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Cinema

Quando Gatsby non andò al cinema (I)

Storia di Francis Scott Fitzgerald, delle sue opere e del suo rapporto con Hollywood

Nel “Grande Gatsby” tradotto magistralmente da Fernanda Pivano nel 1950, si parla, a un certo punto, d’una comitiva di ricconi annoiati che, in un afoso pomeriggio estivo, si spostano, con due automobili, dalle loro ville di Long Island verso il centro di New York.
Una ragazza, di nome Jordan, propone di andare tutti al cinema, in uno di quei “cinematografi della Cinquantesima Strada che sono molto freschi”. Ma Daisy, la giovane protagonista del romanzo non ne ha nessuna voglia.
Jay Gatsby fa parte del gruppo ed è proprio nell’auto di Daisy: accetta tranquillo la decisione della capricciosa ragazza, quella ragazza “che ha la voce piena di soldi”. Fu così che, per quel giorno, nessuno andò al cinema.
Vi andò tanto, invece l’autore del “Grande Gatsby” e di tutti gli altri romanzi, specialmente nei momenti più travagliati della sua esistenza.
E dal cinema ebbe soltanto amarezza e delusioni, fino a lasciarci la vita, senza poter finire il suo capolavoro, quel “The Last Tycoon” di cui dovremo dire parecchio.
Questa è la storia che proverò a raccontarvi. La sappiamo in molti, eppure è ancora tanto affascinante.

Un “egoista romantico”, a Princeton e oltre.

Francis Scott Fitzgerald era nato nel Middle West, precisamente a Saint Paul, Minnesota, il 24 settembre 1896, da genitori molto diversi per origine e carattere. Il padre, Edward, era un commesso viaggiatore di poco successo nella vita, ma colto e sensibile, di origine aristocratica sudista. La madre si chiamava Mary Mac Quillan, detta Molly, e veniva da una, famiglia benestante di origine irlandese. Scott era l’unico figlio maschio, con una sorella minore. Nella sua infanzia si rese subito conto che la ricchezza e il benessere in famiglia erano completamente nelle mani dei nonni Mac Quillan, mentre il padre Edward stava avviandosi al fallimento sociale e poi all’alcoolismo.
Questa figura paterna di uomo colto e mite che gli leggeva Byron e Poe, rimase sempre nel cuore di Scott, tanto più che la madre criticava le ambizioni letterarie del suo figliuolo prediletto, mentre lo viziava in modo esclusivo: al punto che il ragazzo viveva con la convinzione “che al mondo non vi fosse qualcun altro eccetto lui”, come avrebbe scritto poi Scott in seguito.
A dodici anni frequenta la “St. Paul Academy”, istituto privato e prestigioso, dedicandosi, con altri studenti, al periodico letterario della scuola e imitando ovviamente ciò che legge sulle riviste più in voga. Poi passa alla Newman School nel New Jersey, un collegio nel quale i figli delle ricche famiglie cattoliche vengono preparati alle Università famose, come Yale o Princeton.
E a diciassette anni entra proprio a Princeton. Per lui è un sogno che si avvera, grazie a un’eredità della nonna materna.
Lo stimolo agli studi universitari non gli veniva propriamente da una passione letteraria o scientifica: il suo scopo era soprattutto quello di affermarsi sui suoi coetanei, in un’ansia di successo e di popolarità che poteva appagare soltanto con l’ingresso al famoso “Triangle Club” della sua università, dove si allestivano commedie musicali e altri spettacoli, tutti curati dagli studenti.
Fu così che il giovane un po’ spaesato di St. Paul Minnesota divenne una figura popolare della Famosa Università dei suoi sogni.
“Popolare” era la parola magica che ogni studente inseguiva con accanimento nella corsa al successo, fra l’invidia dei suoi colleghi e l’ammirazione delle ragazze. Scott era biondo, elegante e sognatore: il mondo era quasi già suo…
L’attività del “Triangle” gli diede delle soddisfazioni. Gliene vennero assai poche, invece, da qualche tentativo di emergere nello sport, altro fondamento per la completa fama universitaria. Si rassegnò, soffrendone, a non essere mai un divo del “Rugby”.
Tutti questi impegni gli fecero trascurare lo studio, e solo una tempestiva malattia febbrile (si parlerà poi di una tubercolosi polmonare ricorrente) lo salvò da una bocciatura. Però le cure necessarie gli fecero perdere l’anno di scuola.
In quel periodo si procurò delle preziose amicizie fra compagni colti e intellettuali, come John Peale Bishop e Edmund Wilson, che gli insegnarono il valore della letteratura seria, rispetto alle fanciullesche emulazioni cui si era dedicato prima. Gli furono sempre fedeli amici e consiglieri.
Un po’ prima di quella provvida malattia, nel 1915, aveva conosciuto una splendida e ricca ragazza di Chicago, ospite di amici a St. Paul. Si chiamava Ginevra King. “Non avevo imparato fino a che punto potesse essere straordinaria una ragazza per bene” : e la signorile povertà , con l’incerta posizione sociale di Scott, furono come stregate da questa giovane bellissima, ammirata, e quindi “popolare” e vincente.
Il suo primo romanzo avrebbe dato molto spazio ad alcune figure di giovani donne, ispirate anche alla bella Ginevra: le “Flappers”. 
Il nomignolo, che i traduttori italiani rendono in “maschiette”, definiva le fanciulle di successo degli anni 20, tutte spigliate, disinibite e sicure di sè. Anche il protagonista del romanzo perde la sua ragazza Rosalind, come Scott avrebbe perso Ginevra King.
Anche se non era per niente corrotta, la “flapper” era colei che “vuole quello che vuole quando lo vuole”. E non cambiava mai il proprio carattere: solo il suo ragazzo poteva cambiare, e sovente.

Nel 1917 gli Stati Uniti entrano in guerra. Scott si arruola come allievo ufficiale e va a Camp Sheridan, Alabama, in vista della partenza per l’Europa. Ha completato la stesura del suo romanzo, che è già la seconda, poiché la prima gli era stata cortesemente respinta. Ma anche questo secondo tentativo segue la stessa sorte: forse non piace quel titolo “L’ egoista romantico”. Ma Fitzgerald non vuole cedere.
Intanto lo raggiunge la notizia che Ginevra sta per sposarsi, e la delusione è di breve durata, perché a Montgomery, una cittadina prossima al suo campo di addestramento, conosce la diciottenne Zelda Sayre, figlia di un giudice, bella e piena di personalità, da vera “flapper” di prima categoria.

Immagine articolo Fucine Mute

Nel 1918 c’è l’armistizio, e Scott è trattenuto al campo fino all’inizio del ’19, cosa che, naturalmente, non gli spiace affatto. Ne consegue un fidanzamento in piena regola.
Lui è congedato e va in cerca di lavoro a New York, dove trova un modesto impiego e scrive qualche racconto, ancora rifiutato dagli editori. Zelda è impaziente e rompe il fidanzamento, mentre Scott comincia a bere smodatamente.
La situazione si sblocca quando all’inizio del 1920, l’editore Scribner accetta finalmente la terza versione del suo romanzo. E i due giovani si sposano, a New York nel aprile dello stesso anno.

“Di qua dal Paradiso”. Ma dove?

Nel marzo del 1920 era in libreria il romanzo.
Il titolo “This Side of Paradise” veniva da alcuni versi del poeta americano Rupert Brooke, ed era stato preceduto, nelle versioni respinte dall ‘editore, da un altro titolo, come abbiamo già detto.
Si trattava di un romanzo “di formazione” , un genere che pur avendo dei precedenti illustri in Europa, da Goethe a Lawrence a Joyce, era sempre stato un po’ trascurato in America.
Parlando di questi precedenti, tuttavia, non è che si voglia sopravvalutare quest’ “opera prima” di Fitzgerald che, in realtà, denunciava tutte le manchevolezze di uno scritto giovanile.
Ma “Di qua del Paradiso” ebbe un successo enorme quanto inaspettato: in soli sei mesi vennero vendute trentaduemila copie. Il motivo era nella giovane età non solo dell’autore, ma soprattutto degli entusiasti lettori. Era la generazione delusa del primo dopoguerra, quella che aveva assistito al crollo di tanti ideali e che non era riuscita a trovarne altri.
Un’effimera libertà di costumi, specialmente per le ragazze, e la ribellione al conformismo dei genitori (le terribili madri “vittoriane”), trovano nel protagonista Amory Blaine e nelle sue Rosalind e Isabelle i veri abitanti di “questo lato del Paradiso” con la loro sfida coraggiosa a tutte le tradizioni.
Si stava aprendo il decennio dei “ruggenti anni Venti” grazie a questo giovane scrittore americano che, col suo romanzo ancora immaturo era riuscito a dare ai suoi coetanei un’immagine in cui potevano vedersi. Fitzgerald aveva poco più di vent’anni.

Il romanzo successivo, “Belli e dannati” è del 1922: Fitzgerald lo aveva scritto in sei mesi ed era stato accettato dall’editore senza indugi. Riprende, ampliandolo, il tema della corsa al denaro e della sua identificazione con una pseudo-felicità che è fonte di “una disintegrazione fisica e morale”come dice efficacemente Fernanda Pivano, la traduttrice.
I due aggettivi del titolo sono crudelmente efficaci, nel loro candido realismo. Anthony Patch è il protagonista di una lunga vicenda piena di sogni non realizzati, di velleità mal soddisfatte, di disordine e incongruenze. E soprattutto di dispersione di denaro e salute, fino al crollo finale. Sua moglie Gloria è la vera figura centrale del romanzo, chiaramente ispirata a Zelda Fitzgerald, che in quel momento però, non aveva ancora dato segni evidenti della futura malattia psichica.
Singolare l’epilogo: una tardiva sentenza favorevole circa una grossa eredità trasforma Anthony e Gloria in milionari. E il racconto si chiude sulla scena di lui che apprende da Gloria la notizia senza la minima emozione, ormai perso dietro a un suo sogno demenziale.
La tragedia che avrebbe sconvolto la mente di Zelda era stata forse già intuita dall’autore, e spostata sul protagonista.
“Belli e dannati” non poteva replicare il successo incredibile dell’opera precedente. L’atteggiamento di Scott verso i suoi personaggi, più ironico che critico, toglieva loro il vigore necessario per imporsi del tutto. Eppure, questa coppia che insegue una felicità disordinata, e soprattutto questa Gloria affascinante nella sua futilità, richiamano il lettore d’oggi agli echi d’un mondo scomparso e quasi surreale.
Le feste da nababbo del “Grande Gatsby” erano, comunque, ancora un po’ lontane.

I racconti, la Francia, Hemingway.

Nei tre anni precedenti al romanzo più importante, dal 1922 al 25, Fitzgerald si dedicò soprattutto a scrivere dei racconti.
Questo genere letterario gli era sempre stato congeniale, in varia misura, fin dagli anni di Princeton. Si calcola che in tutta la sua vita ne abbia scritti circa centosessanta, una cifra enorme.
Erano brevi o di media lunghezza. Qualcuno dei più corti gli era anche servito nei momenti non rari di difficoltà economica, per procurarsi un rapido guadagno. Li aveva sempre raccolti sotto qualche titolo indicativo: la prima serie risaliva al 1920 e si chiamava “Flappers and Philosophers” (Maschiette e filosofi): ovvio il contenuto, a pochi mesi dal fortunato esordio in “Di qua dal Paradiso”. Nello stesso 1922 di “Belli e dannati”, usciva la seconda raccolta “Tales of the Jazz Age” (Racconti dell’età del Jazz), e questi racconti vennero sempre pubblicati su riviste a larga diffusione.
Nel 1923, Scott si avventura nel campo del teatro, scrivendo la commedia “The Vegetable”, ovvero “Postino o Presidente”. È una satira del suo stesso ambiente, che viene respinta dal pubblico del momento. Fu un fiasco assoluto: una sola recita ad Atlantic City.

Sempre in quel periodo, i Fítzgerald si trasferiscono da New York alla non lontana Long Island con la piccola Scottie, nata nel 1921. Prendono in affitto una lussuosa villa a Great Neek, la località nelle cui vicinanze sarebbe stato ambientato “Il grande Gatsby”. E conducono una vita molto dispendiosa: feste, amici importanti, artisti, scrittori. Ognuno poteva essere ospitato dai Fitzgerald senza alcun pensiero. E dopo venti mesi capiscono che questa vita a Long Island è impossibile da mantenere, decidendosi per un trasferimento in Europa, dove sperano di spendere un po’ meno.

Scelgono Saint-Raphael, sulla Costa Azzurra, seguendo l’esempio di altri loro amici americani e francesi. Qui Zelda si invaghisce di un aviatore francese, mettendo in crisi la vita coniugale: un episodio che si conclude senza gravi conseguenze salvo, forse, un primo attacco per la sua debole psiche.
In quel periodo si recarono più volte a Parigi e si incontrarono con Hemingway, che vi abitava, anche lui con la giovane sposa e il loro bambino. Sul rapporto fra i due scrittori, sui loro incontri a Parigi, sulla loro amicizia-rivalità dovuta anche allo stile letterario e al tenore di vita molto differenti, fa testo, in maniera preziosa, “Festa Mobile”, scritto da Hemingway molti anni dopo, quando ormai viveva a Cuba.
È una raccolta di memorie lucide e nostalgiche, in quel “Cerchio Magico” di artisti che aveva come centro la grande Gertrude Stein ed il suo famoso salotto parigino. Una sola citazione, indispensabile:

“Scott mi diede da leggere il suo “Gatsby” appena pubblicato. Quando lo ebbi finito capii che qualunque cosa facesse, o qualunque contegno tenesse, dovevo abituarmi a prestargli tutto l’aiuto possibile e ad essergli amico. Aveva già molti amici, più di ogni persona di mia conoscenza, e io desideravo solo aggregarmi alla schiera, potessi o non potessi essergli utile. Se era riuscito a scrivere un libro bello come “Il grande Gatsby”, avrebbe potuto scriverne ancora. Non conoscevo ancora Zelda, ma l’avrei vista abbastanza presto…”.

E così fu: qualche mese dopo andò a trovare i Fitzgerald nel loro bel villino sul mare a Juan-Les-Pins, con relativa festa in suo onore e molto champagne. “Zelda era bellissima, con una stupenda carnagione dorata. I suoi capelli erano di un color oro scuro, e lei era molto cordiale. Credevo che tutto sarebbe andato per il meglio, quella sera, quando lei, chiamandomi in disparte, mi confidò in grande segreto: Ernest, non credi che Al Jolson sia più grande di Gesù?. Allora nessuno sapeva nulla. Era solo un segreto che Zelda aveva diviso con me. Scott non scrisse più niente di buono fino a quando non seppe che lei era pazza”…

Il sogno di Gatsby e la “luce verde”

Il romanzo più famoso di Fitzgerald veniva pubblicato nell’aprile del 1925 dal solito editore Scribner.
Come nelle opere precedenti, si parte da uno spunto autobiografico, con l’ambientazione nel territorio dorato dei ricchi di Long Island e delle loro ville al mare, poco lontano da New York, immerse nella loro assoluta esclusività sociale.
La grande novità che rende subito il romanzo differente dagli altri, è l’ introduzione di un “Io narrante” che non è il protagonista della storia, bensì il suo testimonio, colui che accompagnerà il lettore dal principio alla fine raccontando ogni cosa, dal suo primo incontro con Gatsby fino alla sua tragica fine.
Noi conosciamo subito questo Nick Carraway che ci sarà costantemente simpatico, e che apre la propria presentazione con un consiglio di suo padre ricevuto “negli anni più vulnerabili della mia giovinezza” : un monito a mantenere intatta la nostra obbiettività di giudizio verso il prossimo. Il nostro Níck si stabilisce a Long Island per essere vicino a New York dove lavora in Borsa, ma da bravo giovane dell’Ovest non ama la vita di città. La zona dove prende residenza confina con quella dei privilegiati, e una sua giovane cugina, certa Daisy, è una delle più ricche residenti, col marito Tom Buchanan, uno sprezzante egoista, e la loro bambina.
Due strane alture a forma d’uovo, East Egg e West Egg, delimitano le sponde della baia, e Nick Carraway scopre che poco lontano, in una sontuosa villa, abita un personaggio ricchissimo e alquanto misterioso, di nome Jay Gatsby: vive da solo con la servitù, e ogni sabato organizza delle feste incredibili, frequentate dal bel mondo, e in pratica aperte a chiunque.

I due fanno amicizia, e così Nick viene a sapere che Gatsby si e stabilito a West Egg per un solo motivo, quello di rivedere Daisy, il suo grande amore di gioventù, perduta perché povero, e di riconquistarla in qualunque modo. Di notte Gatsby, dalla sponda della baia, guarda sempre la luce verde di un faro sull’altro lato, che segna esattamente il luogo della villa di Daisy. Egli è diventato ricchissimo con le illegalità offerte dal proibizionismo, ed ora cerca, quasi ingenuamente, di stupire lei con quelle feste colossali e con l’esibizione della sua ricchezza.
Ma ogni cosa, nel sogno di Gatsby, è destinata a disperdersi, compresa la sua stessa esistenza. Naturalmente frequenta Daisy, come buon amico di suo cugino Nick e vicino dei Buchanan: durante una gita in comitiva a New York, l’automobile di Gatsby investe e uccide una donna che, per fatalità, è proprio l’amante di Tom Buchanan e la moglie di un modesto meccanico della zona. Nessuno ha visto l’incidente, solo Gatsby, Tom e Daisy sanno che lei e non Gatsby era alla guida. E il giorno dopo, il, perfido Tom fa capire al disgraziato meccanico Wilson che il guidatore era proprio il signor Gatsby…
L’epilogo è tragico: pochi giorni dopo Wilson uccide Gatsby con un colpo di pistola, mentre è nella sua piscina, e poi si suicida. E i coniugi Buchanan, naturalmente, tacciono, nessuno saprà mai la verità.
Una vicenda truculenta e banale, dunque, nella quale amore, denaro, illusioni e sangue si sovrappongono a ritmo incalzante? Riferita cosi lo sembra veramente. Eppure si tratta d’uno dei capolavori della letteratura americana, e ancora oggi i due nomi dell’autore e del protagonista sembrano assolutamente inseparabili.
La spiegazione è semplice: questa è la storia di un grande sogno, e la sublimazione del tema che Fitzgerald ha inseguito in tutte le sue opere: la futilità della ricchezza e la sua capacità di distruggere ogni sentimento, ogni autentica felicità.
“Nonsi può ripetere il passato”, è la frase che Gatsby sta pensando poco prima che la morte improvvisa se lo porti via con le sue illusioni e il suo amore impossibile per une donna futile e mediocre che non meritava tanta ostinata dedizione, tante feste inutili, tanta vita sprecata.
La prosa delicata e quasi sognante di Fitzgerald tocca dei momenti indimenticabili: il solitario funerale con l’amico Nick, qualche raro passante, e uno strano individuo, già ospite dei ricevimenti ma del tutto sconosciuto, che mormora sottovoce “Non c’è nessuno, e solevano andarci a centinaia. Povero bastardo!”.

Nick Carraway partirà per tornarsene al suo Middle West, con tanto disgusto per quei personaggi, compresa la ricca cugina Daisy: se la immagina quasi sollevata, insieme al marito, per la scomparsa del ricco e ingombrante romantico…
Prima di partire, Nick volge ancora uno sguardo ai luoghi della tragedia. Pensa ancora al sogno di Gatsby, che gli fa rievocare quello dei marinai olandesi che erano venuti su quelle rive per fondare New York, ed è l’inizio del mirabile epilogo del romanzo:

“Pensai, mentre meditavo sull’antico mondo sconosciuto, allo stupore di Gatsby la prima volta che vide la luce verde all’estremità del molo di Daisy… Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi …. Cosi continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.”

Gianni Riotta, valido giornalista del “Corriere” , è andato nel recente 1996 a Long Island per rivedere quei luoghi, nel centenario della nascita dello scrittore. E ne fa una descrizione molto efficace, sospesa tra il fascino del passato e le poco, romantiche realtà d’oggi. “Se vi capiterà di atterrare all’aeroporto Kennedy, guardate dal cielo l’acqua azzurra delle mille piscine di Long Island. Una sorge forse sulle rovine di quella di Gatsby…”
Forse non c’è più nulla: sono passati settantacinque anni da quando Scott trasformava un’isola per ricchi in un mito.

“Tenera è la notte” e i ricchi sulla Riviera.

Fra “Il grande Gatsby” e il romanzo successivo passarono ben nove anni. “Gatsby” era stato pubblicato mentre Scott e Zelda erano in Europa, a Parigi e nel Sud della Francia, e avevano fatto anche un breve e deludente viaggio in Italia. L’instabilità psichica di lei si stava accentuando, sfociando poi nella mania di voler diventare, a ventotto anni, una ballerina classica.
Lui aveva potuto comunque pubblicare una serie di racconti,
“All the Sad Young Men” (Tutti i giovani tristi), che ne conteneva alcuni fra i suoi migliori, come “Sogni d’inverno” e “Il giovane ricco”, tutti sul tema consueto della giovinezza fugace e delusa.
Nel 1927 si reca per la prima volta a Hollywood per scrivere su ordinazione una sceneggiatura, che poi non verrà utilizzata , e conosce la giovane attrice Lois Moran, su cui si baserà uno dei personaggi di “Tenera è la notte”.
Gli anni successivi costituiscono un periodo molto dispersivo per i Fitzgerald, con viaggi dall’America all’ Europa e viceversa. Lui vuole dedicarsi assiduamente al suo romanzo, per il quale, prima della pubblicazione, erano state consumate migliaia di pagine e ben otto stesure provvisorie. 
Intanto le condizioni mentali di Zelda peggiorano, i due continuano a bere e a spendere eccessivamente, e lei viene ricoverata in una clinica svizzera. Dopo un temporaneo miglioramento e una ricaduta, altri due ricoveri a Baltimora , in America.
Intanto, nel 1931, Scott va una seconda volta a Hollywood, dove in tre mesi di permanenza scrive un’altra sceneggiatura, e ne riparleremo.
Lo stato mentale di Zelda va ancora peggiorando, il suo ricovero è ormai permanente, salvo brevi parentesi. E ne conseguono ancora delle serie difficoltà economiche.

Nel 1934 la casa Scribner’s con l’amico-editore Max Perkins pubblica la versione definitiva (per il momento) di “Tenera è la notte”. Ne uscirà ancora una nel 1948 dopo la morte di Scott.
Il titolo di questo quarto romanzo di Fitzgerald è preso da alcuni versi dell’ “Ode a un usignuolo” di Keats. È senz’altro la sua opera più ambiziosa e impegnata, e per di più composta, come abbiamo visto, fra continue difficoltà, ostacoli e ripensamenti.
L’apertura del racconto è su “un albergo rosa, grande e orgoglioso, sulla bella costa della Riviera francese, a metà strada fra Marsiglia e il confine italiano”.

Entra subito in scena la ragazza Rosemary, che il lettore scambia per la protagonista della storia, un’attricetta americana che fa conoscenza coi coniugi Dick e Nicole Diver, americani anche loro e residenti in una villa vicina. Proseguendo nel racconto, il lettore si rende conto che i protagonisti sono loro: Dick è un giovane psichiatra di grande talento che si è innamorato, sposandola, di una ricca paziente affetta da una malattia mentale conseguente a un grave trauma infantile del quale era responsabile il padre.
La vita tra feste e amici, che i due trascorrono in Riviera, e più che altro un tentativo per distrarre l’infelice Nicole, e l’incontro con Rosemary, attricetta con madre-vigile, e più che altro un diversivo, o se vogliamo, un alleggerimento nella gravosa vicenda. Nella quale il medico Diver si troverà sempre più coinvolto.
Ma “Tenera è la notte”, come del resto anche “Il grande Gatsby” è essenzialmente un romanzo d’amore. La banalità dell’assunto, il medico che s’innamora della paziente psicolabile, è sicuramente voluta, ed è soprattutto riscattata dalla sua progressione al negativo. Infatti, nella sua dedizione alla moglie come “missione” amorosa, ma anche professionale, il medico Dick Diver si avvia ad un inarrestabile declino man mano che Nicole acquista l’energia necessaria per fare a meno dell’aiuto del marito. Bisogna poi aggiungere che questa signora Nicole Warren in Diver è ricchissima ed ha un’arida sorella amministratrice del patrimonio di famiglia, la quale entra in scena dando sempre più a Dick la sensazione di essere stato comperato e usato per l’esclusivo benessere di Nicole.

Immagine articolo Fucine Mute

E, come sempre, è il disfacimento: lui rinuncia ad una promettente carriera in Svizzera, mentre assiste al progressivo distacco sentimentale di Nicole, fino all’inevitabile divorzio. E torna in America, come il buon Nick Carraway del “Gatsby” era tornato al suo Middle West dopo l’insulsa tragedia di Long Island.
E’ inevitabile (e ce ne scusiamo) una citazione finale anche questa volta: riguarda il testo di una lettera di Dick alla ex-moglie.

“Nell’ultima lettera che ricevette da lui, Dick le diceva che esercitava a Geneva, New York… Cercò Geneva sull’atlante… e pensò che doveva essere un luogo piacevole. La sua ultima missiva aveva il timbro di Hornell, N. Y. che è vicina a Geneva ed è una piccola cittadina… Egli è in ogni caso in quella zona degli Stati Uniti, in una città o in un’altra…”.

Pensiamo al finale del “Gatsby”, a quel “futuro orgiastico” mai raggiungibile, e al finale di questo successivo romanzo, col timbro postale d’una fantomatica “Hornell” dove abita un medico di paese, anche lui respinto nell’inseguire un sogno fuori dalla realtà.

La fine degli “anni ruggenti”, il declino e gli ultimi racconti

Abbiamo visto come “Tenera è la notte” fosse stato scritto e pubblicato in un periodo denso di problemi e di preoccupazioni per il suo autore. L’amico Max Perkins, capo-editore della casa Scribner’s, aveva preso l’abitudine di far pubblicare, subito dopo un romanzo di Fitzgerald, una serie di suoi racconti: e anche questa volta, malgrado tutto, Scott mantenne l’impegno. Anzi, consegnò a Perkins, fra i soliti racconti di medio valore (oggi si direbbe “alimentari”, buoni per far denaro) una raccolta col titolo “The Crack-Up” cioè l’incrinatura, ma anche “la crisi nervosa.”.
“The Crack-Up” è un importante documento personale di Fitzgerald, una specie di aperta confessione, in tre capitoli del suo declino analizzato con un distacco e uno stile di scrittura di insolita efficacia. Stranamente, questa documentazione fallimentare (che apparve su “Esquire” a puntate nel 1935) contribuì, per un po’ di tempo, a riaffermare il suo prestigio , proprio per la sua cruda e disarmante realtà.

Nel 1936 Zelda è ricoverata in una clinica in North Carolina, che sarà, salvo brevi intervalli, la sua dimora definitiva dopo la morte di Scott e fino alla sua tragica fine per un incendio dell’ospedale, nel 1948. Zelda, negli anni precedenti, aveva anche scritto un suo romanzo, “Save Me the Waltz” (Riservami il valzer), pubblicato nel 1932 e riscoperto soltanto molti anni dopo. Su quest’ opera per niente mediocre, aleggia l’ombra del suo grande compagno e della loro vita debole e folle, ma sempre fantastica.

Nella seconda metà degli anni Trenta, la popolarità di Fitzgerald è in crisi.. Qualche suo lettore distratto crede perfino che, dopo l’ultimo romanzo e i racconti, sia già morto. Il suo mondo, del resto, è stato spazzato via da tempo: la crisi mondiale del 1929 gli ha dato il primo grave colpo. Anche le vendite delle sue ultime opere sono calate paurosamente, e lo stesso “Tenera è la notte” non ha avuto molto successo: forse la gente non ne vuol più sapere di quei ricchi sulla Costa Azzurra, e legge i bestsellers di successo tipo “Anthony Adverse” o “Goodbye Mr. Chips”.
Anche la sua salute va peggiorando: fegato in fase cirrotica per l’alcool, polmoni con periodiche recidive tubercolari, oltre alla continua preoccupazione per Zelda in ospedale e per la figlia Scottie adolescente in collegio. E il bisogno assillante di denaro, per pagare i debiti agli editori che gli avevano fatto molti anticipi, fra quali l’editore Maxwell Perkins e il suo agente letterario Harold Ober.
L’ultima serie di suoi racconti era uscita quasi contemporaneamente a “The Crack-Up”, con il titolo di “Taps at Reveille” (La sveglia): conteneva alcune cose scritte negli anni precedenti e mai pubblicate, fra cui “Babilon Revisited”, che sarebbe poi stata il soggetto per un film del 1954, di cui dovremo riparlare.
Due racconti, fra gli ultimi scritti, meritano una citazione: il primo fa parte della raccolta detta “di Pat Hobby” , una serie di eventi dedicati ad un personaggio un po’ surreale, ex sceneggiatore di cinema e alcoolizzato, che si muove in mezzo agli insuccessi senza perdere fiducia e candore. L’altro scritto è una singolare novella, “Financing Finnegan” , dove questo tale da finanziare è una specie di auto-caricatura dello stesso Fitzgerald, uno scrittore che è la disperazione del suo editore e del suo agente letterario, che gli hanno da tempo anticipato molto denaro. I due si adoperano per esaltare le dubbie qualità dello scrittore davanti al pubblico, con lo scopo di recuperare almeno qualcosa dei propri soldi. È in pratica un affettuoso omaggio agli amici Perkins e Ober, che come abbiamo già detto, lo avevano sempre sostenuto finanziariamente, al massimo delle loro possibilità. Il racconto si chiude con la speranza che Finnegan riesca a combinare qualcosa almeno a Hollywood..

Hollywood, atto primo (in due tempi)

E’ da notare che “Pat Hobby” e “Finnegan” sono dei personaggi legati al mondo del cinema. E al cinema, Fitzgerald stava per dedicarsi completamente.
Hollywood poteva aiutarlo a risolvere i suoi problemi di denaro e quindi lo attraeva parecchio. Ma era un’attrazione mista a disprezzo: “Detesto quel posto con odio sincero” e ancora “Mai più avventure con il cinema” : sono affermazioni di Scott, la prima in una lettera, la seconda in un racconto. E possono ben rendere, in sintesi, il suo precedente risentimento sul mondo che stava di nuovo per affrontare.
Nel 1926 lui e Zelda erano tornati dalla Francia con un lungo viaggio, da Genova a New York: avevano lasciato la bella Costa Azzurra dei tempi d’oro. “Dio, quante cose ho mai imparato in questi due anni e mezzo d’Europa!” era stato il suo pensiero al rientro.
Erano in condizioni economiche molto incerte quando giunse inaspettato un telegramma della United Artists con la proposta di trasferirsi dieci settimane a Hollywood a scrivere una sceneggiatura per un film sulla vita universitaria, protagonista Constance Talmadge. Accettò senza esitare, anche perché la relativa offerta di dodicimila dollari era molto attraente.
Fu un autentico disastro. “Tutti avevano accolto l’autore di romanzi famosi con feste, ricevimenti e molto alcool. E il lavoro di sceneggiatura non andava avanti. Il soggetto era d’una mediocrità desolante (il titolo, “Lipstick” cioè rossetto, diceva già tutto). E per di più Scott riuscì anche a litigare con la Talmadge, sofisticata diva del cinema muto. Il soggetto venne ritirato, e le dieci settimane del contratto furono completamente sprecate.
Era il 1927: Fitzgerald si adattò a fare qualche guadagno di routine scrivendo racconti.

Il secondo viaggio in California è del 1931. Nei quattro anni intermedi, le cose continuavano a non andar molto bene, compreso lo stato di salute di Zelda. Un consulto specialistico in una clinica svizzera confermò la diagnosi di una grave forma di schizofrenia, proprio mentre il padre di lei era morente e le spese esorbitanti. Venne la fine dell’anno, e l’infaticabile agente Ober riuscì a stipulare a Hollywood un contratto ben retribuito.
Ma proprio in quel periodo si era affermato clamorosamente il cinema sonoro, e anche le sceneggiature richiedevano una tecnica diversa da quella dei film muti. Il film era “The Red Headed Woman”, e questa “Donna dai capelli rossi” non ebbe fortuna per nulla: era desunta da un romanzo alla moda per la potente M. G. M. Affiancarono a Scott un consulente indegno, che cambiava senza riguardi tutto ciò che lui scriveva. Tentò di parlare con Irving Thalberg, il direttore di produzione della Metro, ma non gli fu concesso.
Rimase a Hollywood qualche settimana, poi non ce la fece più, e anche questa volta se ne andò via deluso, malgrado qualche tardiva insistenza di chi lo aveva scritturato.
Questa seconda esperienza negativa gli ispirò il racconto “Folle domenica”, nel quale ammetteva, tacendone il nome, il suo risentimento verso Irving Thalberg. Ma Thalberg, ciò malgrado, sarebbe poi divenuto un singolare oggetto della sua ammirazione, al punto di suggerire a Fitzgerald la figura centrale del suo romanzo “The Last Tycoon”.

Il periodo successivo di tre o quattro anni fu ancora negativo. Lo stato mentale di Zelda continuava a declinare senza rimedio, malgrado le molte spese per la sua assistenza. La figlia Scottie cresceva, e lui non voleva che la ragazza fosse influenzata negativamente dalla tragedia materna e anche dai tristi esempi di sé che lui stesso offriva di frequente, ubriacandosi. Fu molto assistita da amici fedeli che la ospitarono sovente, e Scottie, giovanetta di grande carattere, ebbe qualche momento di affettuosa serenità anche verso il padre.

(fine prima parte)

Se la musica americana ha avuto in George Gershwin una delle sue figure più care e rappresentative, il posto che Francis Scott Fitzgerald occupa nella letteratura d’oltre oceano è di pari grandezza: uno scrittore di cui lo stile e l’originalità sono ancora riconosciuti in tutto il mondo.

Non è casuale l’accostamento di queste due grandi figure. Si tratta di due esistenze brevi e quasi contemporanee: due quarantenni che si spensero a pochi anni di distanza, per vie diverse e per circostanze molto dissimili.

Gershwin morì per una malattia fulminea, nel pieno di una splendida genialità operante e costruttiva. Fitzgerald dovette soccombere all’alcoolismo, stremato dalle disgrazie famigliari, e quasi dimenticato da tutti.

Ma il luogo nel quale trovarono conclusione queste due vicende terrene fu singolarmente lo stesso: nel 1937 per Gershwin, nel 1940 per Fitzgerald, la fine ebbe nome Hollywood.

Le melodie di Gershwin ci fluttuano attorno appena accenniamo qualche suo motivo, perché sono intramontabili. E per Fitzgerald, se pensiamo ai suoi romanzi o se riconosciamo la sua figura raffinata in qualche vecchia illustrazione, magari accanto alla sua Zelda, ci troviamo subito immersi in un mondo molto speciale: il mondo della sua leggenda.

BIBLIOGRAFIA E ICONOGRAFIA

(i titoli contrassegnati con recano anche fonti iconografiche)

VOLUMI:

Fernanda Pivano: Un dopoguerra e la sua leggenda. Prefazione al romanzo Di qua dal Paradiso. Mondadori, 1952

id. Mostri degli anni Venti. Ed. Il Formichiere, Milano, 1976

id. Amici scrittori, Mondadori, 1997

id. Prefazione a F. S. Fitzgerald, Romanzi. Mondadori, 1992

Sheilah Graham: Beloved Infidel, New York, Henry Holt, 1958

Arthur Mizener: F. S. Fitzgerald, a Collection of Critical Essays,
Prentice hall, Englewood, N. J., 1963

id. The Far Side of Paradise, Houghton Mifflin, Boston, 1951

id. Fitzgerald, Leonardo Editore, Milano, 1989

Malcolm Cowley: Premessa ai Ventotto Racconti di F. S. Fitzgerald.

Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1960

Ernest Hemingway: Festa Mobile . Mondadori Ed.. Milano, 1964

Piero Pignata: F. S. Fitzgerald. Borla Editore, Torino, 1967

Henry Dan Piper: Fitzgerald, a Critical Portrait. Trad. Ital. 1966,
Della Volpe Editore, Milano.

Andrew Trumbull: The Letters of F.S. Fitzgerald. Penguin Books LTD, Aylesbury, G.B., 1968

John Dos Passos: La Bella Vita. Palazzi Editore, Milano, 1969

Zelda Fitzgerald: Save Me The Waltz, il romanzo di Zelda. Rizzoli, Milano, 1965

Nancy Milford: Zelda. Bompiani, Milano, 1972

Kenneth Eble: F. S. Fitzgerald. La Nuova Italia, Firenze, 1972

Sergio Perosa: Introduzione a “I Taccuini di Fitzgerald” Einaudi, Milano, 1980

Edmund Wilson: Prefazione a “Gli ultimi Fuochi” di Fitzgerald. Mondadori, 1959

James R. Mellow: Cerchio Magico. Ed. Garzanti, Milano 1978

Budd Schulberg: I Disincantati. Einaudi, Milano, 1990

David Thompson: A Biographical Dictionary of the Cinema. Secker & Warburg,
London, 1975

Alfredo Rossi: Elia Kazan. La Nuova Italia, Firenze, 1977

Rudy Behlmer & Tony Thomas: Hollywood’s Hollywood. Citadel Press, 1975,
Secaucus, N.J.

Jean Loup Bourget: Le Mélodrame Hollywoodien: Ramsay, Paris 1985

Frank Thompson: Henry King Director, from Silents to Scope. Directors
Guild of America Publications, 1995

Achille Boroli: Il “Chi è” del cinema, vol. 2, Ist. De Agostini, 1984

F. S. Fitzgerald: The Last Tycoon. Bantam Books, N. York. 1976

QUOTIDIANI E RIVISTE: 

Eugenio Montale: Scott Fitzgerald campione della generazione perduta.
Corriere della Sera, 7 marzo 1951

Giorgio Signorini: Fitzgerald e il cinema. Cinema Nuovo, 103, 1957

Marisa Bulgheroni: Fitzgerald e il suo fantasma. Il Mondo, 9-8-1960

Fulco Pratesi: Con Fitzgerald fra la gente. Corriere Sera, Mi, 27-8-76

Giovanni Grazzini: Il lungo viaggio di Kazan nelle illusioni di
Hollywood. Corriere della Sera, 31-12-76

Enzo Golino: L’uomo dalla penna d’oro. La Repubblica, 31-12-82

Roberto Mussapi: Tenera è la morte. Il Giornale, 14-7-85

Fernanda Pivano: La storia italiana di Scott Fitzgerald. Corriere dela Sera, 27-5-1985

Giorgio Montefoschi: Le ferite dell’età del Jazz. Il Messaggero, 3-4-1990

Gianni Riotta: Ma il Grande Gatsby abita qui. Corriere della Sera, 16-9-1996

Domenico Tarizzo: Fitzgerald saggista . Cinema Nuovo,140, luglio 1959

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