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Palcoscenico

Gioele Dix

Edipo.com

Immagine articolo Fucine MuteOne man show, così potrebbe essere definito il protagonista di Edipo.com, lo spettacolo che ha aperto la stagione teatrale del Comunale di Monfalcone.
Che Gioele Dix sia una personalità assolutamente eccezionale e sui generis lo si sapeva, ma che questo spettacolo, per la verità molto ben recensito dalla critica, potesse realmente apportare qualcosa di inedito ad un mito che si consuma da 2500, pareva non altrettanto certo. E invece la messinscena funziona: strappa plausi e miete successi in ogni proscenio su cui è allestito. Ad esser narrata è la storia di Anselmo, intellettuale nevrotico ricoverato in una clinica della salute. In piena crisi esistenziale e contravvenendo ad un intransigente ordinamento interno che gli impone di non sfogliare i libri, il protagonista legge e rilegge ossessivamente l’Edipo re di Sofocle, interpretando per l’infermiera Giada, complice della sua disobbedienza, il mito greco. Come scrive l’autore, «Anselmo soffre e si fa presente ove Edipo è latitante, come anestetizzato. L’eroe è grande, soprattutto nella debolezza. E il narratore, Anselmo (e gli spettatori con lui), riempie quei vuoti apparenti, prende tempo durante quelle sospensioni che Edipo pare prendersi di fronte all’amara verità sul suo destino». Ecco allora che l’uomo s’improvvisa trascinante cantastorie, stravolgendo i toni solenni dell’«analisi tragica» — come Schiller definì l’opera greca — con i comici racconti autobiografici. Ma la vicenda si complica quando la storia del re di Tebe, inevitabilmente, volge al termine, prospettando un finale che ad Anselmo non va proprio giù.

Tiziana Carpinelli (TC): Come sono nati Edipo.com e il personaggio di Anselmo?

Gioele Dix (GD): Edipo.com nasce dalla felice intuizione di Sergio Fantoni, il regista, col quale avevo fatto un altro spettacolo, Il libertino, che pure era stato in scena a Monfalcone, se non erro nel 2001. Insieme, abbiamo deciso di fare un’operazione che sposasse da un lato, il desiderio di confrontarsi con uno dei testi classici più importanti del teatro, dall’altro la necessità di dare, a questo stesso teatro, la possibilità di essere un po’ più esplicito, un po’ più comunicativo.
Io vengo da una lunga esperienza teatrale — anche se spesso circoscritta a quella del monologante o del raccontatore — così, m’è piaciuto immediatamente il progetto di mettere insieme queste due anime: quella del teatro di tradizione e quella della capacità affabulatoria. In questo modo, ci siamo misurati con un testo che davvero può essere considerato come un “pilastro”, perché, come alcune grandi tragedie della classicità greca, è una storia universale, che funziona da 2500 anni. Questi testi greci non sono dei drammi: il dramma è tendenzialmente la storia di alcune persone che hanno dei problemi, anche molto gravi, che poi si risolvono all’interno dell’intreccio della storia, mentre la tragedia ha la caratteristica essenziale di raccontare i “grandi dolori”, che sono irrisolvibili o comunque connaturati alla natura umana. E, siccome in fondo — questa almeno è la riflessione che abbiamo fatto da tempo — sia la tragedia che il comico attingono allo stesso patrimonio — e cioè la vita — ci è parso appropriato costruire un’impalcatura come quella di Edipo.com.

Immagine articolo Fucine Mute

TC: “In fondo la tragedia è la forma di narrazione più contigua alla comicità. È una sfida ardua e intensa”. Hai scritto che l’ironia è contigua alla tragedia perché, a quanto pare, entrambe nascono dal deficit, dall’intoppo: puoi spiegarmelo?

GD: Sì. La comicità nasce da ciò che non va, dal dolore, dall’inciampo appunto. Il deficit serve per superare il conflitto e lo stesso vale per la tragedia.
La tragedia aveva nella tradizione greca il potere di servire al pubblico per identificarsi e, in qualche modo, sciogliere attraverso la catarsi alcuni nodi interiori. Attraverso il dolore rappresentato, si provava a far chiarezza e luce anche all’interno del dolore proprio.
È per questo che l’idea, tornando al discorso di prima, è nata soprattutto dal desiderio di rapportarsi ad una grande storia. Stabilito ciò, abbiamo fatto il lavoro più bello che esista all’interno del nostro mestiere, e cioè ci siamo messi a “studiare” il testo dall’inizio alla fine, da sopra a sotto e in ogni sfaccettatura possibile. Molto tempo è stato dedicato anche la sua struttura, che è molto bella: sostanzialmente si tratta di un thriller. È infatti la storia di un uomo che indaga su un assassinio e, in senso più ampio, l’indagine di un uomo su se stesso.
D’altro canto è anche la storia drammatica di un uomo che indaga su un omicidio scoprendo di essere in realtà lui stesso l’assassino. Si tratta quindi di un thriller piuttosto speciale.
Quindi abbiamo studiato il testo e deciso di rispettarlo, anche sezionando e raccontando tutte quelle cose che nell’ascolto diretto non si colgono. In poche parole, come avrai visto, facciamo pure i commenti. Il raccontatore diventa un po’ il regista e dice: “A questo punto lui si sente in questo modo”, “Qui lei pensa che”, “Questo personaggio rappresenta il potere” oppure “Quest’altro gli muove quest’accusa” e via discorrendo.
Devo dire che la nostra operazione ha avuto grande successo e impatto sul pubblico. Un po’ perché, nella gran parte dei casi, le persone scoprono per la prima volta com’è fatta la storia di Edipo: diciamolo pure, il complesso d’Edipo, grosso modo tutti ce l’hanno in testa, ma la storia mica la si conosce bene!
Già, questo appassiona molto e, secondariamente, la storia diventa l’occasione per scoprire quanto di noi ci sia dentro la vicenda. Funziona molto bene anche perché mica parla di cose tanto lontane dalla nostra realtà, eh?
Dispiega i rapporti affettivi più importanti, quelli col padre e la madre, descrive il sentimento del malessere, perché la pestilenza che copre Tebe è un vero e proprio “malessere”: non a caso Sofocle parla di un “morbo pieno d’odio”, e non certo di un dolore fisico.
Oltre a ciò, come spesso succede nei casi in cui l’idea è buona e ci si lavora bene, abbiamo scoperto un sacco di cose lungo la strada: abbiamo così rilevato che lo spettacolo aveva ancora più potenzialità rispetto a quelle che noi avevamo intravisto in un primo tempo.
Poi, ad un certo punto, ci siamo accorti che potevamo (senza appesantire troppo la narrazione), dare al narratore una sua identità: certo, non era il caso di raccontare tutti i fatti di Anselmo, se no avremmo avuto due storie e non una, però potevamo aggiungere qualche riferimento.
Così, c’abbiamo messo quest’ambientazione — un po’ concreta e un po’ astratta — di clinica da manicomio-beautyfarm, e c’abbiamo aggiunto quest’uomo che racconta, con foga ed evidenti sbalzi d’umore, la storia del re di Tebe. Già dalla sua narrazione, a tratti nevrotica, ci fa capire che ha dei problemi: sicuramente dei conflitti col padre oppure un amore finito male, qualche scelta di cui si è pentito.
Mi piace molto il momento in cui Edipo deve decidere se tornare a Corinto o stare lontano; è in quel momento che Anselmo dice: “Ecco, questo è il classico istante nel quale bisogna fare una scelta e vorresti sempre fossero gli altri a farla e non sai, o meglio, non hai il coraggio di dire vado di qua, vado di là, lo teniamo questo bambino, non lo teniamo…”.
Queste sono delle piccole scintille che danno qualcosa in più alla narrazione perché questo signore sul palco è vicino al nostro tempo.

Immagine articolo Fucine Mute

TC: E il feeling con l’infermiera Giada?

GD: Il rapporto con l’infermiera è molto importante. È sì un rapporto di comico e spalla, ma al tempo stesso lei incarna anche la credulità popolare e l’ingenuità: rispecchia un po’ tutte quelle persone che vogliono sapere e spesso fanno domande a sproposito…Che poi, in fondo, tanto a sproposito non sono, perché alla base c’è sempre la vitale molla del “conoscere”. Giada, infatti, ha proprio il compito di mettere il pubblico nella condizione di sentirsi “rilassato” nei confronti della narrazione, perché lo spettatore s’immedesima e pensa: “Ecco, vedi, non lo sa neanche lei chi è questo personaggio o cosa ha fatto Tiresia”; anzi, all’inizio Giada dice una delle battute più fantastiche: “Edipo? Chi, quello che ha ucciso il papà ed è andato a letto con la mamma?” Ed io: “Sì…Ridotto all’osso!”.
Vedi, in quel momento il pubblico è tranquillo, perché sta riflettendo: “Se non lo sa lei…”.
Sì, da questo punto di vista, devo ammettere che abbiamo azzeccato l’idea, perché è uno spettacolo che sta andando bene da più di un anno: stiamo facendo un’altra stagione lunghissima e si parla addirittura di una terza. Credo che da più parti si senta il bisogno di una rappresentazione che non allontani il pubblico ma lo coinvolga, e a noi piace l’idea di averlo avvicinato non attraverso qualche barzelletta o qualche racconto cervellotico, bensì attraverso una storia della grande tradizione del teatro.
La tragedia greca, per quel che io reputo, ha subito grandi massacri nella storia del teatro. Non per colpa degli attori o dei registi, ma per via di una tradizione che l’ha resa un’icona astratta, inaccessibile; in parte ciò è avvenuto anche a causa del linguaggio classicheggiante e quindi ostico, difficile, che viene usato.
Non si dovrebbe scordare che in realtà, quello tragico è sì un linguaggio poetico, ma anche e soprattutto concreto, denso, diretto. Inoltre, su questa astrazione intervenuta, ha inciso il modo di recitare, lo straniamento, che poi ha portato invece il pubblico a stranirsi…
Ne parlavamo proprio con Francesco Brandi, il nostro terzo autore, un ragazzo molto esperto e colto sulla grecità. Ebbene lui ci ha raccontato di essere andato a vedere, un giorno, uno spettacolo con un amico (pare fosse proprio l’Edipo re di Glauco Mauri) che aveva, sul fondo della scenografia, una statua stilizzata. Usciti dal teatro, il suo amico gli chiede: “Ma cos’era quella statua?”. Non aveva colto che si trattava della sfinge. Questo per dire che molte cose si danno per scontate, mentre magari non lo sono: è importante sapere e spiegare.

TC: Nei personaggi cui avete dato vita, ci sono connotazioni che rimandano alla nostra politica italiana, a partire dal discorso di Edipo a reti unificate, che ricorda non troppo vagamente quelli del presidente del consiglio, fino ai vari altri personaggi che hanno tutti dialetti o peculiarità regionali: che scelta c’è stata alla base?

GD: Si è trattato di andare a fondo con coraggio. È questo ciò che mi ha insegnato Sergio Fantoni, un uomo che ha fatto teatro con la T maiuscola per tutta la vita; ma non solo, ha fatto anche il cinema ad Hollywood, insomma, un professionista di serie A!
Ebbene, lui mi ha sempre detto: “Io, anche quando facevo l’attore, mi ponevo di fronte ai testi senza timori reverenziali. I personaggi non esistono di per sé, siamo noi a dargli la linfa, a dargli un senso o a ridarglielo se già ne hanno uno”. Ecco, in questo senso si rintraccia la statura di un testo e la differenza tra i “grandi” testi e quelli “normali”. I testi “grandi” reggono il tempo.
Su questa attualizzazione allora diventa naturale, nei due esempi che facevi (quando Edipo decide da re di affrontare la pestilenza facendo un discorso globale — ed è chiaro che la città è malata perché lui non ha ancora messo in chiaro le pendenze col passato), pensare ad un discorso a reti unificate, e diventa normale pensare ad un certa arroganza del potere.
Ad ogni modo, noi sostanzialmente stiamo dalla parte di Edipo e tifiamo per lui, perché ci pare un eroe tutto sommato positivo, seppur bastonato dalla sorte; non dobbiamo però dimenticare che è anche un personaggio dal volto negativo: ha un carattere terribile, non ha caso al famoso crocicchio stradale lui ha avuto un incidente, s’è incazzato, e ha ammazzato cinque persone. Sì, è vero che lui non sapeva che quello che stava ammazzando era suo padre — e quindi non lo si può accusare di parricidio volontario — però è anche vero che è un soggetto poco raccomandabile.
È uno che deve risolvere i suoi problemi… e ne ha davvero tanti! È uno che aveva l’angoscia fin da bambino, uno che è stato abbandonato…
D’altro canto questo è anche il punto di forza della storia: il personaggio più in vista, il grande eroe in realtà, a leggerlo bene, è un personaggio di chiaroscuri, come lo siamo tutti. Più sei forte, più sei in vista e più sei sottoposto alla critica, sei censurato. Ed è per questo che noi, gli uomini di potere, li prendiamo in giro fortemente. Il rimando è a volte appena accennato: se avrai notato, Creonte parla e sembra appena appena Prodi; Tiresia, che invece non parla, rappresenta il mafioso ovvero il potere che si distingue sempre per il dire-non dire finalizzato esclusivamente alla difesa di se stessi.

Immagine articolo Fucine Mute

TC: Edipo.com: l’unione di un termine più antico e di uno più moderno per definire un punto di incontro; eppure i due punti d’incontro sembrano inconciliabili: l’Edipo tragico si acceca per non vedere, l’Edipo di Gioele vuole guardare in faccia la verità “nomade”, perché è meglio scoperchiare le brutture che ignorale. Dov’è il punto d’incontro?

GD: Be’, una delle nostre interpretazioni, fondamentale per tutta la lettura data, riguarda il momento della scelta, quando Edipo deve decidere se tornare a Corinto e sfidare il destino (rischiando di uccidere il padre e andare a letto con la madre), oppure cercare di sfuggirlo (andando però ad avverare ciò che gli era stato predetto).
Se nella lettura greca questo era la conferma che gli uomini sono del tutto in balia degli dei e di un destino che loro non hanno deciso e non possono modificare, a noi e alla nostra chiave contemporanea, pare più adeguato parlare di “natura”, identificando con essa ciò che i greci chiamavano destino. Pensiamo, cioè, che un uomo non possa sfuggire alla propria natura e alle conseguenze di ciò che è e fa. Perciò se Edipo avesse avuto il coraggio di affrontare i suoi, di tornare a Corinto e dire: “Ma io c’ho questo cruccio, ditemi la verità” e se i genitori, a loro volta, gli avessero detto “Sì è vero, t’abbiamo adottato”… Insomma se avessero comunicato o ci fosse stato un po’ di dialogo, tutto questo dramma non si sarebbe avuto.
Noi immaginiamo questa come una necessità forte. È un bivio a cui tutti noi, prima o poi, dobbiamo arrivare: seguiamo la nostra indole, la nostra natura? Che tu lo faccia o no, questa cosa comunque ti segnerà.
Per questo abbiamo fatto il geniale salto su Conrad (si riferisce alla lettura portata in scena durante lo spettacolo, ndr) che è appunto un’altra declinazione di questo vasto tema: tu, in realtà, non puoi sfuggire alle conseguenze di ciò che fai; e in questo senso, Edipo è magistrale: lui pensa che non tornando a casa eviterà le cose più gravi e invece, così facendo, và loro incontro a braccia aperte. Probabilmente noi lo assolviamo in parte. “Sì, è vero — diciamo — lui ha fatto tutto questo, però ne è stato a sua volta vittima”. Insomma, non è che uno possa far pesare tutta la vita le colpe dei suoi padri. Sai, è un po’ come quando ti dicono: “Eh, ha avuto una vita difficile”. D’accordo, ma hai quarant’anni, datti una mossa! (ride, ndr)
In verità è questa la grande forza del personaggio: qualunque lettura tu fai, se ne aprono altre cento e niente si chiude. Invece il cerchio, sul piano di Sofocle (ovvero quello del thriller) si chiude perfettamente; tra l’altro è eccezionale scoprire come, specie nella seconda parte, Sofocle tiene sulla graticola Edipo: tutti hanno capito tutto, meno lui…
Ma perché non capisce? Perché non vuole capire. Ed è per questo che si punisce accecandosi: se la prende con se stesso, per non esser stato in grado di guardare prima. E a noi piace fare il “nostro” finale, con la scena del tribunale, perché in fondo pensiamo: “Proprio lui, che è stato così coraggioso e determinato nella ricerca della verità, non doveva darci questa delusione…E quindi riapriamo il caso!”.

TC: “L’attore — lo dici nello spettacolo — recita anche quando vive e vive quando recita”: cosa rappresenta per te il recitare? E, tornando sul tema della scelta, quand’è che ti sei reso conto che la tua vita avrebbe preso una svolta e che avresti intrapreso, senza possibilità di ritorno, il percorso d’attore?

GD: Per me il teatro è stato, ed è tuttora, una specie di bolla extra-temporale. E direi anche fuori dallo spazio, oltre che dal tempo!
In questo luogo mi dimentico di quello che sono, vivo in una dimensione di gioco, di sfida.
Ed è sempre stato così. Quand’ero ragazzo ed esordivo, avevo il difetto — tipico di certi attori agli inizi della carriera — di non controllare bene quello che facevo. Mi ricordo un episodio in particolare: dovevo prendere per il collo un compagno, in una scena di litigio, e dopo tre o quattro volte che gli avevo già strappato la camicia o il bottone, lui m’insultò e mi disse che non capivo niente, perché doveva essere solo finzione. Lui era un attore un po’ più maturo e aveva ragione perché io dovevo essere capace di controllarmi. Però avevo senz’altro talento: bisogna averne per star là sopra (indica il palco, ndr), se no non reggi; sì, puoi imparare qualcosa, puoi diventare un po’ più “bravino”, ma bisogna fondamentalmente avere qualcosa dentro. Bisogna avere una scintilla di follia, perché in definitiva, è un po’ una follia mettersi là sopra da solo.
Ecco, il controllo però lo impari: oggi sicuramente non sono così inconsapevole; quando sto sul palco sono perfettamente presente, tant’è vero che sono in grado di rendermi conto quando un telefono suona in platea. Qua no, perché siete più civili, ma nel resto d’Italia….

TC: Però abbiamo tossito molto!

Immagine articolo Fucine MuteGD: Quello è un problema di salute! Comunque, sentendo il pubblico, sono capace di fare una battuta dal vivo; a volte invece, se c’è un problema, penso ai fatti miei, eppure nessuno lo sospetterebbe…
Al di là di questo, per me il teatro è soprattutto un’oasi in cui avviene una strana magia. Puoi fare teatro solo se davvero immagini di vivere una magia incredibile, perché spesso ripeti le battute per la 181ª volta e se tu non la pensassi così, non avrebbe senso ciò che fai.
Oggi sono diventato piuttosto bravo a capire come fare a darmi le motivazioni; naturalmente bisogna essere capaci di tirare dentro il pubblico: se hai il pubblico dalla tua parte entro i primi cinque minuti, sei a posto. Ma se il pubblico è particolarmente freddo, come capita in certe città, allora ci sono dei momenti — soprattutto in uno spettacolo comico — in cui sul serio ti domandi disperato: “Ma perché?”.
È un gioco che dobbiamo fare da due parti, se tu non ci stai a credere che questa è una clinica, che l’infermiera è li che fa i massaggi, che Edipo era un re, ecc, insomma, se tu non credi a queste cose, allora è inutile che stiamo qua, diventa tutto stupido e vuoto. Lo spettacolo è un patto che si crea tra il pubblico e l’attore, però è un patto che deve essere rispettato e tu non devi essere altrove… ed io da attore deve essere sotto controllo…
Da ragazzo no, questo controllo non ce l’avevo proprio e spaccavo tutto!
Per quel che riguarda la seconda domanda… Non me la ricordo più!

TC: Quando ti sei trovato, ai tuoi esordi, davanti al crocicchio…

GD: Sì,la svolta… Mah, in realtà questa scelta non avviene, sarebbe bello. Letterariamente o cinematograficamente spesso avviene che si possa racchiudere la scelta in un momento, in una svolta significativa, ma in realtà è una costruzione lenta, ci sono dei segnali sì, ma tutto avviene a poco a poco.
Se penso che ho esordito perché ho incontrato per strada un mio ex-compagno di classe! Lui aveva aperto una compagnia e quel giorno mi chiese: “Ma tu, non recitavi? Non avevamo fatto una recita a scuola?” All’epoca io stavo studiando psicologia, ed ero lontano da quest’idea, sebbene l’avessi sempre coltivata, da un punto di vista molto teorico, s’intende. Così mi disse: “Sai, si è ammalato uno — questo sì, è davvero come nei film di Hollywood! — non sappiamo come fare… Tu non verresti? In quattro o cinque giorni t’impari la parte”. Ed io: “Ma che sei matto?”
C’ho pensato, così, per coscienza, venti minuti e ho detto: “Okay, dov’è che s’è da andare?”. Ed esordii in teatro per la prima volta e capii che quella “roba” era la più bella che io avessi mai fatto.

Successivamente ho lavorato con tantissimi attori importanti e ho anche avuto, dopo parecchi anni di lavoro, una crisi, perché non mi chiamava più nessuno e non sapevo che fare. Ma poi, mi sono iscritto ad un concorso (senza esser neanche troppo convinto), si trattava di “Riso in Italy”, e ho vinto. Tutto è cambiato.
E lì mi sono accorto — non quando mi hanno premiato, bensì quando sono uscito a fare il personaggio (un automobilista molto incavolato, con gli occhiali scuri, insomma uno molto cattivo che però diceva le cose che pensava la gente) — che funzionavo!
Quando preparavo il personaggio a casa pensavo: “Mah, mi prendono a sassate, sono cose assurde, che magari penso solo io quando sono in auto… chi lo sa se accade anche ad altri?” E invece era stata una buona pensata. Ma prima non sai mai come va a finire.
Sono uscito sul palco, ho detto quattro frasi e il teatro Sistina di Roma, che ha duemila posti, mi ha dato un applauso pazzesco, che forse è stato l’applauso più bello della mia vita, dal momento che ero un completo sconosciuto… Un solo minuto di spettacolo e ricevevo l’applauso di duemila persone! Ecco, lì, ho detto: “Statti a vedere che succede qualcosa!”. (ride, ndr)
Ma questi sono piccoli momenti: in realtà, come ti dicevo, la costruzione è molto più lenta.
Quando vengono gli esordienti io li riconosco dallo sguardo; sono giovani attori o giovani attrici, aspiranti tali, io li vedo sulla porta, mi guardano in un certo modo, mi danno la mano in un certo modo e gli dico: “tu sei un…” e loro subito: “Eh, vorrei…”.
Allora mi chiedono sempre come fare, e io gli dico, “Devi avere salute, cultura, devi leggere un sacco e, soprattutto devi avere molta pazienza, perché la costruzione è lenta”. E, in definitiva, questo lo si può estendere un po’ a tutto.
Ogni tanto devi però dare un’accelerata, eh? Se no stai fermo!

TC: E per quanto riguarda il cinema? A fine marzo uscirà il film Ora e per sempre di Vincenzo Verdicchi, che ti vede protagonista, mi puoi dare un anticipo?

Immagine articolo Fucine MuteGD: È un film che sta un po’ soffrendo, come soffrono tutti i film italiani, anche quelli di qualità. È una pellicola molto bella, bloccata però alla distribuzione: è lì e si aspetta che esca. Io non ho fatto tanto cinema, però credo di aver sempre fatto cose degne. Due anni fa ho fatto un film che mi è piaciuto molto Se fossi in te, un lungometraggio divertente e intelligente.
Nel cinema le cose, come chiunque sa, sono nettamente diverse: si fa tutto a pezzetti e il risultato è straordinariamente più eclatante. Quando funziona, il cinema ti consegna all’eternità!

TC: Ma è un secondo amore rispetto al teatro?

GD: Sì, ma probabilmente perché non ne ho fatto tanto; magari, se ne avessi avuto la possibilità, ne avrei fatto di più, però è anche vero che mi sono dedicato integralmente al palco.
Non ho avuto la pazienza, in questi anni, di aspettare. È vero che teorizzo la lentezza, ma in questo tempo non sono mai riuscito a stare fermo. Quando ho cominciato ad avere tanta possibilità di lavoro, non mi sono mai stoppato, cosa che invece devi fare se ti vuoi dedicare al cinema.
Il cinema è più complesso: nel teatro puoi fare anche altri progetti, ma lì non è così.
Ad esempio, con gli stessi produttori del film Ora è per sempre ho firmato un’opzione per una sceneggiatura che ho scritto tre anni fa, una commedia che mi piacerebbe portare al cinema, però siamo fermi… Il teatro è più rapido, si alimenta da sé. Il pubblico viene e va.

TC: La bibbia ha quasi sempre ragione e Edipo.com costituiscono entrambe delle “smantellature” del mito in chiave comica: quale altro mito vorresti dissacrare?

GD: Amleto. Sì, perché è un personaggio interessante su cui mi piacerebbe lavorare. È un po’ un personaggio su cui tutti gli attori dovrebbero cimentarsi, ma non si tratterà dello stesso tipo di lavoro che abbiamo effettuato con Edipo. Amleto, tra l’altro, è stato messo in scena almeno 2500 volte, e in tutte le maniere possibili, per cui è difficile essere originali. Devo dire che, anche in questo senso, il teatro ha una sua peculiarità: non conta davvero “cosa” metti in scena, ma “come”, perciò è possibile trovare la 2501ª maniera di fare un qualche cosa che è già stato fatto.

TC: Lo farai con lo stesso gruppo?

GD: Sicuramente con Sergio e Francesco che sono gli autori di riferimento, poi vedremo. È ancora un progetto da definire…

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