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Cinema

Silvano Agosti

La follia organizzata

Ivan Bormann (IB): Come è nata collaborazione con il centro produzione video Kairos e con il Dipartimento di Salute Mentale di Gorizia?

Silvano Agosti (SA): È nata probabilmente da una curiosità che è sorta in loro rispetto al mio lavoro: mi hanno chiesto di fare una rassegna e io sono stato ben contento di farla, anche perché i miei film non hanno la possibilità di essere visti altrove se non alla televisione che, pur circuitandoli tutti, li trasmette sempre dopo l’una di notte.

IB: Non è la prima volta che lavori nell’ambito della psichiatria, o comunque della follia. Ci vuoi raccontare la tua esperienza in merito?

SA: Nel ’66 ho sentito parlare di un certo Basaglia, che si trovava a Gorizia e che tentava una strada diversa, quella di una nuova psichiatria e sono giunto qui in autostop, arrivando in questo straordinario posto, luogo aperto dove si sentiva musica…

IB: Vuoi parlarci del tuo progetto riguardo ad un film sulla vita di Basaglia?

SA: Preferisco non parlare del film anche se sono convinto che la mia passione di offrire una testimonianza sul lavoro di Franco Basaglia, sia pure in termini poetici, sia un atto dovuto ad un personaggio che è stato a suo tempo forse troppo celebrato e adesso sicuramente troppo dimenticato.

IB: Come pensi che si sia trasformata in vent’anni la psichiatria, se sei ancora in contatto con le evoluzioni che avvengono in questo ambito ?

SA: Diciamo che tutto il lavoro di Basaglia d della cosiddetta psichiatria democratica è servito a far capire che esiste la possibilità di una società diversa e di un diverso modo  non solo psichiatrico ma anche di approccio alla vita. Questo diversa modalità di vivere era stata portata in alto da tutti i movimenti giovanili del ’68 e da tutti i movimenti operai dei dieci anni seguenti, come ho cercato di descrivere nel mio “30 anni di oblio” per Rai Tre: la richiesta di una diversa vita, “diritto alla cultura / diritto alla vita / con questa società / facciamola finita!” — dicevano i giovani allora — , il diritto a vivere… tutto questo è ancora sentito.
Ma oggi tutte le forze sono, diciamo, convergenti su una nuova negazione di questo diritto, per cui l’esperienza basagliana che pur lascia ancora tracce profonde, è mal tollerata, secondo me, a livello istituzionale alò punto tale che si profila l’ipotesi di cancellarla in un modo o nell’altro e di tornare alle barbarie del manicomio.
Io sono molto commosso quando penso che l’Italia è l’unico paese al mondo che è riuscito, in qualche modo, a mettere fuori legge il manicomio; però sono anche convinto che la libertà del malato non sopravvive molto a lungo se egli vive in una società di sottomessi. O la libertà riguarda tutti o è molto difficile preservarla…

IB: Difatti se come dicevi tu, il movimento antipsichiatrico e quello della psichiatria democratica in qualche modo erano uno dei possibili percorsi di liberazione di quel periodo, uno di quelli che il Movimento in generale metteva in pratica, forse la difficoltà in cui si trova adesso il settore della psichiatria deriva proprio da una società in cui sembra essere svanito o diminuito gioco forza un movimento generale di liberazione e contestazione anti-istituzionale.

SA: Il problema non è mai stato contro le istituzioni ma contro la loro gestione, nel senso che se l’autista dell’autobus è ubriaco, non puoi prendertela con l’autobus ma con chi lo guida. Basaglia in fondo ha insegnato come smantellare l’aspetto istituzionale, disumano, ma non è che tu puoi eliminare l’Istituzione che fa parte del consenso sociale, è la sua guida che va cambiata. Il problema della psichiatria passa in secondo piano perché c’è un fenomeno di follia molto più evidente che è la guerra, che è ancor più drammatica di tutte le altre anomalie della società; ma ci vuole veramente la follia per giustificare ciò che sta succedendo a pochi chilometri da qui, quindi parlare della follia e non includere la guerra mi pare un po’ strano.

Poi sinceramente ritengo che le modalità con cui è organizzata la vita delle persone attualmente all’interno della società sia una vera e propria follia. Io non credo sia ragionevole né sensato che le persone spendano gran parte della loro esistenza a procurarsi i mezzi per esistere, credo che le persone abbiano diritto di lavorare un giorno alla settimana per poter vivere giocare gli altri sei giorni.

Io credo profondamente che il dato operante della follia sia il modo con cui la vita delle persone è costretta ad essere organizzata, e che da questa costrizione nasca poi la follia in modo specifico. Immagino una società in cui le madri e i padri possano stare sei giorni alla settimana con i loro figli o con gli amici dei loro figli o con gli amici dei genitori dei loro figli, in cui passono esplorare il mondo e confrontarsi, creando a loro volta… C’è poco posto per la follia, che — come tu sai — nasce in senso clamoroso con la nascita della forza lavoro: l’essere umano non è più un universo ma è pura forza lavoro: la follia è tutta lì.

IB: Ma tu credi che il mandato sociale della psichiatria continui ad avere la caratteristica del controllo sociale, anche se modernizzato, moderato, rivisitato oppure credi che con l’esperienza di Basaglia queste istanze siano stato definitivamente cancellate?

SA: Mi viene l’idea di chiederti “ma chi guarirà coloro che si ritengono normali”, chi si occuperà di guarirli? Il mandato specifico di qualsiasi disciplina di massa è sicuramente oppressivo, quindi ci sono almeno due forme di follia e di psichiatria: c’è la follia organica — piuttosto ristretta in generale, insignificante sul piano antropologico — e c’è la follia invece ridotta dalla società stessa, che è la follia prodotta dalla negazione della persona umana. Quest’ultima diventa, per l’appunto, fenomeno di massa nonché metodo per reprimere e sottomettere le persone, per non restituire loro il destino che meritano, per non dare loro la possibilità di vivere quest’unica occasione che hanno della e dalla vita. Di fatto, attualmente io vedo le persone sottomesse o al desiderio di trovare lavoro, o al lavoro stesso, o ai danni che il lavoro produce, o alla perdita del lavoro, o al ricordo del lavoro. In pratica il lavoro è stranamente il fulcro sul quale ruota tutto, mentre invece i testi sacri giustamente descrivono il lavoro come una maledizione dalla quale la società è giusto che si liberi, soprattutto grazie alle nuove tecnologie che potrebbero nutrire miliardi di persone se fossero utilizzate con questa finalità.

IB: Per chi cerca di uscire da questa trappola, utilizzando la propria creatività come lavoro, e quindi cercando di riuscire a sopravvivere lavorando nell’esprimersi attraverso cinema, letteratura, non si tratta di lavoro comunque?

SA: Sai scrivere un romanzo, fare un film non sono lavori: io per lavoro intendo un lavoro coatto, dovuto al consorzio sociale. Ci vuole di sicuro chi pulisca le fogne, ma secondo me se è richiesto che qualcuno che pulisca le fogne allora queste devono esser pulite da tutti e non solo da chi è condannato a farlo tutta la vita. Esprimersi non è un lavoro, se vuoi appartiene all’operosità, ma non a quel lavoro che in fisica viene curiosamente definito il risultato di forza per spostamento. Soprattutto esprimersi non significa soggiacere a un lavoro coatto per cui ci si debba alzare tutte le mattine alle quattro, prendere il treno, andare in fabbrica o andare a fingere di lavorare il che è ancora peggio. In un ufficio, insomma, in un modo o in un altro, il lavoro oggi viene ancora usato come un immensa gabbia dove chiudere questa vitalità estrema e straordinaria che ogni essere umano esprime da quando ha cinque anni di età.

IB: Vuoi parlarci della tua esperienza di promotore indipendente, della tua creatività e di come si può riuscire a crearsi uno spazio in una società in cui tutto è così rigidamente normato e teso alla produttività e al profitto?

SA: Ritagliarsi uno spazio significa — come capita a me –  ritagliarsene uno sostanzialmente clandestino. Oggi con i nastri video, con la clandestinità di Internet e di altri mezzi di comunicazione, una persona può finalmente autogestire la propria creatività e trarne anche motivo di felicità. Io ho spesso teorizzato il cinema di condominio, dove chiunque a  casa sua monta uno schermo e il sabato proietta film che fa o che ama e i tutti i condomini, se vogliono, possono venire a vedere.
Sono infinite le forme in cui si può far sbocciare questo nuovo piccolo paradiso dell’indipendenza espressiva, ognuno però ha il diritto di pensare in piena autonomia come vorrebbe realizzato il proprio “paradiso”.

IB: Ultimamente, considerata anche l’espansione di alcuni settori del terziario, dell’associazionismo volontaristico e della cooperazione sociale, stanno nascendo molte realtà  di produzione video e cinematografiche legate a questo ambito… Cosa ne pensi?

SA: Lo vedo molto di più come un ottimo servizio sociale, per esempio mi piace che ogni quartiere abbia la sua memoria. Io avevo fondato le unità di memoria che erano tre persone con un video, ognuna delle quali documentava lo stesso evento da un punto di vista diverso… Queste unità di memoria potrebbero essere addirittura un servizio pubblico: noi memorizziamo ciò che accade in questo quartiere, non certo con finalità di profitto, però — legittimamente — di una dignitosa sopravvivenza, diciamo pure agiata, in cui sia possibile dare una risposta alle vere necessità degli altri, essendo accettato e riconosciuto dagli altri come essere umano indispensabile e necessario.
Io non credo tuttavia che queste associazioni debbano produrre dei film necessariamente di distrazione o di divertimento come fa l’industria, credo piuttosto che queste unità di sperimentazione video debbano essere delle avanguardie per ricercare un modo di verso di vivere, per vedere dov’è  che la gente sta meglio e farlo vedere a chi sta peggio. Si tratta di uscire dall’ossessione dell’economico. Ad esempio, giusto per dire: anche i bagni pubblici sono importanti ma non è che uno sta lì a parlare dei bagni pubblici tutta la vita… Parimenti: il denaro ha una sua funzione che è tuttavia minimale: creare meno caos possibile negli scambi. Un conto è che uno dica io con il mio lavoro voglio avere i soldi per comprare il cibo al mercato, un conto è che uno si metta in mente che con il suo video guadagnerà somme astronomiche.
Io personalmente ho prodotto dieci film lungometraggi e una sessantina di video, finora almeno non ho avuto nessun tipo di fallimento, anche se mi è precluso tutto il mercato nazionale e il territorio persino dei cinema. L’idea di proiettare un mio film in una sala normale, dove lo schermo è imbrattato di immagini assolutamente insignificanti o non cinematografiche, non m’affascina: mi piace molto di più proiettare “fuori”, in un luogo dove un cinema d’autore ritrova una dimensione vera, dove la gente è contenta di scoprire che esiste anche un cinema che la fa vibrare di sentimenti, che fa riscoprire le proprie grandezze, non solo quelle del film.

IB: Se venti o trent’anni fa poteva risultare chiara la facilità di una distribuzione alternativa, all’interno di situazioni di movimento, occupazioni, azioni di lotta, di territori in qualche modo “liberati”, come ci si riesce ora con le difficoltà oggettive di oggi a trovare punti d’appoggio e legami da consolidare al di fuori dei circuiti commerciali?

SA: Purtroppo devo dire che il cinema fatto in autonomia è un cinema brutto, un po’ sgangherato.
Io ho cercato di dare la massima dignità formale ai film che ho fatto, per cui uno non pensi “ah questo film è costato due lire”… Quando qualcuno vede un mio film vede un mio film e basta, vede un quadro di Picasso, non è che sta lì a pensare se Picasso aveva un pennello da due miliardi o da duemila lire.
Il problema è l’armonia dei tratti, quindi il segreto sta nel garantire la massima dignità non solo a se stessi ma anche al proprio lavoro. Il cinema indipendente con inquadrature che ballano da tutte le parti per cui uno si sente in alto mare, oppure con riprese sciatte, con l’audio che si sente male, il video sfocato, insomma tutto questo che può consolare per un attimo il tizio del centro sociale che dice: “be’ mo’ lo faccio pure io!”, in realtà non va a favore del cinema d’autore che dev’essere qualcosa d’inaudito, di estremamente interessante non solo, semplicemente, interessante.

Questa conversazione è avvenuta nel 1999 mentre venivano proiettati i film di Silvano al Kulturni Dom di Gorizia e mentre Silvano stava lavorando all’idea di realizzare un film sulla vita di Franco Basaglia (“La seconda Ombra”).
La rassegna fu allora organizzata dalla Kairos c.p.v. associazione che è nata all’interno dell’ex Ospedale Psichiatrico di Gorizia. Io, nel tempo in cui l’intervista ha pèreso luogo lavoravo a Trieste come operatore psichiatrico.
(i.b.)

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