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Fumetto

Luca Enoch

Le crepe della Storia, il fantasy e le ucronie

Quando le fonti storiche dirette sono venute meno o mi sono sembrate insufficienti, ho fatto ricorso a una moderata dose di fantasia, sempre sostenendola con una solida struttura storiografica.

La Banda Stern - copertinaÈ stata questa la bussola che ha seguito Luca Enoch per scrivere il racconto a fumetti che contribuisce a fare luce su un contesto storico poco conosciuto e su un piccolo gruppo di uomini che ne è stato, a suo modo, protagonista. Edito da Rizzoli Lizard nell’ottobre del 2012, La Banda Stern narra le vicende di un gruppo armato di matrice sionista fondato nel 1940 da Avraham Stern. Del Lehi, questo il vero nome della formazione, e della sua lotta sanguinaria per cacciare gli inglesi e realizzare il sogno dello Stato di Israele, Enoch ci restituisce tutta l’ambiguità di giudizi di cui furono oggetto. Con la storia di questi militanti, considerati più spesso dei terroristi dagli stessi membri della comunità ebraica, piuttosto che dei patrioti, l’autore milanese ci fa riflettere sul potere accecante dell’ideologia e su quanto odio sia stato seminato in quelle terre ancor prima che lo Stato ebraico nascesse. Non è, lo si intuisce, una lettura facile, visto l’argomento spinoso e controverso, e il tratto sporco di Claudio Stassi contribuisce a rendere ancor più indigeste le scene di violenza rappresentate, gli assassinii, gli agguati, le esplosioni e tutto il dolore che ne scaturisce.

Sarebbe un peccato, però, avere a disposizione Luca Enoch senza parlare anche di Lilith, la serie a fumetti edita dalla Sergio Bonelli Editore, in cui la Storia, ma soprattutto il suo sconvolgimento, sono il teatro e l’effetto dei viaggi nel tempo della protagonista. O senza chiedere anticipazioni su Dragonero, la serie fantasy che la casa editrice milanese è finalmente in procinto di pubblicare.

Alessandro Olivo (AO): La Banda Stern nasce anche per colmare la “crepa” della conoscenza del periodo storico antecedente la nascita dello stato di Israele. Perché fra tutte le componenti politiche e militari che costituirono il sionismo, hai scelto il Lehi, ovvero quel piccolo gruppo di militanti che facevano dell’assassinio e del ricorso alla forza senza alcun calcolo delle conseguenze politiche il loro credo? Cosa ti ha colpito di questi individui?

Luca Enoch (LE): In realtà, il calcolo politico i membri del Lehi lo facevano eccome; ogni loro azione violenta, che fosse l’esecuzione di un collaborazionista, l’omicidio di un militare inglese, di un esponente politico britannico o del mediatore delle Nazioni Unite, era finalizzata ad avere un preciso effetto nel panorama politico della Palestina sotto mandato britannico, che poi era lo stesso scopo dell’altro movimento clandestino che utilizzava il terrorismo, l’Irgun, dalla cui costola nacque il Lehi: bisognava mettere in atto una serie di azioni spettacolari contro le autorità britanniche in Palestina, per umiliare gli inglesi e forzarli a ricorrere a misure repressive. Gli inglesi si sarebbero così trovati costretti a un regime di repressione, imprigionamenti, interrogatori di massa, legge marziale ed esecuzioni, che gli avrebbe messo contro la comunità ebraica. Semplicemente, i “calcoli” del Lehi erano sbagliati e le loro azioni non sortirono l’effetto sperato. Di questo gruppo mi ha colpito la determinazione che sconfina nella ferocia, il rigore che si corrompe nel fanatismo, l’emarginazione in cui il gruppo si trovò da subito all’interno della comunità ebraica in Palestina e tra gli stessi movimenti sionisti clandestini e, infine, la determinazione con cui essi seguirono la loro utopia fino alla fine, anche quando era ormai chiaro che essa era stata sorpassata dalla Storia.

AO: È stato complesso risalire alle fonti documentaristiche riguardanti un gruppo così minoritario quale la banda Stern?

LE: Abbastanza laborioso. Non esistono edizioni italiane di studi sul Lehi e il gruppo viene citato solo marginalmente nei saggi sulla genesi dello Stato di Israele, che preferiscono concentrarsi sull’attività più estesa e certamente più determinante dell’Haganà e dell’Irgun. L’unico saggio dedicato al Lehi, The Stern Gang in lingua inglese, è stato difficile da reperire persino attraverso i canali di vendita online.

La Banda Stern - Attentato a Tel Aviv

AO: Alla fine dello studio e del lavoro, quanto hai colmato di quella crepa della conoscenza e quanto ti è stato utile per capire un po’ meglio ciò che accade oggi in quelle terre ancora martoriate dalla violenza?

LE: Si tratta di un “buco” bello grande (ride, ndr) e per riempirlo ci vorrà ancora del tempo ma, analizzando la vita tormentata e violenta del Lehi si passa in rassegna la storia, altrettanto violenta e tormentata, di quella porzione di Medio Oriente che poi diventerà Israele, e si scopre che quel periodo misconosciuto, tra il crollo dell’impero ottomano e la fine della seconda guerra mondiale, non fu un periodo “vuoto”, durante il quale la minoranza ebraica e la maggioranza araba attendevano che l’Occidente decidesse del destino di quella terra. Fu invece un periodo incredibilmente intenso in cui la comunità ebraica cercava di imporre i propri diritti anche con la forza, attraverso acquisti di terreno e ondate migratorie che si succedevano senza soluzione di continuità, e la comunità araba cercava di difendere i propri diritti, anche con la forza, attraverso la resistenza verso i coloni sionisti e una crescente ostilità verso i governanti britannici, ostilità che esplose, nel ’36, sotto forma di una rivolta popolare, combattuta con una determinazione tale che costrinse il governo britannico a stanziare in Palestina più truppe di quante ne avesse in India; rivolta, peraltro, repressa dopo tre anni di attacchi brutali e spietati nelle campagne palestinesi.

AO: Mi ha colpito il fatto che, nonostante negli anni Quaranta i loro atti fossero stati assai criticati da altri gruppi sionisti proprio per la loro violenza, poi, a distanza di anni, uno di loro, Shamir, diventò premier e venne perfino istituita un’onorificenza statale intitolata al Lehi. Come è potuto cambiare il giudizio politico e storico a distanza di pochi decenni?

LE: Dopo la vittoria sugli eserciti arabi e parallelamente alla costruzione dei miti fondanti dello Stato, si diffuse l’atteggiamento che considerava chiunque avesse combattuto per la creazione di Israele degno del rispetto della comunità nazionale. In questo senso va letta la decisione di istituire l’onorificenza per i membri del Lehi; inoltre, quando uno dei suoi leader divenne un uomo politico di spicco e addirittura primo ministro, fu necessario rivalutare anche un gruppo marginale e controverso come il Lehi. Considerate, inoltre, che i resti dei due sicari del Lehi che, a Il Cairo nel ’44, assassinarono Lord Moyne, ministro britannico per il Medio Oriente, furono riportati in Israele nel ’75 e sepolti sul Monte Herzl a Gerusalemme, dove riposa il padre fondatore del sionismo e altri leader dello Stato di Israele. Ai funerali il governo mandò una rappresentanza ufficiale e Shamir stesso tenne il discorso funebre. Nell’82 il governo israeliano decise infine di stampare un’edizione speciale di francobolli in loro memoria. Con questi atti ufficiali, il Lehi, il cui ultimo colpo di coda fu, nel ’48, quello di attaccare un convoglio disarmato dell’ONU e uccidere a sangue freddo il mediatore delle Nazioni Unite, venne “sdoganato” e accolto nell’empireo dei patrioti sionisti.

AO: Il ritmo della storia è molto serrato: le azioni, ovvero il mezzo con cui la banda esprimeva il suo vitalismo, si alternano ai momenti di confronto, spesso teso, interno al gruppo e con altri sionisti. Avner è il personaggio che fa da cerniera, col suo racconto in flashback, di tutti gli avvenimenti narrati. In lui hai fuso il carattere di un protagonista del Lehi realmente esistito con quello di molti altri combattenti del gruppo. Ne vien fuori un idealista senza alcuna capacità empatica nei confronti delle vittime: almeno è così che l’ho visto io. Era anche questa la figura che volevi dipingere?

LE: La scelta di trasformare il personaggio storico di Yehousha Cohen in un amalgama dei vari e anonimi membri del Lehi è stato un artificio letterario che mi ha permesso di condurre il lettore lungo le discontinue vicende del gruppo clandestino, facendogli seguire un solo personaggio, per facilitare la lettura e non generare confusione. Questi combattenti erano persone che, come gli indipendentisti algerini, non colpivano solo gli “occupanti” inglesi, ma non esitavano a uccidere i membri della propria comunità che collaboravano con gli inglesi o gli stessi compagni di lotta che desideravano uscire dai ranghi. Io non ho voluto nemmeno tentare di entrare in sintonia con persone capaci di tali atti; la mancanza di empatia di Avner verso le proprie vittime è conseguenza diretta della mia incapacità di provare empatia nei suoi confronti.

La Banda Stern - Il giuramento di AvnerAO: Dei disegni molti realistici di Claudio Stassi, alla fine della lettura, mi son rimasti impressi i volti, le espressioni, gli sguardi duri e carichi di violenza che è riuscito a infondere ai protagonisti. Come è nata la vostra collaborazione e come è stato lavorare insieme a lui?

LE: Conoscevo Claudio dai tempi di Brancaccio, realizzato insieme a Giovanni Di Gregorio. Mi piacque molto l’uso espressivo che faceva della china acquerellata e pensai subito a lui per questo progetto. il suo tratto forte e sporco mi sembrava perfetto per illustrare una vicenda come quella della banda Stern.

AO: Alcuni pensano che il fumetto non sia adatto ad ogni forma di narrazione e che non si debba occupare di fatti storici, in quanto solo gli studiosi di storia hanno gli strumenti, le competenze e il tempo per verificare le fonti e affrontare scientificamente il tema in questione. Io non sono d’accordo, anche perché lo stesso si potrebbe dire per qualsiasi altra opera di fiction. Tu che ne pensi?

LE: Questa che riferisci è l’opinione, assolutamente legittima, di maestri del fumetto come Vittorio Giardino, che l’ha ribadita in mia presenza all’ultima edizione di Lucca Comics&Games, durante la presentazione del dossier sul fumetto di Pagine Ebraiche, dove io presentai La Banda Stern e che, tra l’altro, ha visto ospite anche David Beauchard, autore di Il mio miglior nemico, un vero e proprio saggio storico a fumetti sui rapporti tra Occidente e Medio Oriente. Questo per dire che il fumetto è un medium, un linguaggio narrativo a tutti gli effetti e può dire qualunque cosa. Nessuno contesta al cinema e al romanzo la possibilità di raccontare eventi storici anche attraverso la biografia di personaggi realmente esistiti. Non vedo alcuna ragione per cui il fumetto debba astenersi dal farlo. Il controllo delle fonti e la cura della ricostruzione storica dipendono solo dalla professionalità, dalla serietà e dai limiti personali dell’autore.

AO: Lilith è la serie semestrale, scritta e disegnata da te e pubblicata dalla Sergio Bonelli Editore, che vede come protagonista una cronoagente, che viaggia dal nostro futuro in un periodo del nostro passato storico ogni volta diverso, per stroncare il Triacanto, ovvero il parassita che alligna in alcuni uomini e la cui proliferazione genererà poi la quasi estinzione del genere umano. Questo artificio narrativo ti consente, quindi, di coniugare in ogni albo avventura e Storia. Lilith nasce anche per il desiderio di fare un fumetto in cui gli eventi storici abbiano un loro peso?

LE: Lilith nasce dal desiderio di scompaginare le cose. In quasi tutte le storie di viaggi nel tempo, il protagonista si preoccupa di non sconvolgere il corso della Storia o di ripristinarlo se esso è stato deviato. Nel mio caso ho voluto un personaggio che non se ne curasse minimamente, perché ha altre priorità e l’integrità della Storia non rientra nelle sue preoccupazioni né in quelle del suo avversario. Il “ritorno a casa” di Lilith è compromesso nel momento stesso in cui lei inizia il suo viaggio nel tempo ed è reso impossibile dal suo eventuale successo, perché sconfiggere il Triacanto significa annullare il presente da cui lei è partita. La distopia, dunque, è una conseguenza non prevista né ricercata delle azioni della protagonista ma accettata come innocuo effetto collaterale.

AO: Immagino che dietro ci sia un grande sforzo di documentazione: come e perché scegli l’epoca storica dove ambientare di volta in volta le vicende di Lilith? Preferisci un periodo di cui sai poco, una delle “crepe” di cui parlavamo prima, o hai i tuoi preferiti e già conosciuti (come il Giappone dell’era Edo)?

LE: Il viaggio nel tempo mi permette di calare il mio personaggio in qualsiasi ambiente io desideri; esso può essere un periodo storico che amo particolarmente, come quello dei samurai in guerra o quello sofisticato e affascinante del periodo Edo in Giappone. Questo format mi dà la possibilità di illustrare periodi storici che mi affascinano o approfondire la conoscenza di altri che conosco di meno. Una vera manna per lo scrittore, che, come contropartita, ha però il rischio di perdere di vista la protagonista della storia.

Le motivazioni per cui gli uomini muovono guerra sono sempre le stesse: territorio e supremazia. Il resto è solo retorica…

Non cercare nobili ideali in questa strage. Qui non ci sono buoni e cattivi

Lilith - Il fronte di pietraAO: Sono alcune parole con cui lo Scuro risponde alle domande di una Lilith stupita dei massacri cui assiste sul fronte carnico della Prima Guerra Mondiale, scenario in cui è ambientato uno dei più begli albi della serie: Il fronte di pietra. La storia fa letteralmente rivivere l’orrore, l’insensatezza, la crudeltà, la vigliaccheria e l’ottuso militarismo che hanno caratterizzato quella guerra di trincea. Al punto che alla fine l’atto sanguinario e violento con cui Lilith esegue il suo consueto compito appare quello di un buon soldato che fa solo il suo dovere, come lei stessa afferma. Sarà per la mia origine isontina, ma ho trovato la scelta del soggetto molto opportuna: la memoria di questo scempio va sempre rinnovata, e il tuo fumetto mi ha colpito per un realismo che non è così abituale in un albo Bonelli. Come nasce questa storia?

LE: La riscossa di Vittorio Veneto e la riconquista delle terre perdute con la disfatta di Caporetto rinfocolarono giustamente l’amor patrio e diedero inizio a una profonda trasformazione in senso moderno dell’esercito italiano, ma permisero anche di accantonare, almeno nell’immaginario collettivo, tutto ciò che di infame e vergognoso era accaduto prima. Sono argomenti poco popolari, che lo stesso cinema nostrano preferisce evitare; dopo Uomini contro di Rosi, che è del ’71, quanti film italiani hanno raccontato la Grande Guerra? La letteratura e il teatro sono più sensibili a questi argomenti scomodi: lo spettacolo teatrale Cercivento e il romanzo La fucilazione dell’alpino Ortis mi hanno molto aiutato a scrivere questo episodio di Lilith.

AO: Ho notato che, con il passare degli albi, il tono delle avventure, da pesante e drammatico, ha sempre più frequentemente degli sprazzi di leggerezza. Mi pare che Lilith voglia concedersi dei momenti di relax, se non di divertimento, nonostante i continui moniti dello Scuro. È una tendenza che vedremo consolidarsi lungo le prossime storie? E, se sì, come mai?

LE: L’ho pensato come un meccanismo di difesa psicologico; Lilith è oppressa dall’ineluttabilità del proprio destino, dalla crudeltà richiesta per l’estrazione del Triacanto e dall’impossibilità di trattenere le amicizie e gli amori incontrati. Da qui, l’enfatizzazione dei momenti ludici e sessuali, paragonabili all’abbuffarsi ingordo di una bulimica che sa che poi dovrà rimettere tutto.

AO: Lilith, con i suoi interventi nel passato, ha cominciato a creare delle ucronie: dalla “bella pirata” descritta da Salgari al dominio del Giappone nell’America del Nord. Quanto ti stai divertendo a concepire una Storia alternativa e quante ne vedremo ancora?

LE: Moltissimo. Si rischia il delirio di onnipotenza (ride, ndr). Ogni azione della “brunetta cattiva” ha delle conseguenze sulla Storia; a volte la cosa si esaurisce in un nuovo romanzo, in un nuovo film o in un inedito canto di un poema epico. Altre volte si cambia il destino di un intero continente. E l’importanza della distopia non è sempre correlata all’importanza degli elementi modificati; romanzi come La svastica sul sole ci dicono che anche l’evento distopico più catastrofico e nefasto che si possa immaginare, come la vittoria dell’Asse nella seconda guerra mondiale, non avrebbe significato la fine della civiltà e l’inizio di un’era del Male perché – è triste da dire – le cose col tempo si “normalizzano”, gli orrori vengono rimossi, le vittime dimenticate e la gente continua con la vita di tutti giorni. Con tutta probabilità la sconfitta di Cortes in Messico non avrebbe salvato la civiltà Azteca; semplicemente, si sarebbe presentato un altro avventuriero spagnolo con più uomini e più cavalli. Invece l’esito diverso di una singola battaglia in Giappone, come quella di Sekigahara nel 1600, di cui molti non hanno mai sentito parlare, avrebbe potuto portare a cambiamenti radicali a livello mondiale, come io mi sono immaginato per Lilith.

Lilith - La grande battagliaAO: La cosiddetta gabbia della pagina bonelliana costituisce un limite o una sfida per le tue sceneggiature e i tuoi disegni? O è solo uno strumento di chiarezza? Insomma, come ti trovi dentro la gabbia?

LE: Con Lilith, e ancora prima con Gea, Sergio Bonelli mi ha sempre concesso molte libertà e mi ha permesso di strapazzare le gabbia bonelliana nel modo che preferivo. Era stato lui a proporre una serie autogestita da un autore unico e, coerentemente, non mi ha mai imposto di seguire rigorosamente il taglio della tavola a tre strisce, come accade nelle altre testate. Godendo di tale libertà e senza abusarne eccessivamente, mi sono sempre trovato bene nella pagina bonelliana.

AO: Durante un’intervista, Alfredo Castelli mi ha espresso l’opinione secondo cui la periodicità ideale di una serie a fumetti dovrebbe essere a metà fra quella francese e quella italiana, un quadrimestrale per esempio, in modo tale che si garantisca tanto l’affezione del lettore quanto la qualità del prodotto. Tu, sia con Gea che con Lilith, hai mantenuto una cadenza semestrale: lo hai fatto per gli stessi motivi che ho appena menzionato?

LE: Sono d’accordo con Castelli ma, nel mio caso, la periodicità semestrale è solo un’esigenza legata alla produzione delle storie. Io realizzo un episodio di 125 tavole in cinque mesi e ho bisogno di un mese circa per scrivere la sceneggiatura. In tutto fanno dodici mesi, quindi due storie all’anno sono il limite della mia capacità produttiva.

AO: Morgana è stato un interessante progetto realizzato a quattro mani insieme a Mario Alberti per il mercato francese con Les Humanoïdes Associés, interrotto a causa dei problemi economici della casa editrice transalpina. Grazie a Pavesio, abbiamo potuto ammirare anche in Italia i quattro volumi di questa storia techno-fantasy di grande respiro. Cosa ti ha insegnato questa esperienza francese nel bene e nel male?

LE: Uscire dai confini nazionali e buttare l’occhio oltre lo steccato fa bene a ogni realtà professionale. Fu un momento galvanizzante; per la prima volta ci si accostava alla grande tavola francese, tutta colorata e con il suo gran numero di vignette, che permetteva anche di creare composizioni grafiche sulla doppia pagina, cosa impossibile nel formato bonelliano. È stato, quindi, un momento di crescita e di grande stimolo creativo. Vedere, inoltre, autori e disegnatori di fumetti trattati al pari degli autori della “letteratura alta” è stato immensamente gratificante.

AO: Hai al tuo attivo diversi racconti a fumetti dei quali tu sei stato lo sceneggiatore mentre ti sei affidato ad altri per i disegni. Oltre a La Banda Stern e Morgana, aggiungo Rangaku, un giallo storico ambientato nel Giappone del 1600 di cui Maurizio Di Vincenzo ha firmato i disegni (pubblicato in Francia da Les Humanoïdes Associés), e Hit Moll, storia di una giovane killer addestrata dal padre (edito in Italia da Edizioni BD), disegnato da Andrea Accardi. Come vivi il fatto di non avere il controllo totale dell’opera, così come ti sei abituato con Sprayliz, Gea e Lilith? Sei uno sceneggiatore piuttosto direttivo o lasci molta libertà ai disegnatori?

LE: Bisogna distinguere tra produzione seriale e storie autoconclusive, e tra uscite mensili come nelle serie canoniche bonelliane e uscite annuali, come in Francia. Quando si tratta di storie one shot o di serie con frequenze annuali, il rapporto autore-disegnatore è differente da quello tra sceneggiatore e disegnatore di serie mensili. Nel primo caso, il rapporto è biunivoco, si discute della sceneggiatura, spesso il progetto viene creato insieme – come è stato per Morgana con Mario Alberti – e il disegnatore è fortemente coinvolto nella genesi del personaggio e nella costruzione degli ambienti, e il suo apporto creativo è fondamentale. Quando bisogna fare uscire un albo di 94 pagine al mese, bisogna sacrificare qualcosa e il rapporto diventa più univoco. Comincio ad accorgermene ora con la produzione di Dragonero; certo, in questa iniziale fase creativa, dove abbiamo bisogno di costruire il nostro mondo e definire gli ambienti in cui si muoveranno i nostri personaggi, i disegnatori sono molto coinvolti nel processo di studio ma sappiamo che a serie avviata i ruoli di ognuno si stabilizzeranno.

Dragonero - disegno di Luca MalisanAO: A giugno 2013 uscirà, appunto, Dragonero, la nuova serie mensile targata Bonelli, firmata da te e da Stefano Vietti con Giuseppe Matteoni come disegnatore ufficiale. È un progetto che nasce da molto lontano e che ha avuto già nel 2007 un’uscita one-shot come primo volume della collana Romanzi a fumetti Bonelli. Dopo molte voci e cambi di programma, finalmente una serie tanto attesa, di genere fantasy classico, vedrà la luce. Qual è il tuo stato d’animo vista anche la lunga gestazione dell’opera? La sua uscita è frutto anche della tua caparbietà nel riproporla?

LE: Quando Sergio Bonelli arrivò con la proposta per Gea, Stefano Vietti ed io stavamo proprio lavorando alla presentazione di una serie fantasy da proporre in casa editrice e si trattava appunto di Dragonero. Il progetto venne riposto nel cassetto in attesa di tempi migliori e quando, anni dopo, sempre Vietti ed io proponemmo il format dei Romanzi a fumetti, volemmo che la prima uscita fosse il nostro Dragonero. Nel frattempo, però, avevamo creato un mondo e ci dispiaceva che il tutto si esaurisse in una singola uscita, per quanto corposa. Quando l’editore, dopo l’esperienza con le varie miniserie, tornò a rivolgersi verso le serie canoniche, noi cogliemmo l’attimo e rinnovammo gli assalti alla redazione. Alla fine, forse preso per sfinimento (ride, ndr), Sergio ci concesse di realizzare la serie. Serie che mi vedrà solo come sceneggiatore e non come disegnatore, almeno fino a quando dovrò realizzare Lilith; quindi ancora per qualche anno.

AO: Dragonero succede a Saguaro e Le Storie come nuove serie che la Sergio Bonelli Editore propone dopo molti anni di mini-serie. Come interpreti questa decisione editoriale? È un atto di fiducia nei confronti del pubblico o un azzardo?

LE: Penso siano semplicemente delle fasi. Dopo aver prodotto diverse miniserie, Sergio Bonelli sentiva il desiderio di tornare alle serie classiche; oggi la produzione di nuove proposte è diversificata: abbiamo una collana di storie autoconclusive senza un personaggio trainante, una serie fantasy e una miniserie a colori. Tutte novità che testimoniano una fase della casa editrice particolarmente creativa e coraggiosa.

AO: Molti chiamano graphic novel un certo tipo di fumetto da libreria, contenente storie autoconclusive, caratterizzato da una veste editoriale tipica di un libro, da una connotazione autoriale e da temi adulti. Altri però abusano di questa espressione per contrapporre in modo manicheo un fumetto d’autore, da libreria, a un altro popolare, da edicola. Tutta la tua produzione da edicola, da Sprayliz a Gea fino a Lilith, basterebbe come dimostrazione lampante che la qualità e i temi cosiddetti adulti non prediligono certi scaffali piuttosto di altri. Non pensi che il risultato di usare l’espressione graphic novel non sia altro se non ingenerare una gran confusione presso i lettori casuali di comics e, soprattutto, fare un grande torto al fumetto in generale?

LE: Penso che il termine graphic novel sia semplicemente usato a sproposito da giornalisti che di fumetto sanno poco, e che lo si utilizzi in generale per “darsi un tono” perché il termine fumetto in Italia è ancora sinonimo di letteratura bassa e dequalificata. Detto questo, sono d’accordo con te; il termine va usato correttamente, per differenziare le produzioni editoriali: La Banda Stern è un graphic novel, Gea una miniserie, Dragonero una serie, tanto per accontentare chi ama le scaffalature (ride, ndr).

Gea

AO: Secondo me uno dei tanti pregi di Sergio Bonelli è stato quello di innovare continuamente la sua proposta editoriale per offrire al pubblico una rosa sempre più vasta e articolata di pubblicazioni di qualità. Alcuni dei valori più importanti che hanno caratterizzato questo suo sforzo sono stati serietà, onestà e rispetto per il lettore. Secondo te, qual è stato il contributo maggiore che l’autore ed editore milanese ha dato al fumetto italiano? E come è cambiato il vostro lavoro in casa editrice dopo la sua scomparsa?

LE: Hai fatto bene a ricordare che Sergio Bonelli era anche autore, oltre che editore. Autore di Zagor, innanzitutto, che io da ragazzo amavo ben più del Tex del padre Gianluigi. Questa doppia natura di autore/editore rendeva Sergio una persona a cui non potevi “contargliela su”; lui sapeva valutare un progetto da editore e valutare una storia da autore. E sia come autore che come editore aveva un grande rispetto per gli altri autori. Se io ho potuto continuare la mia esperienza come autore unico anche dopo Sprayliz lo devo a lui.

Luca Enoch è nato a Milano il 12 giugno 1962 e, dopo aver compiuto regolari studi, si è dedicato all’attività di grafico e illustratore, esercitata operando come free lance, sia nel settore editoriale che pubblicitario. Nel 1990 ha partecipato al concorso bandito annualmente dal Convegno Internazionale del Fumetto e del Fantastico di Prato, conseguendovi il primo premio con la storia Raptus. L’esordio professionale è avvenuto nel luglio dell’anno successivo, sul numero 10 di Fumo di China, con la cupa storia di genere fantasy Eliah, di cui realizzerà un secondo episodio, sempre per la stessa rivista.

Ma il suo definitivo avvio professionale risale al 1992, con la breve storia Berserk, uscita sul numero 6 dell’Intrepido. Solo qualche mese dopo avrebbe dato il via sulla stessa testata alla serie Sprayliz, che, fin dal suo debutto sul numero 14, ha rapidamente incontrato un notevole gradimento da parte dei lettori, tanto da guadagnarsi una collana tutta sua, edita da Star Comics, e ottenere, nel 1995, il Premio Fumo di China per il miglior personaggio e miglior testata. In seguito realizza, sempre per Intrepido, la striscia Skaters, che verrà ripresa sulle pagine de L’Isola che non c’è, e il personaggio di Piotr, il porno coniglio; per Action crea la serie umoristica di Ninjaboy. Per la Casa editrice Bonelli ha scritto e disegnato alcune storie di Legs Weaver. Nel giugno del 1999, debutta una nuova testata semestrale, di cui Enoch realizza testi e disegni, che ha come protagonista un’altra adolescente terribile, Gea, una quattordicenne amante del rock e del kendo, che divide la sua vita tra la scuola, le rock-session con la sua band e una continua lotta contro le intrusioni di esseri provenienti da altri continuum spazio-temporali. Le avventure di Gea si concludono dopo diciotto albi, nel novembre del 2007.

Intanto nel 2001 esce in Francia per Les Humanoïdes Associés il primo volume di Morgana, la saga techno-fantasy realizzata insieme a Mario Alberti. Per gli stessi editori pubblica nel 2007 Rangaku, su disegni di Maurizio di Vincenzo, un giallo storico ambientato nel Giappone del 1600. Nello stesso anno la Sergio Bonelli Editore propone nelle edicole Dragonero, scritto insieme a Stefano Vietti e disegnato da Giuseppe Mattioni, primo albo dei Romanzi a Fumetti Bonelli, collana di storie autoconclusive. Il progetto successivo si chiama Lilith, dal nome della cronoagente protagonista delle avventure che giungono semestralmente in edicola a partire dal 21 novembre 2008.

Negli ultimi anni ha firmato la sceneggiatura di Hit Moll, storia fra il pulp e il noir disegnata da Andrea Accardi e pubblicata da Edizioni BD nel 2011. L’anno successivo ha visto l’uscita de La Banda Stern, su disegni di Carlo Stassi e il 2013 esordirà la prima serie fantasy pubblicata dalla Sergio Bonelli Editore: Dragonero, che riprende il personaggio anticipato nel primo volume dei Romanzi a fumetti Bonelli.

Commenti

3 commenti a “Le crepe della Storia, il fantasy e le ucronie”

  1. Trovo che Luca sia un autore completo i suoi personaggi sono belli e tosti Lilith poi mi appassiona specialmente per il suo lato fantascientifico.
    Però il suo impegno politico corretto, lo trovo stancante; Sprayliz bello, divertente ma troppo politicizzato; attendo con impazienza l’uscita di Dragonero sulla bonelli e una sua storia disegnata sul personaggio.
    Salve Giancarlo

    Di giancarlo | 12 Febbraio 2013, 09:38
  2. enoch voglio una tua tavola !!!

    Di massimiliano chiodelli | 20 Febbraio 2013, 18:47

Trackbacks/Pingbacks

  1. […] Oliva ha intervistato Luca Enoch su FuCineMuTe: click qui per leggerla, se ve la siete persa. Altro Post di afNewsInfo – sabato 16 febbraio 2013 – […]

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