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Scrittura

Francesco Carbone

Il privilegio di cercare Kant

Cercavamo Kant mancandolo. Come in fondo la vita tratta ogni creatura, lo cercavamo comicamente. Da cantanti, si può allora dire che il nostro ricercare si sia ritrovato ad essere molto simile a ciò che vuol dire musicalmente: la ripetizione di un punto di partenza a cui si ritorna sempre, per slanciarsi in progressive variazioni.

Francesco Carbone, I privilegi dell’ignoranza

Copertina I privilegi dell'ignoranzaIn principio erano cinque madrigalisti che si divertivano a parlare di Kant. Senza averla letta per intero, scrivevano le loro discussioni, serie e facete, sull’incomprensibile Critica della ragion pura su dei fogliettini di carta, che poi riponevano con cura all’interno di una vecchia scatolina di latta per biscotti. Questo avvenne finché, dell’“allegra brigata”, non ne rimase che un componente soltanto. Allora un giorno, quest’ultimo decise di scoperchiare la scatoletta e di mettere assieme quei vecchi discorsi fatti con i suoi compagni. Prende così vita I privilegi dell’ignoranza, un libro a più voci e a più storie il cui basso continuo è il pensatore di Königsberg.

Domenico Policarpo (DP): I privilegi dell’ignoranza intesse un dialogo, o meglio, come dice lei, “spettegola”, sulla Critica della ragion pura. Cosa l’ha spinta a intraprendere questa scalata del castello kantiano? Ma soprattutto, non ha mai pensato che l’impresa sarebbe potuta culminare in un pantagruelico “kanticidio”?

Francesco Carbone (FC): Credo che le idee vengano come racconta Jennifer Jones nel suo film per me più bello: Fra le tue braccia, l’ultimo capolavoro di Ernst Lubitsch: hai una sterlina, un po’ di tempo libero, perché non andare a farsi servire e riverire al Ritz ordinando una semplice tazza di tè? “È così che mi vengono le idee”, dice lei… Speriamo che non solo le bellissime donne abbiano diritto a concedersi a queste gratuità. A pensarci, l’idea del proletario che va a fare per una mezzoretta il signore con la sua unica sterlina nel locale più aristocratico della città, corrisponde non poco alla mia idea di autore. O almeno all’idea di autore letterario che sento possibile per me.

Quanto all’inizio dei Privilegi, ricordo che scrissi senza alcuna pretesa un paio di pagine sul senso di inferiorità che mi dava la Critica della ragion pura: immagino per sfogo e per esorcismo. Poi è stato come tirare un filo. Giorgio Manganelli dice – forse pensando all’Isola del tesoro – che i progetti per essere vitali devono essere abbastanza vaghi da essere seduttivi e da illuderci di essere alla nostra portata. Scrivere in ogni caso è non sapere quello che si sta facendo: come si sa, la condizione perfetta secondo i cristiani per essere perdonati. Anche se essere perdonato è la cosa peggiore che a uno scrittore possa capitare.

In ogni caso, con tutti i dubbi che sempre avrò su quanto possa aver scritto, non credo che ne sia sortito un kanticidio: delitto al di là delle mie forze e delle mie, per quanto deliranti, intenzioni. Anche se credo che tutte le intenzioni di un autore siano un delirio, la cui calma è l’opera, la quale non è mai quello che un autore avrebbe voluto che fosse, la mia idea era di scrivere qualcosa di comico. Diciamo, e questo potrebbe essere almeno per me davvero il cuore di quanto ho fatto, che l’esercizio che ho cercato di compiere è una prova di quello che Dante chiama, nel primo canto dell’Inferno a proposito del suo amore per l’Eneide di Virgilio, “cercare”: non conosco parola più perfetta di questa per dire il necessario indugiare in un libro, come in qualunque altra opera d’arte, che sentiamo non ci abbandonerà mai più, tanto necessario è alla nostra vita. I privilegi dell’ignoranza vorrebbero essere la messa in scena del “cercare” di cinque lettori alquanto particolari – sono musicisti, l’arte di cui Kant non ha mai capito un’acca – nel corpaccione senza fine del suo libro più geniale, arduo e necessario.

DP: Un’operazione simile a quel “cercare” effettuato da Prokof’ev nelle Cose in sé, anch’egli accompagnato nel suo peregrinare dal pensatore di Königsberg.

Prokof'evFC: Lei sa, avendo avuto la pazienza di leggere il libro, quanto siano per me importanti quei due pezzi pressoché sconosciuti di Prokof’ev. Prokof’ev fu un devoto lettore di Kant, e a un certo punto osò, con una nonchalance da genio in vacanza, di far dire al suo pianoforte quello che per Kant era invece per sua essenza indicibile: il mistero stesso delle cose! Credo che l’impopolarità dei due brani di Prokof’ev sia la prova della loro perfezione, perché non vedo come li si potrebbe almeno un po’ intuire se non dopo aver letto Kant. Ma la tribù degli ascoltatori di Prokof’ev e quella dei lettori di Kant di solito comunicano molto poco… Così, senza Kant, i due pezzi delle Cose in sé non possono che essere completamente stracapiti, riducendoli nel giochetto di un compositore russo che, trovandosi in quel momento vicino Parigi, prova a scrivere musica impressionista alla Debussy.

Tornando al libro, per i miei cinque musicisti dilettanti di filosofia, l’enigma – il noumeno direbbe Kant – è evidentemente Kant stesso. E loro accettano festosamente di non poter essere più che farfalline che orbitano ammaliate attorno alla sua luce accecante, e magari ustionante se troppo da vicino percorsa. Stanno attorno al librone di Kant come, nel Castello di Kafka, gli abitanti del villaggio sottostante vivono all’ombra del cupo maniero. Ecco, io credo che questa inquieta vitale perifericità sia sempre propria del leggere; e mi viene in mente una cosa bellissima che ha scritto il regista Ingmar Bergman nella sua autobiografia, Lanterna magica, a proposito del Re Lear che per l’ennesima volta stava per mettere in scena. Ascolti perché è bellissimo:

Re Lear è un continente. Noi allestiamo spedizioni che con maggiore o minore abilità e successo tracciano sulla carta qualche landa, un fiume, spiagge, un monte, boschi. Tutti i paesi del mondo organizzano spedizioni, a volte ci incontriamo nelle nostre peregrinazioni e constatiamo rassegnati che quel che ieri era un mare mediterraneo oggi si è trasformato in una montagna. Disegniamo le nostre carte, commentiamo e descriviamo, niente corrisponde al vero. […] La nostra azione non deve nemmeno essere appesantita dalla malinconia. Dev’essere rapida, rivolta all’esterno, comprensibile. Non abbiamo esperienza, tradizione, solo una cattiva istruzione. Può il piacere sostituire la tecnica? O soccomberemo nella palude formata dalla massa delle parole?”

Ecco: come saperlo, se siamo approdati o abbiamo naufragato? Ed è poi così importante? Forse possiamo solo e sempre navigare. E mi viene in mente la frase fondamentale dell’Isola del tesoro: “Prua verso il mare! Al diavolo il tesoro!”, perché è certo che si mancherà del tutto o in gran parte il segreto di una cosa bella che ci ha stregato, come si mancherà il cuore di noi stessi, ma l’avventura di questo mancarsi potrebbe essere molto divertente, più vitale e allegra di qualunque “tesoro” donchisciottescamente immaginato.

Kant

DP: Petrarca aveva una libreria di trecento volumi ed era l’uomo più colto del tempo; Flaubert per La tentazione di Sant’Antonio, come osservava Foucault, divorò biblioteche intere. Lei, per redigere il suo libello fitto di novelle e citazioni, a quanti libri ha fatto affidamento? E se l’ascendente di un testo come Bouvard e Pécuchet è indubbia – “È il nostro libro!” -, quali altri crede la abbiano influenzata maggiormente?

FC: Credo di possedere più o meno venti volte i libri che aveva Petrarca e di essere duecento volte più ignorante di lui. Come vede, continuo a sopravvalutarmi. Tutte le volte che scrivo, che sia un libro o un numero del compagno segreto  a un certo punto sento la biblioteca che si mette a fibrillare e si curva verso la pagina che sto scrivendo: ha presente il coro dei morti di Ruysch di Leopardi? O il sabba nel Maestro e Margherita di Bulgakov?… qualcosa del genere. Perché, se non lo fosse stato fino ad adesso, mi pare che sia chiaro che anche per me, quando si scrive, è la Letteratura stessa che scrive se stessa. Poi il “medium” può essere più o meno privilegiato dalle Muse. In ogni caso non è la “vita” che possa sperare di trovare direttamente specchi, se non per le allodole, nella scrittura. Lo disse una volta per tutte Oscar Wilde: è la vita che imita l’arte, mai viceversa.

Detto questo, da un punto di vista più tecnico, per me sono state certo importanti le pagine di Milan Kundera sul rapporto tra musica e letteratura: è sua l’idea di una scrittura fatta di controcanti tra linee narrative parallele, collegate non, come nel montaggio incrociato del cinema – perché prima o poi convergono in un’unica storia -, ma perché si corrispondono tematicamente e musicalmente. Un esempio già sublime è naturalmente quello che possiamo trovare in Anna Karenina di Tolstoj, dove le storie di Anna e di Levin hanno lo stesso identico peso e valore. Tutti ricordano la povera Anna che si getta sotto al treno, ma dovrebbero ricordare altrettanto Levin che taglia il grano e sente così tutto il bene della vita, della vita così com’è.

Un altro libro che avrà constatato quanto sia da me amato incondizionatamente è il Tristram Shandy di Sterne, il primo e più grande autorizzatore al “caos”, alla divagazione, al perdere e ritrovare continuamente il filo, di tutta la letteratura mondiale. Tristram Shandy, Bouvard e Pécuchet, e lo stesso Kundera, sono poi rami di quel tronco essenziale della cultura occidentale che è il Don Chisciotte, il vero padre di tutti noi cantastorie, per quanto possibile, non ingenui.

DP: Nonostante Kant fosse tutt’altro che un musicofilo, proprio la musica occupa una parte molto importante nei Privilegi. Penso al susseguirsi delle voci, alla strutturazione “polifonica” del testo stesso; oppure, penso al capitolo in cui Haydn e Mozart si parlano a suon di note in un dialogo che potevano capire solo loro.

FC: Mi permetto di dire che ho messo il musicofobo Kant a bagnomaria nella musica. Il che può anche essere intesa come una vendetta dei cinque musicisti che, non particolarmente abili a digerire la Critica della ragion pura, si portano Kant sul terreno a loro più congeniale. E così lo dileggiano un po’, come se gli dicessero: guarda quante meraviglie accadevano nel tuo tempo, mentre tu scrivevi che la musica è quell’arte inurbana che, quando si suona, si è costretti ad ascoltare perché pervade tutta l’aria! E così raccontano dell’Idomeneo, dei quartetti di Mozart e Haydn, della Gran Partita e di tante altre cose coeve al capolavoro di quell’irrecuperabile sordo.

Credo che, anche per questo, tutto sia partito da una figura che non posso non trovare comica: il devoto e lento studente che si dedica a cercar di masticare – come direbbe Dante che amava per la cultura le metafore culinarie – il duro pane angelico della sapienza di Kant. Questo sfasamento, tra quello che si vorrebbe capire e quello che si capisce in realtà, la goffaggine che tutti abbiamo provato quando abbiamo cominciato a studiare qualche argomento arduo, è stata l’origine… Allora, per contrappasso (potrebbe essere questo il simulacro di “kanticidio” di cui mi ha scherzosamente accusato) perché non mettere Kant in una situazione di analogo imbarazzo?

Copertina Critica della ragion pura

Ma questo non è che la superficie, che potrebbe apparire anche molto fatua e gratuita, del mio libro. In realtà le cose sono pure peggio, perché questo è il testo di uno che non crede all’esistenza del Tempo. Del Tempo come qualcosa di irrimediabile, come scrive Leopardi nello Zibaldone: il famoso fluire del fiume che non avrà mai le stesse acque, per me è un lago in cui tutto torna. Sono consapevole che una delle difficoltà di chi volesse passare un po’ del suo eterno tempo a leggere I privilegi è che nelle sue pagine si va dal passato al presente e dal presente al passato con assoluta indifferenziata libertà.

Nella fisica quantistica delle microparticelle queste cose sono ormai date per ovvie. Della matematica della fisica quantistica non sarei in grado di leggere neppure la prima addizione, ma i suoi paradossi mi sembrano perfino evidenti anche per noi che forse tanto microparticelle non siamo.

Tornando a lande disciplinari meno ostiche per la mia ignoranza, una radiazione di fondo costante di quanto si può leggere nei Privilegi, è il fenomenale ultimo testo di Walter Benjamin, le Tesi sulla storia. Qui il passato è rivelato come la grande catastrofica raccolta degli eventi, ognuno dei quali imbozzolato in un suo guscio solo apparentemente molto remoto, in realtà pronto a riesplodere come uno sciame di farfalle messianiche e apocalittiche nel futuro che da sempre le attende. Secondo questa visione, il passato – ogni passato – è un futuro per ora mancato, la cui latenza non è detto sia quella di una bella addormentata destinata a non svegliarsi mai più.

Per dirla con un esempio: quando accade Mozart? Quando, intorno al 1780, cortigianescamente suonava per un minimo pubblico di aristocratici distratti, o adesso, da questo lettore di CD, nel silenzio accogliente e incantato di questa stanza, ben più docile ad accogliere tanta preveggente bellezza?

DP: Tra le pagine dei Privilegi dell’ignoranza lei s’immagina una sorta di relazione epistolare (pericolosa?) tra la Marchesa di Merteuil e il professor Immanuel Kant. Conoscendo i temperamenti dei due personaggi in questione, non trova che l’operazione effettuata sia alquanto “immorale”?

FC: Me lo auguro. Kant, come si sa, era molto più casto d’un prete. Forse addirittura vergine. Non lo invidieremo per questo. Al contrario, la Marchesa di Merteuil, protagonista con Valmont delle Relazioni pericolose (romanzo perfettamente coevo alla Critica della ragion pura), era una libertina senza pentimenti, quindi perfetta. Credo che per le dodici lettere che ho fatto scrivere dalla Marchesa a Kant, valga lo stesso discorso appena fatto per la musica. Immagino che sarebbe poi molto facile trovare legami profondi tra Musica e Femminilità, e quindi un senso più segreto sui due temi di maggior disagio per il genio immortale della Filosofia Critica, come la si chiama ancora.

DP: La legge morale kantiana si mostra spesso come un gesto costrittivo, non sempre piacevole da eseguirsi, sotto il giogo della ragione. Lei invece, attraverso il cinema, ci descrive la possibilità del bene in grado di disvelarsi attraverso l’inconsapevolezza e la leggerezza dell’atto stesso.

FC: Kant, questo possiamo dirlo perché lo hanno detto tanti dei suoi interpreti autorevoli, non è mai stato un buon piazzista di se stesso. Anche sulla sua legge morale è arrivato a dire delle cose da spavento: la più famosa è che non si dovrebbe mentire neppure agli assassini che ci chiedono dov’è nostro figlio per scannarlo. Allo stesso tempo, è davvero sublime questa legge morale che sentiamo nel cuore come il cielo stellato che vediamo sovrastarci, quando abbiamo il coraggio di una sana passeggiata notturna.

Una scena del film Luci della città

Così ho pensato che occorreva qualche caso concreto che desse esempio della sua legge morale, la quale comanda in silenzio, caso per caso, facendosi sentire infallibilmente quando stiamo commettendo il male e quando invece siamo onesti. Ho scelto allora i protagonisti di tre film tra i miei preferiti: Fra le tue braccia, Luci della città e Mezzogiorno di fuoco. In questo non ho fatto che copiare il nostro padre Dante, che certe cose le sapeva benissimo. Nel Paradiso le fa dire chiaramente al suo avo Cacciaguida: ti abbiamo fatto vedere, nella pletora dei morti, un sacco di gente famosa perché quella può dare gli exempla che la gente capisce.

Francesco Carbone è nato a Roma nel 1958, vive a Trieste. Ha pubblicato il saggio Da Hitler a Casablanca (via Hollywood). Cineasti ebrei in fuga dal nazismo (Eut, Trieste 2011). Ha scritto testi per il teatro: …procederò per un altro poco…, 1996, da una novella di Svevo, collaborando alla messa in scena; Pinocchio e basta!, 1999, curando anche la regia; Marco Polo va in Oriente, 2005, curando anche la regia. Nel frattempo realizza cortometraggi e spot, selezionati e premiati in rassegne nazionali e internazionali e trasmessi da diverse tv, e presenta, per la Provincia e l’Università di Trieste, alcune rassegne cinematografiche dedicate alla Hollywood degli anni d’oro. Nel 2000 entra a far parte della redazione di Pickwick, allora la più importante rivista di recensioni librarie on-line. Nel 2002 fonda e da allora dirige la rivista on-line di letteratura e arte Il compagno segreto, riconosciuta nel 2003 come ‘Sito Eccellente’ dalla giuria dell’Italian Web Award.

I cenni biografici sono tratti dalla casa editrice et al.

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