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Scrittura

Cujo di Stephen King

Quando il mostro esce dall'armadio

Alla fine delle mie avventure bevevo una cassa di lattine da mezzo litro ogni sera e c’è un romanzo, Cujo, che non ricordo nemmeno di aver scritto. Non lo dico né con orgoglio né con vergogna, solo con un vago senso di infelicità e malinconia. Quel libro mi piace. Rimpiango di non saper ricordare il piacere che ho provato nel mettere sulle pagine le parti belle.
(Stephen King, On Writing: autobiografia di un mestiere, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2004, traduzione di Tullio Dobner, pag. 93)

Contesto e rapporto con gli altri romanzi

Stephen KingSecondo romanzo ambientato nella cittadina immaginaria di Castle Rock, e facente parte della serie che comprende La zona morta (1979), La metà oscura (1989), Cose preziose (1991), il racconto Il corpo (in Stagioni diverse, 1988) e altri racconti brevi pubblicati in svariate raccolte, Cujo (1979) si distingue non solo per il vuoto di memoria di cui è vittima Stephen King nei suoi confronti ma anche per il suo avere come protagonista un cane San Bernardo la cui improvvisa e incontrollata mostruosità è motivata da cause naturali: il morso di un pipistrello che gli ha trasmesso la rabbia.

I romanzi e racconti ambientati a Castle Rock possiedono tutti un filo conduttore, in alcuni casi abbastanza palese, in altri più difficile da percepire: in La zona morta, lo sceriffo George Bannerman viene aiutato da Johnny Smith e dai suoi poteri nella cattura dello psicotico poliziotto Frank Dodd; nell’incipit di Cujo, Frank Dodd viene rievocato come mostro e, verso la fine, agli occhi dello sceriffo Bannerman, sembra per un attimo aver assunto proprio le sembianze del cane Cujo; in La metà oscura, Alan Pangborn, sostituto di Bannerman, è costretto a confrontarsi con George Stark e il suo alter ego letterario per poi vivere un’altra esperienza sovrannaturale e ritrovarsi a combattere contro Leland Gaunt in Cose preziose che chiude la serie. In mezzo, c’è il racconto Il fotocane (pubblicato in Quattro dopo mezzanotte, 1990) che collega La metà oscura e Cose preziose e presenta ai lettori il personaggio di Pop Merrill il cui nipote è l’incubo di Gordie LaChance nel Corpo[1].

Il ruolo della morte

Come molti altri romanzi dell’autore americano, anche Cujo è stato oggetto di discussioni, analisi e libere interpretazioni[2], benché in forma minore rispetto ad altre sue opere più note. Tuttavia, come si vedrà in seguito, a differenza di altri testi oggetto di trasposizione, l’adattamento cinematografico che ne è stato tratto stravolge notevolmente il significato di fondo.

Il problema legato al romanzo, sempre che di problema si tratti, è una conclusione verosimile che non lascia alcuna speranza e costringe i due personaggi principali ad affrontare il resto della loro esistenza con la consapevolezza di aver perso quanto di più prezioso avevano: il figlio di quattro anni. Come se non bastasse, Stephen King non si limita a porre il lettore di fronte a una situazione tragica, ma gli trasmette inconsciamente l’idea che siano state proprio le paure dei genitori a causare la morte involontaria di quel bambino.

Se in ambito letterario e cinematografico la morte di un adulto viene di solito facilmente elaborata da chi legge o guarda, la morte di un bambino, soprattutto quando avviene in circostanze che richiamano il mondo reale, e non per mano di qualche essere fittizio, è difficile da accettare in quanto diventa la proiezione di uno dei peggiori incubi di milioni di genitori sparsi nel mondo. Ne consegue che l’uccisione del piccolo George, nell’incipit di It (1986), viene interpretata come naturale strategia narrativa atta a introdurre l’essere malefico nella vita dei protagonisti, e non come azione crudele gratuita dell’autore che vuole deliberatamente sconvolgere il lettore “sacrificando” un bambino innocente. Cujo non segue questa tendenza; non porta al decesso di un innocente per “giusta causa” o per mano di qualcosa di indefinibile, porta al decesso e basta, senza possibilità di scampo.

Cujo

Paure umane e ipotesi sul destino

Si potrebbe affermare che l’autore non cerca soltanto di mettere in evidenza la fragilità umana e le paure di cui ognuno dei personaggi è vittima ma anche la fatalità di determinati eventi il cui decorso sembra dettato dalle scelte, consce o inconsce, che essi compiono. Anche se il paragone può sembrare azzardato, in alcuni passaggi il libro sembra seguire la stessa logica del film di Éric Rohmer L’albero, il sindaco e la mediateca (1993), strutturato tutto per ipotesi concepite in base alla formula Se il giorno X, la persona A non avesse incontrato B, allora questo non sarebbe successo; che nel caso di Cujo si tradurrebbe con Se Charity Camber, il giorno della sua partenza per il Connecticut, avesse avvertito il marito che il cane era rabbioso, gli abitanti di Castle Rock non sarebbero stati in pericolo. Ma la vita non è mai il risultato dell’azione del singolo individuo, e quindi ci si ritroverebbe a dover formulare un’ipotesi per ognuno dei personaggi del libro: Se Vic Trenton avesse fatto riparare la macchina prima di partire per lavoro, sua moglie e il bambino non si sarebbero trovati faccia a faccia col cane; se Joe Camber non fosse stato un marito violento, la moglie lo avrebbe avvertito dello stato di salute di Cujo; se Steve Kemp non avesse rivelato a Vic Trenton che sua moglie lo tradiva, lui si sarebbe ricordato di far aggiustare la macchina; se Donna Trenton, una volta rimasta bloccata in macchina col bambino, avesse avuto il coraggio di scendere e affrontare il cane, forse il figlio non sarebbe morto disidratato e via discorrendo.

Il fulcro del romanzo rimane tuttavia la paura, reale o fittizia che sia, e le conseguenze che comporta. Il piccolo Tad Trenton ha paura dell’ipotetico mostro nascosto nel suo armadio; Vic Trenton ha paura di perdere il lavoro perché coinvolto, con il collega Roger, nella pubblicità di un prodotto che si è rivelato pericoloso per la salute; Charity Camber teme che il marito manesco finisca per fare del male al figlio Brett; Steve Kemp ha paura d’invecchiare e di non essere più così seducente per le donne; Gary Pervier, veterano di guerra, combatte ogni giorno con i fantasmi del suo passato e Donna Trenton è pervasa da un perenne sentimento di paura nei confronti di ogni singolo evento della sua vita: il trasferimento in un’altra città; l’amante che non la molla; il tempo che passa inesorabile; il bambino che cresce e non sta più sempre con lei; il marito poco presente e, ovviamente, il cane Cujo. In un passaggio del libro, Vic Trenton chiede alla moglie le ragioni del tradimento e lei risponde con un discorso che riassume bene il senso di vuoto percepito:

“Gli uomini… loro sanno che cosa sono. Loro hanno un’immagine di quello che sono. Non riescono mai a essere all’altezza del loro ideale e ciò li distrugge e forse è la ragione per cui tanti uomini muoiono infelici e prima del tempo, ma almeno sanno che cosa dovrebbe voler dire essere adulti. Hanno degli obiettivi, per i trent’anni, per i quaranta, i cinquanta. Loro non sentono il vento, oppure, se lo sentono, si trovano una lancia e ci combattono contro, pensando che sia un mulino o qualche altra diavoleria che va fatta fuori. Mentre quello che fa una donna, quello che ho fatto io, è stato di ritrarmi, di sfuggire alla trasformazione. Mi spaventava il silenzio della casa, quando Tad era fuori. Una volta […] ho creduto per un istante che dal ripostiglio di Tad sarebbe venuta fuori Joan Brady, senza la testa e con il sangue sui vestiti e mi avrebbe detto: ‘Sono morta in un incidente d’auto a diciannove anni mentre tornavo dalla pizzeria e non me ne frega niente’”.
(Stephen King, Cujo, Speling & Kupfer Editori, Milano 1983, traduzione di Tullio Dobner, pp. 113-114)

Al contrario, il marito esorcizza le proprie paure cercando il più possibile di ignorarle e di fingere che tutto vada bene:

Se un uomo attraversa una stanza buia dove c’è una voragine, se ci passa a pochi millimetri non c’è bisogno che sappia che c’è mancato un pelo a cascarci dentro. Non c’è bisogno d’avere paura. Basta che le luci restino spente.
(Stephen King, Cujo, Speling & Kupfer Editori, Milano 1983, traduzione di Tullio Dobner, pag. 98)

Nel contrasto emotivo tra i due personaggi, si inseriscono i pensieri del cane, che Stephen King dipinge come una vittima degli eventi, un mostro suo malgrado, un essere educato a rispettare certe regole che si trova, di colpo, indotto a infrangerle. Il cane, in quanto tale, non è in grado di gestire le proprie emozioni e segue unicamente l’istinto. Eppure nella follia causatagli dalla malattia è come se convogliasse tutte le paure degli abitanti di Castle Rock per poi farle esplodere verso l’esterno. Cujo diventa la personificazione dei loro peggiori incubi, quegli incubi che per anni li hanno tormentati e che non hanno mai avuto il coraggio di affrontare. Tad Trenton non può sconfiggere il mostro perché è un bambino e non ha sufficiente conoscenza del mondo, ma nemmeno sua madre può riuscirci, perché quel mondo che conosce benissimo non ha mai imparato a dominarlo.

Intenzioni di King

CujoLo stesso autore, nel corso di un’intervista, spiega che il suo intento non era quello di mettere in cattiva luce il personaggio di Donna Trenton, né di rappresentare la collera di Cujo come una vendetta karmica per l’adulterio da lei commesso. Cujo è semplicemente il destino crudele. Quando Donna si trova faccia a faccia con il cane, non è l’animale che vede, ma un essere che la conosce benissimo, un essere che l’ha aspettata per tutta la vita, una forza della natura con un unico scopo, inesorabile[3]. Di conseguenza anche la morte del bambino ha un suo scopo preciso, quello di dimostrare che i mostri esistono e che negarne l’esistenza, purtroppo, non serve a nulla:

Ci sono bambini che vengono investiti e sbalzati fuori dai loro stivali da cowboy. Bambini che vengono caricati in macchina e spariscono per sempre. Bambini che muoiono in culla o si ammalano di leucemia – la percentuale non è alta, molti di loro sopravvivono – . Ma c’è un fattore che bisogna prendere in considerazione: la possibilità che non esista un Dio e che niente si risolva per il meglio. Non sto dicendo che condivido questo punto di vista, ma non ho nemmeno un altro punto di vista da condividere. Perché mai dovrei avere una specifica concezione del mondo? Quando scrissi Cujo ero talmente giovane da non potermi nemmeno candidare come Presidente[4].

Cujo al cinema

La trasposizione cinematografica del romanzo, inizialmente curata dallo stesso King e poi rivista da Don Carlos Dunaway e Lauren Currier, e a essi accreditata[5], non si limita a cambiare il finale ma fornisce un’interpretazione diversa degli eventi narrati nel romanzo.

Il regista Lewis Teague, chiamato a dirigere la pellicola, manifestò un’iniziale riluttanza nei confronti del progetto, dovuta al desiderio di occuparsi di qualcosa di più ambizioso che non fosse la storia di un cane assassino. Tuttavia, dopo la lettura del libro, si rese conto che, in fondo, l’animale era solo un elemento secondario[6]:

Molte delle nostre paure sono immaginarie, ma quando finiamo per dargli credito possono trasformarsi in profezie che si realizzano. Molte delle paure provate dalla coppia protagonista sono immaginarie: il marito teme il tracollo finanziario a causa della perdita di un cliente; la moglie teme di invecchiare e sprecare la sua vita in quella cittadina rurale in cui si sono trasferiti da New York. Tutte queste paure sono filtrate dal figlio, che inizia a immaginare la presenza di mostri nell’armadio. Il film che ho realizzato vuole mostrare ciò che succede quando le persone iniziano a credere in quelle paure immaginarie che, avendo a che fare con un futuro che nessuno è in grado di prevedere, non possono essere in alcun modo reali. La famiglia protagonista si comporta come se l’immaginario fosse vero, ed agisce di conseguenza. Solo quando, alla fine, si scontra con una paura autentica – il cane rabbioso che attacca la macchina in cui madre e figlio sono imprigionati – e la affronta, diventa capace di vedere le altre paure nella giusta prospettiva[7].

Poiché lo scopo del regista era dimostrare che bisogna dare il giusto peso alle cose e che il nostro peggior nemico siamo proprio noi stessi, la morte di Tad, nel finale, avrebbe perso tutto il significato acquisito nel libro. Ragion per cui, il bambino si salva e la madre, pur essendo sempre sopraffatta dalle sue paure, riesce a reagire in tempo e a trasformarsi in un’eroina. In questo modo, Donna Trenton acquisisce anche caratteristiche che nel romanzo non possiede: la sua forza interiore ha la meglio sulle sue fragilità e sulla difficoltà della situazione – il suo essere fisicamente provata da tre giorni di attacco dell’animale – e questo le consente di compiere un gesto che ha del miracoloso: “Donna sfida la stereotipica formula hollywoodiana in base alla quale una donna assediata è destinata a essere oggetto di terrore nonché vittima perennemente alla mercé del seducente mostro della situazione o del criminale psicopatico. In molti film horror e thriller psicologici, l’eroina si trova intrappolata […] ed è costretta ad aspettare il salvataggio dell’eroe maschile. […] In Cujo, inizialmente spera di essere salvata – da Joe Camber, dal marito o dal postino quando si presenta a consegnare la posta – per poi rendersi gradualmente conto che nessuno arriverà mai a soccorrerla. Se qualcuno deve salvarla, è lei stessa; lei e il figlio sopravvivono non per l’intervento tempestivo di un uomo ma grazie al coraggio e all’autostima di una madre sola”[8].

Cujo (il film)

Conclusioni

La sceneggiatura non rende con la medesima efficacia le sfaccettature psicologiche dei vari personaggi del romanzo, e il parallelismo tra le due coppie Donna/Vic Trenton e Charity/Joe Camber un po’ si perde a favore di una maggiore messa in risalto dell’evoluzione della protagonista. Tuttavia, questo fa sì che, alla fine, la sua mente non sia più dominata da inutili dubbi (se esco dalla macchina e il cane mi uccide, il bambino resta solo e muore comunque) ma solo da una piena presa di coscienza della realtà, il che la rende un personaggio più positivo di quello dipinto nel libro.

Note:
[1] Cfr. Stephen King, Quattro dopo mezzanotte, introduzione al racconto Il fotocane, Sperling & Kupfer Editori, Milano 1991, traduzione di Tullio Dobner, pp. 667-671.
[2] Vedesi ad esempio: George Beahm, The Stephen King Companion: Four Decades of Fear from the Master of Horror, Thomas Dunne Books/St. Martin’s Griffin, New York 2015, pp. 172-174, oppure: Anna Gural-Migdal, Détournements naturalistes et horrifiques dans Dingo d’Octave Mirbeau et Cujo de Stephen King, in Soletras Revista, Revista do Departamento de Letras, Faculdade de Formação de Professores da UERJ, n° 30, luglio-dicembre 2015.
[3] Cfr. Joseph Maddrey, Beyond Fear: Reflections on Stephen King, Wes Craven, and George Romero’s Living Dead, BearManor Media, Albany, Georgia 2014, p. 200.
[4] Cfr. Douglas E. Winter, Faces of Fear: Encounters with the Creators of Modern Horror, New York, Berkley 1985, pp. 115-116, traduzione mia, citato da Joseph Maddrey in op. cit.
[5] Cfr. Joseph Maddrey, op. cit., pag. 231.
[6] Cfr. Tony Magistrale, Hollywood’s Stephen King, Palgrave MacMillan, New York 2003, pag. 56.
[7] Cfr. Stephen J. Spignesi, Dog (and Cat) Day: An Interview with Lewis Teague, in The Complete Stephen King Encyclopedia, Contemporary Books, Chicago 1991, pp. 572-573, traduzione mia, citato da Joseph Maddrey in op. cit.
[8] Cfr. Tony Magistrale, op. cit., p. 60, traduzione mia.

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