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Fumetto

La (ri)scrittura del mito

Enrico Fornaroli (EF): Buonasera a tutti. Ho avuto l’incombenza e anche l’onore di essere chiamato dagli organizzatori del Festival della Fantascienza Science+Fiction di Trieste — che ringrazio, perché è un’occasione essere qui nel corso di un Festival di Fantascienza quindi di cinema di fantascienza, parlare direi apparentemente, solo in parte, di fumetti, perché questa sera vorremo che l’argomento fosse più vasto, e soprattutto concentrato. Almeno inizialmente questa è l’idea che ho avuto per introdurre questa chiacchierata che ci auguriamo poi diventi una chiacchierata con voi del pubblico, perché la formula è anche quella del dialogo, della discussione, anche della domanda che avrà sicuramente risposte interessanti da parte di tre personaggi che hanno una storia e quindi richiederebbero molto spazio, e avrebbero anche adito a molte discussioni. Cercheremo in qualche modo di accogliere delle sollecitazioni, delle suggestioni da quello che in tanti anni Neil Gaiman, Alfredo Castelli e Sergio Bonelli hanno prodotto e creato nella letteratura del fantastico. Al di là della catalogazione, della suddivisione in generi, mi piacerebbe che quest’oggi parlassimo di quest’entità molto vasta ed affascinante che è la scrittura del fantastico. Sottolineo “scrittura” perché non è facile avere contemporaneamente tre scrittori. Quando si fanno gli incontri in ambito fumettistico ovviamente ci sono scrittori, disegnatori. Quest’oggi invece abbiamo la possibilità di parlare di scrittura: scrittura che assume diverse forme espressive, una delle quali è il fumetto. Ma come vedremo, come l’esperienza degli autori che abbiamo quest’oggi ci ha dimostrato, essa può concretizzarsi in molti linguaggi. Quindi l’invito è poi di parlare di tutte le forme di comunicazione che hanno permesso alla scrittura, al racconto di questi autori di diventare possibilità di lettura. Quindi l’intento è di iniziare con una sollecitazione di tutti e tre che sia un po’ l’avvio della discussione è per poi cercare insieme di creare un filo rosso che colleghi il dibattito di oggi.

L’argomento col quale volevo iniziare, che mi affascinava, avendo Alfredo Castelli, Sergio Bonelli e Neil Gaiman, è domandarsi, o meglio domandare, da persona che si occupa di fumetto e del fantastico in generale, a coloro che invece scrivono e producono storie, proporre una riflessione sul fatto che il linguaggio del fumetto, come la radio, il cinema e non ultimo la televisione hanno raccontato un mito, molti miti. Pensiamo appunto a mitologie contemporanee come Superman nel fumetto, a mitologie hollywoodiane che si incarnavano in figure che hanno appunto assunto la statura del mito con attori e personaggi. La domanda che volevo proporre a tutti e tre è se credono, in questo primo scorcio del nuovo secolo, che questi linguaggi siano ancora in grado di produrre miti, di dialogare con il mito, e in che forma. In che modo è possibile ancora creare della fabulae, dei racconti fantastici, che passino attraverso questi linguaggi che hanno fatto parte della nostra vita di fruitori ma anche di appassionati cultori. Vorrei partire da Sergio Bonelli, che è stato chiaramente e giustamente presentato come il massimo editore italiano di fumetti, ma che mi piace oggi in questa apertura far parlare il Sergio Bonelli scrittore, il Sergio Bonelli sceneggiatore, che in particolare con un personaggio come Zagor, tra le tante serie e testate che ha dato alle stampe come editore, è stato uno dei primi a lavorare con il mito, che senza timore di mescolare il diverso ha creato una grandissima contaminazione di generi e di personaggi, dando vita ad uno dei primi pastiche della storia del fumetto. Allora la domanda è: certi miti li potremmo ancora raccontare adesso, e in che modo?

Sergio Bonelli (SB): Intanto ti ringrazio per averci ricordato che oltre che editore io mi sono molto divertito nel proporre dei soggetti delle sceneggiature; giustamente tu hai detto Zagor, ma anche Mister No, persino Tex. Quindi mi piace in questa occasione parlare più che di cifre di altri particolari che riguardano la mia attività. È vero, tu hai citato questo Zagor, che credo compia proprio quest’anno i quarant’anni, che non sono neanche pochi per un giornale a fumetti, anzi sono tantissimi. E sono questi quarant’anni che mi fanno dire che io non sono sicuro che oggi sarebbe così facile creare un personaggio capace di reggere tanto tempo, da meritarsi addirittura la qualifica di mito che è stata usata qui. Perché è inutile negare che il pubblico di oggi è sicuramente diverso dal pubblico di quarant’anni fa:è sicuramente più disincantato, più esigente, e quindi quell’operazione che per me è stata un momento di divertimento — anche facile secondo me da compiere, perché io ci avevo messo i suggerimenti che venivano dalle mie letture giovanili, da tutti i film che avevo visto — oggi sarebbe molto più difficile.

Sicuramente si può, per fortuna: io lavoro con molto divertimento, ancora con entusiasmo, anche perché il nostro mondo è molto piccolo ed è fatto per fortuna di amici; noi siamo qua — io, Alfredo ed un altro mio collaboratore — con lo spirito di chi fa una gita, come quando andiamo ad altri incontri di questo genere… quindi a noi piace fare questo lavoro, io poi non so fare altro. Però per certo io capisco che è diventato molto più difficile. Ovviamente ci proviamo, ce la mettiamo tutta, e credo però che oggi si possa riuscire a catturare — mi scuso per il termine — l’attenzione del pubblico per un tempo molto più limitato. Il lettore di oggi si stanca abbastanza presto e spesse volte pretende veramente più di quanto noi stessi siamo in grado di dare. Quindi creare un mito di quelli che reggano il tempo come quelli del passato è molto più difficile e forse bisogna accontentarsi di avere delle intuizioni che reggano 4-5 anni, perché il pubblico cambia in maniera molto rapida. Quindi per certo si può fare, a patto di non pretendere di avere dei personaggi come i miei che reggano il tempo quaranta anni uno, cinquanta un altro, trenta un altro… Io credo che oggi il nostro lavoro sia diventato un po’ più limitato nel tempo e bisogna accontentarsi di risultai più vicini.

EF: In fatto di frequentazioni mitologiche Alfredo Castelli, non solo con Martin Mystère, è stato uno degli autori che maggiormente ha regalato ai suoi lettori tutto ciò che il fantastico nella storia dell’occidente ci ha in qualche modo creato, però con questa vena della riscrittura, della rielaborazione anche ironica, che è quella che ritroviamo anche nel primo scrittore Alfredo Castelli.

Alfredo Castelli (AC): Allora, Alfredo Castelli che parla si sé in terza persona si chiede però una definizione della parola “mito”, tornando alla domanda di prima. Prima di tutto “mito” è una parola esagerata: secondo me il mito di misurerà , se avremo creato nel mondo dei fumetti internazionale dei miti lo scopriremo tra un secolo. Ci sono personaggi che sono nati un secolo fa, non a fumetti, che all’epoca vendevano moltissimo, erano molto noti, ma che non sono dei miti. Invece i tre moschettieri sono divenuti dei miti, un secolo dopo esistono ancora. Quindi accontentiamoci di dire “un fumetto di successo, una storia di successo”. Devo dire che sono piuttosto d’accordo con Bonelli: mentre la vita umana è diventata per fortuna più lunga, quella dei personaggi letterari è diventata più breve. Il bombardamento dei media dà una concorrenza tale per cui la gente tende a non affezionarsi più di tanto ai personaggi. Dobbiamo quindi contare su mitologie brevi. Però io credo anche che, se ci sarà qualcosa di veramente forte, anche magari se un personaggio è durato per un brevissimo periodo, abbiamo la speranza che il mito nasca lo stesso. Purtroppo quando nascerà il mito saremo morti noi per cui non lo sapremo. Questo è quanto.

Sulla mitologia di Martin Mystère direi potremmo parlare dopo; vorrei fare io della domande a Neil Gaiman, a proposito, sul mito e sulla mitologia.

Sono due: come mai tutti i migliori scrittori di fumetti americani sono inglesi. Questa è la prima domanda, e secondo me c’è qualche ragione che riporta al mito, perché forse gli Inglesi, gli Europei hanno dentro di sé il mito, e magari gli Americani un po’ meno. Questa è una domanda che mi tormenta da anni.

Neil Gaiman (NG): Ci sono comunque scrittori di fumetti americani riconosciuti, inclusi anche gli Ebrei (sottolineatura in risposta ad un intervento di Castelli mentre parlava Gaiman, con particolare riferimento a Will Eisner, ndr) oltre gli Inglesi. Fino alle ultime generazioni, negli anni ’70, ci sono stati scrittori passati ai fumetti. Si tratta di un’intera generazione di fumettisti che hanno un background letterario. Will Eisner stesso diceva di aver basato molte delle sue opere come The Spirit sull’esperienza antecedente, ad esempio il teatro ebraico a New York. Negli anni ’80 c’è stata la cosiddetta “british invasion”, con autori come Moore, Morrison, Milligan e io stesso. Si trattava di una generazione di scrittori nati leggendo fumetti, cresciuti con i fumetti, come anche il pubblico italiano. Leggevano questi fumetti americani come fossero cartoline arrivate da un mondo lontano. Ma avevamo anche altri interessi: per esempio, quando mi incontravo con Alan Moore o Grant Morrison non parlavamo di fumetti, ma piuttosto dell’ultimo libro che avevamo letto, dell’ultimo film che avevamo visto, di poesie. Mentre i fumettisti americani quando si incontravano non facevano altro che parlare di nuovo di fumetti, se il loro supereroe era più forte di quell’altro o meno.

AC: Volevo infatti arrivare a questo: noi fumettari italiani forse parliamo più di libri, di cinema, di poesia, di tv, di dischi, ma di fumetti parliamo marginalmente, è chiaro, perché fa parte del lavoro. Perciò credo che la cultura europea si porti dietro quella cosa che è il mito, la cultura che è anche mito. È forse quello che manca al background americano, cioè qualcosa di profondo che ci portiamo dietro da sempre; per questo motivo avevo messo — e non era una battuta — gli autori di origine ebraica, e anche l’Ebreo Americano, che porta con sé una tradizione europea, di vecchio continente, di mitologia. Questo per arrivare a dire come il mito faccia parte del fumetto, della narrazione stessa.

NG: Per quanto riguarda il mito, se noi abbiamo creato nuovi miti, ritengo che ogni volta che i tempi sono maturi la narrativa in realtà produca un mito,che possa essere riconosciuto dalla società, un modo di vedere il mondo. Nella nostra epoca possiamo pensare a William Gibson, che con Neuromante nel 1984, che ci ha messo a disposizione tutte le metafore del World Wide Web.

Penso che non sia necessariamente vero che ormai la vista dei personaggi fumettistici sia troppo breve per riuscire a creare dei miti; penso semplicemente che ormai ci sia un rumore di fondo, che ci siano tanti stimoli nella società per cui è difficile che un personaggio possa trovare la forza di prorompere, di farsi sentire. Però, quando c’è un personaggio sufficientemente forte, questo è inarrestabile.

AC: Io dicevo che forse lo sapremo tra un po’. Abbiamo questa difficoltà a creare un personaggio, meno tempo per creare un mito però, per rispondere alla tua domanda iniziale, io credo che un mito si possa creare, ma con maggiori difficoltà. Al tempo di Omero ci saranno stati tanti cantori, ci saranno stati tanti poeti ciechi, però non immagino una concorrenza di trenta antenne televisive, una che faceva l’Odissea, una che faceva l’Eneide, un’altra che faceva Il Barone di Munchhausen. In fondo c’era poca concorrenza. Ciononostante i momenti di concorrenza vissuta in ambito letterario nell’ottocento erano molto più grandi, molto più forti di quella in ambito fumettistico adesso. Uscivano veramente montagne e montagne di cose e, chissà perché, gli scrittori seriali scrivevano molto di più. Eppure qualcosa è rimasto: forse loro avran detto: “no, è impossibile, beato Balzac che lavorava da solo e c’era speranza per la commedia umana.”. E invece qualcosa è rimasto, segno che, se c’è un personaggio con sufficiente forza può emergere. Lo dico anche per scaramanzia: si parla sempre del fumetto che va male, che sta peggiorando, e allora speriamo invece che questo nostro mondo continui a produrre. Se non proprio miti, almeno che siano qualcosa di piacevole da ricordare. Non la studieranno a scuola, ma almeno i nostri nipoti diranno: “Mi ricordo quando da bambino leggevo Dylan Dog”Martin Mystère no, non lo leggevano…

EF: Volevo aggiungere un altro elemento, una sfumatura dell’argomento della possibilità del mito, di creare nuovi miti. Siete d’accordo sul fatto che comunque, dalla storia dell’uomo, stiamo raccontando sempre la stessa storia e stiamo rinnovando sempre gli stessi miti, ma il fascino è riuscire ogni volta a incarnarli in nuovi personaggi, in nuovi intrecci, in nuove suggestioni narrative?

SB: A me viene facile, e sarò anche velocissimo, perché in realtà nei personaggi che noi proponiamo da anni — forse qualcuno pensa, e forse persino, io, che siano troppi — gli elementi che fanno presa sul lettore sono gli stessi che catturavano me quando leggevo i grandi maestri americani che ci offrivano le avventure di Mandrake, di Cino e Franco, di Gordon, dell’Uomo Mascherato, di Phantom… A grandi linee gli elementi sono sempre quelli, però la capacità — e qui sta il difficile — è di trasmettere questi segnali arricchendoli con una cultura più profonda, più moderna, più adeguata. Il pubblico viene sicuramente preso dagli stessi valori di fondo, ma pretende che siano raccontati in modo diverso e la difficoltà sta proprio in questo. Per certo la base rimane la stessa, ma va proposta in modo completamente diverso.

AC: Sono d’accordo, ci sono stati tantissimi studi sulle caratteristiche del mito, sulle caratteristiche dei personaggi, sulle caratteristiche delle storie, a partire proprio da Aristotele, che aveva individuato 25 situazione tragiche e non più di 25 — a dire il vero mi sono messo a cercarne della altre e non se ne trovano. Altri studiosi della struttura nel romanzo — c’è un bellissimo saggio che si chiama I volti dell’eroe proprio sul romanzo epico — analizzano queste strutture e trovano che sempre — dall’Odissea a Pinocchio, dall’Eneide a I Tre Moschettieri che ho citato prima — ci sono sempre delle componenti che sono fisse. Possiamo confrontarle con le note musicali, che sono sette ma possono essere variate in infiniti numeri di modi. Si possono variare queste componenti fisse in un infinito numero di personaggi, di caratteri, di situazioni, che mantengono queste caratteristiche di base e si adattano di volta in volta alla nostra epoca, o toccano delle corde che superano addirittura le epoche, che sono trasversali e che funzionano sempre. Appunto prima parlavamo di miti.

NG: Sembra che tutto questo discorso non abbia niente a che fare con i fumetti, il che non è vero, perché qualsiasi storia ha un suo potere. Ogni cinque anni circa provo a riprendere una storia nota, una storia popolare, e provo a riscriverla, cercando di vederla dal nostro punto di vista. Per esempio, un po’ di anni fa ho cominciato a riprendere in mano Biancaneve. Ma chi è quella donna con la pelle più bianca della neve, i capelli neri corvini, le labbra rosse come il sangue, che può essere vista nella bara da un principe, ed essere tanto bella al punto che il principe dice: “Che bella quella ragazza nella bara! Devo portarla via con me”? Io ho quindi scritto una nuova versione, più terribile, di Biancaneve.

EF: Siamo passati dal parlare di scrittura del mito, del racconto, del narrare storie, alla riscrittura, che era tra l’altro uno degli argomenti che mi ero appuntato per la sollecitazione della discussione. Anche perché quest’idea mi nasceva da due esperienze che coinvolgono Neil Gaiman di recente e anche Alfredo: per quanto riguarda Gaiman, il lavoro che ha compiuto su Miyazaki, con La Principessa Mononoke, Mononoke Hime: scrivere dialoghi per il testo che è di un altro scrittore — in questo caso per un film di animazione — e proporre i dialoghi per la versione inglese. Quindi uno scrittore che dialoga con un altro scrittore e cerca di ri-raccontare ad un pubblico culturalmente distante una storia profondamente radicata nella cultura giapponese. Esperienza analoga, sulla quale vorrei chiedere di raccontarci a Neil, è il già citato lavoro su Avalon, film con attori in carne ed ossa, ma realizzato da un regista di cinema d’animazione, autore di Ghost in the Shell, tanto per citare il suo titolo più famoso in occidente, al quale Neil Gaiman sta lavorando sui dialoghi e anche se ho ben capito sulla scrittura di parti aggiunte a quella originale.

Ad Alfredo chiederei invece di parlare del lavoro che ha compiuto e che uscirà, lo si può annunciare, a novembre, su un mito, un’icona del fumetto italiano che è Diabolik.

AC: Sì, questo lavoro su Diabolik consiste nel rifacimento di una vecchia storia, la prima storia di Diabolik, quella che ha lanciato il personaggio (uno di quei personaggi che forse diventerà un mito) che era stata scritta in una maniera assolutamente illeggibile adesso, che un lettore attuale di Diabolik non potrebbe leggere più, perché non funzionava, perché era sbagliata. Per cui mi sono divertito letteralmente a riscriverla cercando di adattarla, senza ovviamente falsare quel che è il racconto, al modo di raccontare corrente. Questo lavoro di recuperare un materiale già fatto e cercare di riversarlo è particolarmente stimolante e interessante perché ti porta a cercare di pensare cosa ha pensato l’autore originale, filtrando attraverso la tua personale visione. Nel mio caso, la differenza è data dal fatto che sono passati quarant’anni. Nel caso di Gaiman possono essere il pensiero di un autore giapponese che invece deve essere tradotto in un pensiero più occidentale, più comprensibile dal mondo occidentale.

Questo porta ad una serie di scomposizioni e ricomposizioni del racconto, e a tutta una serie di operazioni che forse è lunga da dettagliare ma che è molto stimolante perché scomporre con attenzione un racconto permette di vedere come è costruita la sua struttura, come funzionano certi meccanismi interni al racconto stesso.

Prima abbiamo parlato di miti, di cose molto importanti, molto grandi, molto vaste se vogliamo, però un racconto che può diventare un mito o non diventarlo è fatto anche di meccanismi pratici, di trucchi, di sistemi per catturare il lettore e portarlo avanti, per far funzionare la storia, per creare dei fili che poi si annodano e si snodano in maniera coerente. Tecniche su cui appunto vorrei fare una domanda a Neil Gaiman, che è la seguente ed è abbastanza strana secondo me: lui ama i giochi di prestigio, anch’io del resto. Moltissimi autori — Orson Welles, Maxwell Grant che scriveva The Shadow — ci sono un sacco di autori di narrativa gialla, di narrativa di genere che amano i giochi di prestigio. E secondo me esistono delle grosse similitudini nella struttura narrativa del racconto di genere tra la costruzione del gioco di prestigio e la costruzione di un certo tipo di racconto.

NG: La domanda è stata molto azzeccata: anch’io scrivendo American Gods, il mio ultimo romanzo, ho visto questa affinità con chiarezza. Per questo per divertimento volevo che anche il personaggio principale di American Gods facesse anche giochi di prestigio. Per questo ho incontrato diversi prestigiatori, ho fatto amicizia con loro. Scrivendo, mi sono accorto della similitudine tra le storie mistery e i giochi di prestigio.

Non è tanto una una questione di distrarre il pubblico per far funzionare il gioco di prestigio, quanto piuttosto riuscire a far concentrare l’attenzione del pubblico sul punto dove il prestigiatore vuole che ciò accada. Se un mago vuole farvi vedere un oggetto, la sua bravura sta nel farvi focalizzare l’attenzione su un particolare punto. Questa è l’esperienza che ho avuto con Teller, un grande prestigiatore americano. Teller mi raccontava di quando era giovane e si esercitava con i giochi di prestigio. Un trucco di routine era quello del prestigiatore che metteva un coniglio della gabbia, per poi dire al pubblico che l’avrebbe fatto scomparire davanti a tutti. A quel punto entrava Teller, che indossava una maschera da gorilla, e con tutti gli strumenti da one-man-band. Entrava con uno spot su di lui e passava dietro il palco. E nel frattempo Penn, l’altra persona che stava sul palco, senza nascondersi prendeva il coniglio, lo trasferiva in un’altra gabbia, metteva una palla al posto del coniglio, così, in piena vista. A quel punto Teller finito il giro andava via, si accendevano delle luci un po’ più forti, e Penn faceva vedere che ormai al posto del coniglio c’era una palla blu.

Anche in American Gods è una questione di presentare conigli, far passare gorilla, e far vedere cose che miracolosamente si muovono da una parte all’altra. Anche con Sandman in fondo è quello che ho fatto: attirare l’attenzione su delle cose e non fare accorgere di come vengono trasformate.

EF: Molto bello perché volevamo parlare di fumetti e invece abbiamo parlato di giochi di prestigio e di magia, forse perché raccontare storie è un po’ fare delle alchimie, mettere insieme degli elementi e riuscire a creare lo stupore del lettore. Vorrei proporre un ultimo argomento: l’ultima suggestione che volevo proporre è sempre una riflessione su quello che stiamo vivendo, su dove andrà la scrittura, la narrazione, l’inventare storie, il creare alchimie. Forse negli ultimi decenni, sicuramente negli ultimi vent’anni raccontare storie è stato molto anche contaminare generi, mettere insieme personaggi provenienti da ambiti narrativi diversi e divertirsi un po’ a farli interagire, creando anche nuove scintille. La domanda che vi faccio pensando anche a nuove proposte dell’immaginario contemporaneo: penso a quello che nasce da nuove storie dei personaggi dei videogames, penso a Lara Croft di Tomb Raider piuttosto che all’ultimo Final Fantasy dove la tecnologia diventa strumento di creazione di nuovi racconti che però nascono da un videogioco, dove il videogioco è un’avventura, non è più solo un gioco di strategia o un gioco solitario. Pensate che dalla contaminazione dei generi ci dovremmo porre il problema della contaminazione dei linguaggi? Il che non è una novità: ma pensate che lo scrittore si dovrà sempre di più porre nella condizione di saper raccontare le proprie storie, rinarrare i propri miti attraverso linguaggi diversi?

SB: Quello che tu mi chiedi me lo chiedo tutte le notti e non sono contento perché non ho ancora trovato una risposta. Pretendere da me un’illuminazione improvvisa oggi sarebbe straordinario. Non lo so e vivo alla giornata.

AC: Se la domanda è se dovremo adattarci ai nuovi linguaggi, questo è evidente, così come si è dovuta adattare ai nuovi linguaggi tutta la gente che è venuta prima di noi, non parlando necessariamente di fumetti. Probabilmente quando qualcuno ha inventato il teatro, qualcuno avrà detto che bisognava inventare il linguaggio teatrale, così come con il linguaggio cinematografico. Ci adegueremo ai linguaggi, il problema è il modo che sceglieremo per raccontare. Quello che mi preoccupa è se ci sarà un modo predominante che ucciderà gli altri modi. I modi di cui io pavento la morte non sono tanto il fumetto, quanto la carta stampata, che è una cosa meravigliosa. Sarei molto rattristato se un giorno alla scrittura si sostituisse qualcos’altro.

 Il maggiore editore italiano di fumetti (“anche se rischio di essere l’unico!”, ha commentato), uno degli scrittori di punta che collaborano con lui, e uno tra i più importanti comic-writer espressi dalla scena internazionale negli ultimi quindici anni.
Non poteva che risultare un successo la tavola rotonda che ha visto protagonisti a Trieste per il Festival Internazionale della Fantascienza Sergio Bonelli, Alfredo Castelli, Neil Gaiman, con la partecipazione di Enrico Fornaroli quale moderatore e suggeritore di importanti spunti.


Per parlare di mito oltre i fumetti, e quindi interrogarsi se la nostra società sia ancora in grado di produrre narrazioni e figure archetipiche forti e riconoscibili nel tempo.


Questo incontro si è svolto domenica 23 settembre 2001 presso il Cinema Excelsior di Trieste.

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