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Palcoscenico

Jan Fabre, l’uomo che misura le nuvole

Immagine articolo Fucine Mute“Lei cos’è? Un pittore o un performer? Che cosa preferisce fare, arte visiva o teatro? Due domande che mi fanno di continuo. Se non mi piacessero non farei né l’una né l’altro. Secondo me una non esclude l’altro. S’influenzano a vicenda. L’idea sceglie da sola il medium che le è più adatto. Può trattarsi di un’immagine, di una rappresentazione teatrale o di uno spettacolo di danza, ma una volta trovata la via, gli resto fedele, non sono un artista multimediale. Ogni ambito ha una propria memoria, una storia ed esige un metodo di lavoro diverso”. Artista visivo, performer, scultore, regista teatrale, coreografo, riassumere con una definizione cos’è Jan Fabre è impossibile. Per sintetizzare verrebbe voglia di chiamarlo “artista multidisciplinare” ma in realtà anche questo non basta, vista la sua inclinazione a coniugare l’antico spirito universalistico con la scienza moderna. Facendo proprio il pensiero del biologo Edward Wilson, che in L’armonia meravigliosa (The Unity of Knowledge, 1998) scrive “La più grande avventura della mente è sempre stata e sempre sarà il tentativo di collegare il campo scientifico con quello umanistico”, Fabre, non solo applica le sue conoscenze di entomologia all’arte figurativa o alle coreografie ma, come un pensatore rinascimentale, rivoluziona ciascuna delle discipline nelle quali si misura.

La passione per la ricerca empirica emerge prestissimo. Tra il 1975 e il 1978, all’età di sedici anni, costruisce nel giardino della casa dei suoi genitori ad Anversa un laboratorio dove conduce esperimenti su ragni e mosche. Una sorta di scultura modellata con la tela di una vecchia canadese e denominata The Noise delimita il Terrain for nocturnal projects, un luogo inaccessibile per chiunque in cui Fabre cataloga gli animali e studia i disegni di Alfred Ost, di Karel Verlat, di Félicien Rops ma in particolare del bisnonno Jean-Henri Fabre. Noto entomologo, Jean-Henry classifica insetti e coleotteri inventando dei nomi ispirati al loro comportamento e conia il concetto di “Ora Blu”, momento liminare tra il sorgere del sole e il termine della notte in cui gli esseri notturni lasciano la scena a quelli diurni e tutto può accadere. Affascinato dal mondo naturale, a cui dedicherà la serie di disegni raccolta in The book of insect (1975-1978), ma soprattutto dall’idea “del tempo sospeso in bilico tra luce e tenebre che favorisce l’introspezione” evocata dall’Ora Blu, Jan si misura nelle prime performance private, durante le quali richiama le intuizioni di Fluxus o di Joseph Beyus sul rapporto tra arte, tecnologia e scienza acquisendo la consapevolezza del suo corpo e del ruolo dell’autore. Dopo queste prime esibizioni, dove ribattezza la sua via Jan Fabrestraat (1977) o disegna con il sangue come in My body, my blood my landscape (1978), Fabre avanza una critica al mercato artistico attraverso la performance Money (1979) nella quale brucia il denaro pagato dagli spettatori per assistere all’evento, Ilad of the bic-art (1980) in cui, imbrattando delle fotocopie di dipinti di Leonardo Da Vinci e Rembrandt con una penna ad inchiostro blu della popolare e poco costosa marca Bic, gioca sull’idea di pseudo-arte (bic al posto di big), di originale (il suo dipinto autografato) o copia (l’immagine del dipinto famoso), ed infine The Bic-art room (1981) dove resta per 72 ore all’interno della Galleria Odessa di Leyda dipingendo su qualunque superficie. La serietà con cui Fabre esegue i movimenti e la distanza emozionale sottolineata dalla disciplina evidenziano la cura per la divisione geometrica dello spazio e l’attenzione per il ritmo che caratterizzeranno soprattutto le opere più mature dell’artista. Assente per molti anni dal campo della performance, vi fa ritorno nel 2002 con Sanguis/Mantis e il 14 dicembre 2004 (nel giorno del suo quarantaseiesimo compleanno) con Virgin-Warrior/Warrior-Virgin. Esibendosi per quattro ore in una lotta con Marina Abramovic, Fabre ribadisce l’importanza che assumono in quest’arte i concetti di avvenimento, di non-ripetitività, di casualità e di immanenza del corpo dell’esecutore.

Immagine articolo Fucine Mute

La penna blu è il primo mezzo con il quale Fabre fa il suo ingresso nel settore della pittura. “Ho disegnato molto con la biro perché costava poco, così, adoperandola continuamente, ho scoperto le qualità chimiche del suo inchiostro. Ma cos’è il disegno, mi domando? Ebbene può essere qualcosa di estremamente privato, uno schizzo per un’installazione ma può anche divenire un medium indispensabile per uscire dall’intimità facendosi lui stesso scultura, con un fronte e con un retro, attorno alla quale si può girare. In molti quadri il contenuto si sviluppa esattamente dalla tinta e dal materiale”. Da ciò deriva che questo colore, che evoca il momento più importante della giornata (l’Ora Blu), oltre ad essere utilizzato nelle performance, viene studiato in tutte le sue possibilità di reagire alla luce e a supporti diversi come carta, legno, seta artificiale, ferro e vetro. Esposti in importanti gallerie internazionali ed ammirati proprio in virtù della loro forza cromatica, secondo Jan Hoet, direttore del museo di Gand e primo estimatore dell’opera pittorica di Fabre, i suoi disegni possono essere raggruppati in quattro categorie principali: il dipinto come illustrazione, come impressione di realtà, come gesto e come strumento. Il primo gruppo è composto dalle tele in cui è protagonista l’idea, il soggetto. In Sleep, sleep and sleep, little animals (1975) o negli autoritratti intitolati Hearing, seing and speaking il tratteggio, definendo le ombre e la profondità, riproduce la forma. La seconda categoria è rappresentata dalle serie nate dalla tecnica del frottage, dallo studio sulla prospettiva e sugli strati che si nascondono sotto la superficie piana. Il disegno ha le stesse dimensioni del supporto, costituito da carta spessa, ed è realizzato attraverso bicchieri di plastica usati come stampini attorno ai quali vengono create delle pozzanghere d’inchiostro. Le opere del terzo insieme sono prodotte apponendo del nastro adesivo nero su fogli che poi vengono strappati lasciando solo delle sagome bianche, spesso bucate o ulteriormente tagliate. Nella serie intitolata The Nightsledge la figura è riconoscibile grazie a queste operazioni di sbucciatura progressiva della carta che diventa il vero materiale di cui è fatta l’opera. Il quarto e più importante gruppo è formato da dipinti di grandi dimensioni (19×10 metri) realizzati su seta artificiale che vengono appesi lasciando visibili le increspature e le pieghe del tessuto. La massa del disegno riflette la luce e il colore su se stessa esaltando le ombre, le profondità e lo splendore del blu che donano un effetto tridimensionale al piano. I disegni principali di questo gruppo, The Blue Hour, The Spider, The Way from Earth to the Stars is not Smooth e The Flyng Cock possiedono una specie di asse interno che rende esplicita quale sia la loro esatta collocazione spaziale (recto-verso, sopra-sotto) nonostante esista la possibilità di girarci intorno. A proposito di questi disegni-sculture lo stesso Fabre dice: “Ho notato che ad un certo punto lo spettatore si avvicina e va a tastare il materiale con le mani. In un primo momento, guardando da lontano si è colpiti dalle visioni che possono emergere da questo colore ma da vicino si nota l’intrico delle linee e si resta stupefatti dal fatto che siano fabbricate a mano. Mi è venuto in mente da qui che un disegno può essere anche una scultura”.

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Questa intuizione si concretizza con la decorazione dell’intera superficie esterna del castello di Tivoli a Mechelen (1990) con fogli dipinti con la penna blu. “Ho lavorato direttamente sul palazzo. Ho impiegato molto tempo per la realizzazione dell’opera. La ricerca di questa particolare costruzione è durata circa due anni durante i quali ho fotografato tutti i castelli del Belgio che avessero dell’acqua davanti finché non ho trovato quello giusto. Poi, con l’aiuto di una ditta olandese, ho messo a punto un tipo particolare di carta al silicio e, grazie alla collaborazione di 35 assistenti, ho realizzato gli schizzi che avrebbero in seguito rivestito le mura, mentre con le mie mani intrise di inchiostro blu ho coperto le finestre e le porte. In questo modo il castello è diventato un enorme dipinto attorno e dentro il quale si può camminare”. Una delle figure che emergono più frequentemente dal groviglio di linee che Fabre traccia con la biro è quella dello scarabeo. Rappresentativo dell’Ora Blu, simbolo in molte culture della metamorfosi, del passaggio dalla vita all’aldilà e raffigurazione dell’artista stesso, lo scarabeo si trasforma negli ultimi anni da soggetto ad oggetto dell’opera. Lo scheletro esterno composto di chitina è un materiale molto resistente rimasto praticamente inalterato per secoli che protegge la parte vitale dell’animale consentendone la sopravvivenza e preservandone la memoria. “Non credo a una catena degli esseri viventi con in cima l’uomo ma al contrario, per me, sono proprio gli insetti i migliori medici e i massimi filosofi. Grazie alla loro storia sono i più vecchi computer del mondo, i radar della razza umana: senza di essi l’universo non potrebbe sopravvivere”. Su richiesta della regina Paola del Belgio nel 2003 Fabre ha potuto realizzare l’opera Heaven of Delight impiegando un milione e mezzo di tegumenti di scarabei per decorare il soffitto della sala dei ricevimenti del Palazzo Reale di Bruxelles. “Ho la convinzione di aver prodotto delle opere che potranno resistere alla corrosione del tempo. Se non fossi persuaso dall’idea che le mie creazioni possano avere un’ascendenza sugli artisti che lavoreranno tra cento anni, smetterei subito. Sono stato molto influenzato dai primitivi fiamminghi, ai quali faccio riferimento spesso, ma comparato a Van der Goes, Van Eyck o Bruegel non sono che un anello insignificante”.

The man who measures the clouds (1998)L’interesse per la scultura si esprime anche con la costruzione di oggetti coperti di blu (come Shoebox, 1997, Medium, medium, 1981), con installazioni formate da ossa umane o dallo scheletro degli scarabei (L’Oisellon de Dieu, 2000; Umbraculum, 2003) e, recentemente, forgiando figure in bronzo di grandi dimensioni come The man who measures the clouds (1998). In particolare quest’ultima opera, ispirata alla vita di Robert Stroud, l’uomo degli uccelli di Alcatraz, raffigura la metafora dell’artista, che, aspettando con un metro in mano il passaggio di una nuvola per misurarne le dimensioni, non può far altro che sottolineare la bellezza di un’attesa impossibile ed inutile.

Parallelamente alle riflessioni sull’arte visiva, già dal 1982, Fabre interviene radicalmente in campo teatrale tentando di conciliare l’esperienza di Artaud, attraverso le manifestazioni estreme e crudeli del corpo dell’attore, a Brecht, con l’alienazione provocata dalla ripetizione e dalla durata. Abbandonando il ruolo attivo avuto nelle proprie performance, in Theatre with a K is a Tomcat (1980) Fabre fa eseguire ai suoi attori degli schemi e crea uno spettacolo che non illustra o imita nulla ma riflette sulla centralità del testo che si materializza come elemento grafico, nella parola e con l’azione stessa dello scrivere. La messa in scena intitolata È del teatro come era da aspettarsi e prevedere (1982) rappresenta la seconda tappa della trilogia sul teatro. Dura otto ore senza interruzioni ed esplicita, grazie alla sua struttura, il senso che il concetto di ripetizione ha nell’intera opera di Fabre. Il critico Emil Hrvatin ritiene che nell’arte si possano trovare due tipi di ripetizione: il canone (il modello e la forma diventano le regole dell’espressione) e la mimesi (l’imitazione). Il teatro aggiunge la necessità della replica (la reiterazione delle rappresentazioni) mentre Fabre gioca sulla riproposizione dei movimenti, delle azioni e degli atti all’interno della messa in scena stessa. In È del teatro come era da aspettarsi e prevedere ciascuna delle ventiquattro sezioni di cui è costituito è basata sulla ripetizione concertata su diversi livelli: quella dei movimenti spinti al limite della ripetitività (come correre sul posto, saltare, vincolate solo dalle condizioni fisiche degli attori), quella dei cicli (l’azione di vestirsi e svestirsi che è illimitata ma riceve rilevanza o viene eclissata da altri movimenti) e quella della scena (che può essere riprodotta alcune volte). Fabre propone la dicotomia tra teatro, costituito dalle repliche oltre che dal ruolo dello spettatore che guarda l’azione, e realtà. Inseguita tenacemente dalla performance, essa è contraddistinta dall’unicità, dall’irripetibilità e dal corpo vivo di colui che l’agisce. Il regista vorrebbe superare questo scarto proprio con la dilatazione della ripetizione (che nella sua impossibilità di realizzarsi esattamente identica lascia trasparire la vita), la durata (che cancella la differenza fra tempo reale e fittizio), l’esposizione del corpo dell’attore (che non interpreta nessun personaggio ma spinge al limite le proprie possibilità provando realmente dolore) ed infine proponendo il rapporto vero-falso attraverso il tema del doppio e della simmetria. Così come spesso per ogni attore ve n’è un altro che esegue la medesima azione, la scena diviene uno specchio delle linee prospettiche della sala classica ed impedisce qualunque tipo di immedesimazione da parte del pubblico. La terza parte di questo trittico è The power of theatrical frenzy (1984) dove Fabre esplicita il legame arte-teatro (attraverso la proiezione sullo sfondo di dipinti di Michelangelo, Ingres e David che poi prendono vita sulla scena) e idealmente risponde alla richiesta di quali siano le fonti della sua ricerca raccogliendole nella rappresentazione stessa. Se all’inizio l’attrice Els Deceukelier è costretta a rispondere “Die Niebelungen, Richard Wagner, Festspielhaus, Bayreuth” alla domanda “1876” che costituisce la chiave d’accesso allo spettacolo, dopo aver percorso gli avvenimenti della storia recente dell’arte scenica e della danza, potrà uscirne solo ricordando che il 1982 è l’anno di È del teatro come era da aspettarsi e prevedere messo in scena da Jan Fabre allo Stalker di Bruxelles.

Negli anni novanta l’interesse del regista si sposta sul corpo, sulla bellezza che emerge dalla disciplina con cui l’attore lo sfinisce nel tentativo di superarne i limiti e sulla tensione verso la ricerca del movimento perfetto che può manifestarsi nell’assenza stessa di azione. Oltre alla trilogia, che comprende Sweet Temptation (studio sul corpo fisico, 1991), Universal Copyrights 1 & 9 (studio sul corpo spirituale, 1995) e Glowing Icons (incentrato sul corpo erotico, 1997), a The fin comes a little bit early this siècle (analisi sul corpo come costume, 1998-99) e As long as the world needs a warrior’s soul (riflessione sul corpo che si ribella, 2000), realizza Je suis sang (2001, con riprese nel 2003 e nel 2005). Ispirandosi alle suggestioni della mistica Hildegard Van Bingen e alla fantasia brulicante di Hieronymus Bosch, Fabre allegorizza la follia della società contemporanea ancora vincolata alle restrizioni medievali e cristiane che rifiutano e martirizzano il corpo. Il sogno di un individuo privo di carne e di ossa che, purificandosi attraverso il proprio liquido vitale, si possa liberare della sofferenza e dei tabù per diventare invulnerabile, si concretizza in dei tableaux vivants che ritraggono i temi cari alla tradizione figurativa fiamminga come la malattia, il peccato e la morte. “Ogni mattina quando ci svegliamo ci troviamo a tu per tu con questo strano strumento che è il corpo di cui non riusciamo a capire tutto. Facciamo un paragone con gli angeli: sono belli, perfetti mentre noi non lo siamo eppure in tutti questi anni ce la siamo cavata. Credo nel corpo, la cui parte più sensuale per me è il cervello, perché credo nell’essere umano”.

Immagine articolo Fucine Mute

L’idea di disciplina a cui il fisico deve sottoporsi per generare la bellezza del movimento permette a Jan Fabre di avvicinarsi alla danza. Esercizi scolastici elementari del balletto classico, che si basa esattamente sul metodo e la precisione, sono ripetuti dalle interpreti di The Dance Sections (1987) per settantacinque minuti, simultaneamente e con lunghi intervalli di stasi durante i quali i loro muscoli contratti fremono per lo sforzo. Nelle coreografie lo spazio è disegnato dal corpo dei ballerini e comincia a prendere consistenza l’idea di Gesamtkunstwerk che si compirà nell’opera The Minds of Helena Troubleyn. Con le tre sezioni, Das Glas im Kopf vom Glas, Silent Screams, Difficult Dream e Da un’altra faccia del tempo, l’artista si avvicina all’idea dell’opera d’arte totale di Kandinsky, secondo il quale l’unità dei diversi campi artistici non si basa, come per Wagner, sul dramma musicale ma sulla creazione di un piano d’incontro che permetta loro di strutturarsi mantenendo l’autonomia data dal proprio specifico linguaggio.

Fabre non si accontenta di realizzare esclusivamente degli spettacoli corali ma spesso regala ai suoi attori degli assoli che esaltano le loro abilità performative. “Amo farlo quando gli interpreti stessi lo desiderano. Eels, Renée e Wim volevano davvero che concepissi qualcosa per loro e questo è un lavoro al microscopio in cui si analizza ogni minimo gesto”. Dopo Lei era ed è, anche (1991), La falsificazione così com’è, non falsificata (1992), Een doodnormale vrouw (1995) monologhi scritti per la sua attrice feticcio Els Deceukelier, e I quattro temperamenti (1997) composto dai pezzi di danza The very seat of honour per Renée Copraj, Lichaampje, Lichaampje aan de wand, dedicato a Wim Vandekeybus, The Pick-wick-man, per Marc Vanrunxt e Sono gelosa di tutti i mari… per Annamilr Van der Pluym, realizza Quando l’uomo principale è una donna. Pensando al dipinto Salto nel vuoto di Yves Klein, al suo modo di dipingere cospargendo il corpo e gli oggetti del blu da lui inventato, alla sua origine mediterranea e all’omaggio che gli fece Domenico Modugno nella canzone Volare, Fabre crea per Lisbeth Gruwez una coreografia in cui ritrae la tensione esistente tra uomo e donna. L’olio (balsamo ricco di qualità nonché simbolo di vita e di fertilità) contenuto in ventidue bottiglie diviene la superficie scivolosa sulla quale, con movimenti che ricordano quelli degli insetti, l’essere androgino si trasforma in donna capace a sua volta di donare la vita.

“Adoro l’idea che sia necessaria la luce perché la pellicola possa impressionarsi, e in particolare mi piace il processo chimico a cui dev’essere sottoposta. Credo nell’artista-artigiano, fabbricante curioso che pensa in modo interdisciplinare e che organizza tutto da solo per garantire la qualità del suo manufatto. Filmare è, in un certo senso, disegnare con la luce”. Il cinema, arte del tempo e del movimento, non può che essere il mezzo perfetto per raccogliere le sperimentazioni di Fabre. C’è lentezza in De Schede — Hé wat een plezierige zottigheid! (1988), velocità in Tivoli (1993), ripetizione di gesti proposti all’infinito in Body, little body in the wall (2000). In Een Ontmoeting / Vestrecha ( L’incontro,1987) invece Fabre costruisce una situazione grottesca e visionaria discutendo dal terrazzo di un grattacielo di New York assieme all’artista russo Ilya Kabakov sulle analogie che intercorrono tra mondo degli insetti e sistema dell’arte e sul ruolo di quest’ultima nelle società umane. “Tra i miei amici più cari ci sono filosofi, commediografi, scrittori. Tutti i film che ho fatto sono in qualche modo il riflesso di un lungo dialogo con queste persone, durato dieci o quindici anni. Un progetto importante è quello realizzato assieme a Ilya Kabakov. Ci incontriamo spesso all’aeroporto di Francoforte, lui va da una parte io da un’altra, e come due monaci confrontiamo i nostri pensieri: lui lavora con le mosche, io con gli scarabei. Così è nata l’idea di fare un film sulle nostre discussioni, vestiti reciprocamente io da scarabeo e lui da mosca. Un altro esempio è la pellicola realizzata con Peter Sloterdijk e Diemar Camper (The problem, 2003). Ho scelto quale location un luogo nel nord della Germania dove spesso si recava Caspar David Friedrich per dipingere i suoi paesaggi. Nel lungometraggio facciamo insieme una palla di neve che cresce sempre più. La sfera riconduce a Sisifo, ad Atlas ma anche alla palla fatta dagli scarabei per nutrirsi. È un film nato dal dialogo tra un artista, un sociologo ed un filosofo attorno al grande problema della vita”.

Immagine articolo Fucine MuteAnche se durante trent’anni di attività il pubblico ha spesso reagito brutalmente ai suoi spettacoli, come è accaduto nel recente Cryng Body allestito a Parigi, Fabre continua a lavorare intensamente. Assieme alla ristretta cerchia di attori e ballerini della compagnia Troubleyn fondata nel 1986, sull’esempio di Andy Warlhol, ha creato una sorta di Factory nella quale si rifugia come un solitario mistico contemporaneo. Il padre della Pop art americana, cui ha dedicato Universal Copyrights 1 & 9, Glowing Icons e L’Ange de la mort, è l’ispiratore anche dell’ultimo progetto di Fabre, Janus, rivista che si è ritagliata un interessante spazio tra i periodici dedicati all’arte contemporanea. “Tutti i giorni ricomincio da capo: scolpisco, creo, scrivo, dirigo. Invento regole per distruggerle. Fra esperienza e curiosità non ho alcun dubbio: è la curiosità che spinge a buttare giù i muri per andare più in là. Per questo credo nella disciplina: perché dalla voglia di andare oltre nasce un campo di libertà straordinario. Ciò che si ottiene dalla vita bisogna restituirlo, sempre. Mi sento come un vero e proprio servitore della bellezza: faccio di tutto per realizzare le mie idee e cerco il modo migliore per metterle in atto. Il mezzo, però, cambia sempre come mutano la mentalità, la storia, la memoria delle cose e il linguaggio. Anche le connessioni fra i diversi generi che metto in campo per realizzare uno spettacolo variano. Dai danzatori e dagli attori, per esempio, imparo cose che posso usare in altre situazioni. Chiamerei questo metodo “conciliazione”: nella danza uso la strategia, i movimenti degli insetti che studio e osservo di continuo come un entomologo. Ne risulta una dimensione complessa all’interno della quale discipline diverse concorrono per raggiungere la bellezza. Io sono soprattutto questo: un guerriero della bellezza”.

Bibliografia


Emil Hrvatin, Ripetizione, follia, disciplina: l’opera teatrale di Jan Fabre, Infinito Ldt edizioni, Torino, 2001
Germano Celant (a cura di) Jan Fabre, Arti & Insetti & Teatri, Costa & Nolan, Genova, 1994
Jan Fabre, Teatro, Costa & Nolan, Genova, 1995
Hugo de Greef, Jan Hoet, Le Guerrier de la beauté, L’Arche, Lonrai, 1994

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