sei tutto… La prima donna del primo giorno della Creazione… Sei la madre, la sorella l’amante, l’amica… La terra, la casa, gli angeli, il diavolo… Ah, ecco cosa sei: la casa”.
Si può aggiungere qualcosa sulle linee che Fellini ha scelto per disegnare il viso di Anita (nn. 37, 42): sono linee diritte (ciglia e sopracciglia, gli zigomi), verticali (le pupille, le narici), triangolari (la bocca, il mento), sono cioè il segno di una stilizzazione emotiva, per nulla realistica, per nulla somigliante all’originale (il confronto con una foto della Ekberg a quell’epoca può essere interessante) e in aperto contrasto con la rotondità del corpo. Questo per dire che anche l’immagine mitica, al pari della caricatura, non è mimetica, non si basa sulla verosimiglianza: come per la resa cinematografica di uno schizzo caricaturale, in cui Fellini fissa un carattere, un tipo e ad esso conforma la fisionomia reale dell’attore, così anche per il disegno mitizzante quel che conta è l’aria, l’impressione volatile che diventa effigie, icona, senza badare alla fedeltà. Anche il disegno mitico non è verosimile.

Passo a un nuovo personaggio: la Saraghina di 8 1/2 (n. 52), la prostituta della spiaggia. È un altro volto della donna, “la prima traumatica visione del sesso”, la “donna ricca di femminilità, immensa e inafferrabile e nello stesso tempo nutritizia”, “una misteriosa e paurosa figura di madre” agli occhi del protagonista bambino. Per Fellini, la donna è davvero un singolare collettivo, quasi che “fosse una sola incarnata in miliardi di sembianze”, come ci dice in Fare un film e come ripeterà ne La voce della luna, la sua ultima opera cinematografica. Anche per la Saraghina non si deve parlare di caricatura ma di proiezione mitica di un’esperienza vissuta, di un corpo e di un volto dilatati a mo’ di sfinge, di totem, di feticcio. Beninteso, non è necessario che i disegni-mito abbiano a che fare con figure reali trasfigurate nell’immaginazione, non ci sono “regole” al riguardo: possono anche nascere dalla semplice fantasia, dall’invenzione pura, dal sogno, ma forse la diversità delle loro origini non manca di produrre diversi risultati grafici. Le tante culone stilizzate che Fellini ha disegnato, le donne irsute, con il frustino in mano, dalla coda arricciata, hanno talvolta qualcosa di stereotipato, una testolina minuta rispetto a un corpo debordante, non sono così ricche di dettagli espressivi come le immagini elaborate sotto l’influenza di incontri reali, non hanno sempre la stessa carica dirompente, sono più vicine al gioco, al divertimento visivo.

Ma sempre e in ogni caso la donna felliniana è tutta grande, non ha soltanto gli attributi sessuali amplificati, è vasta, enorme, diversamente dall’uomo, che viene spesso raffigurato su scala normale con un sesso oblungo, ridicolo e simpatico, oppure per metonimia, ridotto alla condizione di membro, minuscolo o smisurato a seconda dei casi. Questa sì che è una caricatura e anche per questo la donna ha un primato indiscusso.
Le grandi dimensioni sono importanti sia per certe caricature sia per le rappresentazioni mitiche e quindi, da sole, non possono far pendere la bilancia da una parte o dall’altra (alla signora Carla di 8 1/2, ad esempio, non basta essere “imponente” per risultare anche “mitica” — n. 50; il cappellino d’angora, gli occhialini, poi eliminati, l’aria da ocona gentile ce la fanno sentire piuttosto come una caricatura affettuosa). Tipico del disegno-mito (e della rispettiva immagine cinematografica) è invece un certo tipo di grandezza, la grandezza che fa sentire piccolo lo spettatore, quella in cui il disegnatore-spettatore materializza simbolicamente la sproporzione che avverte tra sè e la figura mitica. Quando Fellini disegna uomo e donna nella stessa scena il primo è spesso minuscolo, un adoratore soggiogato e impotente, o al massimo un fallocrate, che spera di riportare la vittoria sulla donna-bastimento con la sola vigoria della sua appendice mobile. La donna come la nave, altro grande mito felliniano. Emblematica è l’immagine del Rex nel manifesto del Festival di Cannes del 1982 (n. 350): un cuneo metallico circondato da microscopiche barchette, che taglia in due un mare notturno, una sagoma nera esaltata dal contrasto con l’eruzione luminosa del ponte e degli oblò, somiglianti più a una raggiera di riflettori che a dei semplici fori, un triangolo scuro disegnato dalla curva netta della schiuma bianca dell’acqua.
In definitiva, l’effetto-grandezza dei disegni-mito, non è altro che una variazione della potenza soggiogante del cinema, almeno del cinema come lo intendeva Fellini. Non è per fare dell’elegia che cito queste sue parole: “Quello schermo gigantesco che incombe su una platea devotamente raccolta davanti a lui, fatta di uomini piccoli piccoli, che guardano incantati immensi faccioni, labbroni, occhioni, che vivono e respirano in un’altra, irraggiungibile dimensione, fantastica e nello stesso tempo reale, come quella del sogno, quel grande, magico schermo non ci affascina più. Ormai abbiamo imparato a dominarlo. Siamo più grandi di lui. Guardate come l’abbiamo ridotto: eccolo là, tra la libreria e un portafiori”. È la televisione.
Il mito è fatto anzitutto della piccolezza dell’uomo, del suo sentirsi piccolo nonostante la creazione di tutto abiti dentro di lui: la perdita del mito va di pari passo con il diventare grandi, in tutti i sensi. Qui il cinema è identificato da Fellini con lo schermo gigante, con il telo bianco su cui scorrono le ombre effimere dello spettacolo: nei suoi film, non ha mancato di richiamarlo metaforicamente con le lenzuola del bucato appese ad asciugare, le lenzuola che la donna stira, le lenzuola che riempiono i saloni della fattoria-harem di 8 1/2, che tornano ne La città delle donne, in Intervista, nel set in cui Marcello Mastroianni sta girando Mandrake e che la sua bacchetta magica materializza di nuovo nella villa di Anita Ekberg, sotto forma di uno schermo improvvisato su cui proiettare le immagini de  La dolce vita, le immagini dei “bei tempi del passato”.

Anche la donna, ci dice Fellini, è sempre lo schermo che accoglie le nostre proiezioni, “rispecchia e restituisce le nostre emozioni e i nostri bisogni, ce li restituisce con amicizia e comprensione, dà loro forma, ce li rivela”.
Neanche a dirlo, in Intervista, Anita fa il suo ingresso avvolta in un lenzuolo-asciugamano: la donna è un lenzuolo, ci sembra di intuire, un grande foglio di carta, l’equivalente di ciò che per Fellini è stata la carta o il bianco delle pareti del Teatro 5, vuoto, con le luci accese. Un foglio inesauribile in cui la sua matita di alchimista ha disegnato per noi.

Il presente testo  e le relative immagini sono tratti da Massimiliano Filippini e Vittorio Ferorelli (a cura di), “Federico Fellini autore di testi. Dal Marc’Aurelio a Luci del varietà“, Atti del convegno di Bologna 29-30 ottobre 1998, Quaderni IBC, Ististuto per i  beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna, 1999.
Per gentile concessione dell’autore.

Le tavole di Milo Manara provengono dal sito ufficiale dell’autore, all’URL www.milomanara.it

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