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Il canto degli italiani

Il canto degli italiani

Goffredo MameliIl 2021 si sta trasformando in un anno di rinascita per l’Italia. Nella notte di domenica 11 luglio, la nazionale azzurra si è aggiudicata la coppa UEFA dei campionati europei di calcio. La seconda vittoria consecutiva in una competizione di carattere europeo, preceduta dalla sorprendente ascesa nel panorama musicale mondiale della band Maneskin, che sta spopolando anche oltreoceano a seguito della clamorosa vittoria conquistata all’Eurovision Song Contest.

Sventolano le bandiere d’Italia al vento, mentre riecheggia tutt’intorno il poderoso Inno di Mameli. Innumerevoli sono le situazioni e i contesti in cui ci si è ritrovati a rievocare le parole di questa marcia attraverso un animato e appassionato canto, stretti in un gesto di commozione. Quanto, però, si conosce della storia evocata e raccontata da questa armonia?

Nel corso della sessantunesima edizione del festival di Sanremo (2011), l’artista Roberto Benigni realizzò un interessante intervento di divulgazione culturale volto alla ricostruzione eziologica ed ontologica dell’Inno di Mameli. Iniziò la sua esegesi spiegando in breve cosa rappresenta l’esplosivo Risorgimento: fu un decisivo passaggio storico di metà Ottocento che vide come protagonista l’unificazione dell’Italia grazie alla determinazione di giovanissimi neo-italiani, tutti disposti a combattere con la consapevolezza che forse non ci sarebbe stato un domani nelle loro vite, ma convinti nell’idea di un Italia unita e libera per il futuro dei loro figli. Erano uomini di valore e animati da solidi principi, motivo per cui le loro gesta vennero considerate eroiche da numerosi intellettuali e l’attenzione mondiale dell’epoca si focalizzò sulle loro battaglie. Per esempio, Giuseppe Garibaldi, chiamato El Diablo, era finanziato nella sua impresa da letterati come Charles Dickens, Alexandre Dumas, Victor Hugo.

Fino alla fine del XVIII secolo si scrisse di Risorgimento italiano solo in senso culturale. La prima estensione di questo termine da significato letterario a fatto politico e concreto della rinascita dell’Italia si ebbe con Vittorio Alfieri, definito “primo intellettuale uomo libero del Risorgimento”.

Risorgimento una parola di ambito religioso, che indica la rinascita di una vita nuova a partire da un corpo dilaniato, qual era quello italiano. La penisola infatti non rappresentava ancora uno stato unitario guidato da un solido potere centrale, ma era suddivisa in più regni o ducati, ognuno dei quali occupato o influenzato da potenze estere. È in questo contesto storico di patriottismo, antecedente ai moti del 1848 e della prima guerra di indipendenza, che nasce l’Inno d’Italia, o il Canto degli Italiani, pubblicato in maniera ufficiosa il 10 dicembre 1847 a Genova.

Il testo di Fratelli d’Italia fu scritto dal genovese Goffredo Mameli, allora giovane studente: aveva da poco compiuto vent’anni. Dopo aver scartato l’idea di adattarlo a musiche già esistenti, il 10 novembre 1847 Goffredo Mameli inviò il testo dell’inno a Torino per farlo musicare dal compositore genovese Michele Novaro, che in quel momento si trovava nella casa di un altro patriota. Novaro ne fu subito conquistato e quella stessa sera si mise a musicarlo. Anton Giulio Barrili, patriota e scrittore, ricordò nel 1902 le parole pronunciate da Novaro nell’aprile 1875 sulla nascita della musica del Canto degli Italiani:

[…] Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’una sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai, scontento di me; mi trattenni ancora un po’ di tempo in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio; presi congedo, e corsi a casa. Là, senza pure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo, e per conseguenza anche sul povero foglio: fu questo l’originale dell’inno “Fratelli d’Italia”. […]
(Michele Novaro)

Giovine ItaliaVenne così realizzata anche la melodia: una marcia allegra di 4/4, originariamente in Do maggiore, ma in seguito musicata alla tonalità del Si bemolle maggiore – per altro, come Benigni fa notare, il termine allegro è una parola che esiste solo nel linguaggio italiano, intraducibile letteralmente in altre lingue.

Alle manifestazioni liguri contro l’occupazione austriaca, vennero diffusi sempre più volantini che riportavano il testo del canto. Per gli espliciti riferimenti rivoluzionari, intonare questo brano divenne proibito secondo le legislazioni sabaude, ma comunque la sua popolarità si diffuse in maniera capillare, grazie anche all’appoggio dei mazziniani e degli assidui frequentatori della Giovine Italia. Dalle spedizioni di Garibaldi fino alla sua proclamazione come inno ufficiale di stato (12 ottobre 1946), quest’inno si è profondamente intessuto tra le trame della cultura italiana.

Analisi del testo

Il testo consta di sei quartine doppie di senari, ciascuna delle quali seguita da un’altra quartina di senari in ritornello.

Prima strofa:
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la vittoria?!
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.

Nel primo verso della prima strofa è contenuto un richiamo al fatto che gli italiani appartengono a un unico popolo e che sono, quindi, «Fratelli d’Italia». L’esortazione a combattere per l’Italia – nome ripetuto ben due volte in soli due versi consecutivi – si ritrova nel primo verso di molte poesie patriottiche risorgimentali: era di fondamentale importanza inneggiare all’ideale di un Paese unito e libero, in modo tale da poter concretizzare questo profondo desiderio.

ScipioneNella prima strofa viene anche citato il politico e militare romano Publio Cornelio Scipione (chiamato, nell’inno, col nome latino di Scipio) il quale, sconfiggendo il generale cartaginese Annibale nella battaglia di Zama (18 ottobre 202 a.C.), concluse la seconda guerra punica liberando la penisola italiana dall’esercito cartaginese. Dopo questa battaglia Scipione fu soprannominato “Scipione l’Africano”. Secondo Mameli, l’elmo di Scipione è ora indossato metaforicamente dall’Italia («dell’elmo di Scipio / s’è cinta la testa») pronta a combattere («l’Italia s’è desta», cioè “si è svegliata”) per liberarsi dall’oppressione straniera ed essere di nuovo unita.

Sempre nella prima strofa, si fa accenno anche alla dea Vittoria (con la domanda retorica «Dov’è la vittoria?»), che per lungo tempo è stata strettamente legata all’antica Roma («ché schiava di Roma») per disegno di Dio («Iddio la creò»), ma che ora si consacra alla nuova Italia porgendole i capelli per farseli tagliare («Le porga la chioma») diventandone così “schiava”. Questi versi fanno riferimento all’abitudine delle schiave dell’antica Roma di portare i capelli corti: le donne romane libere, invece, li portavano lunghi. Per quanto riguarda “schiava di Roma”, il senso è che l’antica Roma fece, con le sue conquiste, la dea Vittoria “sua schiava”. Ora, però, secondo Mameli, la dea Vittoria è pronta a “essere schiava” della nuova Italia nella serie di guerre che sono necessarie per cacciare lo straniero dal suolo nazionale e per unificare il Paese. Attraverso questi versi Mameli, con una tematica cara al Risorgimento, allude quindi al risveglio dell’Italia da un torpore durato secoli; rinascita che è ispirata dalle glorie della Roma antica.

Ritornello:
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.

Nel Canto degli Italiani è presente un forte richiamo alla storia dell’antica Roma poiché nelle scuole dell’epoca questo periodo storico era studiato con attenzione; in particolare, la preparazione culturale di Mameli aveva forti connotati classici.

La storia romana repubblicana, richiamata nella prima strofa del componimento, è ripresa anche nel ritornello, dove in «Stringiamci a coorte» è citata la coorte, un’unità militare dell’esercito romano corrispondente alla decima parte della legione, temuta dagli eserciti stranieri per la sua copiosa e compatta formazione. Con «siam pronti alla morte, / l’Italia chiamò» si allude alla chiamata alle armi del popolo italiano con l’obiettivo di cacciare il dominatore straniero dal suolo nazionale e di unificare il Paese, all’epoca ancora diviso in sette Stati preunitari. “Stringersi a coorte” significa infatti serrare metaforicamente le file tenendosi pronti a combattere. Nel ritornello è presente, per questioni di metrica, la forma sincopata “stringiamci” (senza la vocale “o”) invece di “stringiamoci”.

Il reboante «Sì!», aggiunto da Novaro alla fine del ritornello, allude al giuramento, da parte del popolo italiano, di battersi fino alla morte pur di ottenere la liberazione del suolo nazionale dallo straniero e l’unificazione del Paese.

Seconda strofa:
Noi siamo da secoli
calpesti, derisi
perché non siam Popolo,
perché siam divisi:
raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.

BenigniAll’interno della seconda strofa si fa invece riferimento ad un desiderio: la speranza (chiamata, nell’inno, la “speme”) che l’Italia, ancora divisa negli stati preunitari e quindi da secoli spesso trattata come terra di conquista, si raccolga in una sola nazione. Mameli, nella seconda strofa, sottolinea quindi il motivo della debolezza dell’Italia: le divisioni politiche.

Benigni, sempre nel suo monologo Sanremese, compie inoltre una digressione riguardante la bandiera italiana, assente al tempo di Mameli e rappresentante nel testo il Paese che ancora si deve formare. A metà Ottocento, per indicare l’Italia si faceva ancora riferimento alla bandiera azzurra dei Savoia. Il fondatore del movimento la Giovine Italia, Giuseppe Mazzini, ideò quindi una nuova immagine, facendosi ispirare dal trentesimo canto del Purgatorio di Dante:

appare Beatrice sopra un candido vel, (bianco)  cinta d’uliva – che rappresenta la sapienza- donna m’apparve sotto verde manto, vestita di color di fiamma viva (rosso).

La nostra bandiera nacque, come il linguaggio italiano, dalla letteratura. È incredibile quanto la cultura italica fosse così forte e intensa già prima dell’unificazione.

Terza strofa:
Uniamoci, amiamoci,
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore;
giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti per Dio,
chi vincer ci può!?

Questi versi riprendono l’idea mazziniana di un popolo unito e coeso che combatte per la propria libertà seguendo il desiderio di Dio: cattolicesimo e liberalismo uniti in un’unica morale. Infatti, i motti della Giovine Italia erano proprio “Unione, forza e libertà” e “Dio e popolo”.  In questi versi è anche riconoscibile l’impronta romantica del contesto storico dell’epoca.

L’espressione “per Dio” è un francesismo (francese: “par Dieu“): Mameli intende “da Dio”, “da parte di Dio”, ovvero con l’aiuto della Provvidenza.

Quarta strofa:
Dall’Alpi a Sicilia
dovunque è Legnano,
ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano,
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla,
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.

Battaglia di LegnanoLa quarta strofa è ricca di riferimenti a importanti avvenimenti legati alla secolare lotta degli italiani contro il dominatore straniero: citando questi esempi, Mameli vuole infondere coraggio al popolo italiano spingendolo a cercare la rivincita.

In primo luogo, il poeta genovese fa riferimento alla battaglia di Legnano, combattuta il 29 maggio 1176 nei pressi della città omonima, che vide la Lega Lombarda vittoriosa sull’esercito imperiale di Federico Barbarossa. La battaglia di Legnano pose fine al tentativo di egemonizzazione dell’Italia settentrionale da parte dell’imperatore tedesco. Legnano, grazie alla storica battaglia, è l’unica città, oltre a Roma, a essere citata nell’inno nazionale italiano.

Nella stessa strofa è citato anche “Ferruccio”, ovvero Francesco Ferrucci (noto anche come “Francesco Ferruccio”), l’eroico condottiero al servizio della Repubblica di Firenze che fu sconfitto nel 1530 dall’imperatore Carlo V d’Asburgo durante l’assedio della città toscana. Ferrucci – prigioniero, ferito e inerme – venne poi giustiziato da Fabrizio Maramaldo, un mercenario italiano che combatteva per l’imperatore d’Asburgo. Prima di morire, Ferrucci rivolse con disprezzo a Maramaldo le celebri parole: «Vile, tu uccidi un uomo morto!».

In seguito, si fa anche cenno a Balilla, il giovane da cui originò, il 5 dicembre 1746, con il lancio di una pietra a un ufficiale, la rivolta popolare del quartiere genovese di Portoria contro gli occupanti asburgici durante la guerra di successione austriaca. Questa rivolta portò poi alla liberazione della città ligure.

Infine, si citano i Vespri siciliani, l’insurrezione avvenuta a Palermo nel 1282 che diede avvio a una serie di scontri chiamati “guerre del Vespro”. Queste guerre portarono poi alla cacciata degli angioini (francesi) dalla Sicilia e iniziarono da una semplice scintilla che fece traboccare il vaso: all’ingresso di una chiesa, un uomo uccise un soldato francese con la sua stessa spada per una perquisizione invadente e sessista ai danni della moglie. Per “ogni squilla” Mameli intende dire “ogni campana”, facendo riferimento agli squilli di campane avvenuti il 30 marzo 1282 a Palermo, con i quali il popolo fu chiamato alla rivolta contro gli angioini dando così inizio ai Vespri siciliani, citati anche nell’ottavo canto del Paradiso di Dante. Le campane che chiamarono il popolo all’insurrezione furono quelle del vespro, ossia quelle della preghiera del tramonto, da cui deriva il nome della rivolta.

Quinta strofa:
Son giunchi che piegano
le spade vendute:
ah l’aquila d’Austria
le penne ha perdute;
il sangue d’Italia
bevé, col Cosacco
il sangue polacco:
ma il cuor le bruciò.

La quinta strofa è invece dedicata all’Impero austriaco in decadenza. Mameli vuole in questi versi spiegare le due ragioni principali per cui il comando politico sabaudo sta minacciando la sua compattezza.

RisorgimentoIn primo luogo, nel testo si fa riferimento alle truppe mercenarie, ampiamente utilizzate dalla monarchia asburgica. Esse – secondo Mameli – sono “deboli come giunchi” dato che, combattendo solo per denaro, non sono valorose come i soldati e i patrioti che si sacrificano per la propria nazione. Il Risorgimento, all’opposto, si concretizzò attraverso i sacrifici del popolo italiano e il sangue versato da giovani volontari, non da eserciti o politici.

In seconda istanza, nella strofa si fa anche accenno all’Impero russo (nell’inno chiamato “il Cosacco”) che partecipò, insieme all’Impero austriaco e al Regno di Prussia, alla fine del Settecento, alla spartizione della Polonia. È quindi presente un richiamo a un altro popolo oppresso dagli austriaci, quello polacco, che tra il febbraio e il marzo del 1846 fu oggetto di una violenta repressione ad opera dell’Austria e della Russia.

Il testo fa riferimento all’aquila bicipite, stemma imperiale asburgico.

La quinta strofa del Canto degli Italiani, dai forti connotati politici, fu inizialmente censurata dal governo sabaudo per evitare attriti con l’Impero austriaco.

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