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Omnia

Postmoderno? Postcoloniale?

La grande narrativa

La critica (sia occidentale, sia dei paesi del Terzo Mondo ex-coloniali), negli ultimi tempi si è molto spesso interrogata sul fatto se esista una differenza tra il Postmoderno e il Postcoloniale e in che cosa consista tale differenza. Mentre i critici occidentali tendono quasi a sovrapporre i due termini, soprattutto quando fa loro comodo (ovvero quando appare nell’ambito delle ex colonie un personaggio, il più delle volte in campo letterario, di un certo spicco, tendendo da subito a fagocitarlo e a ridurlo alla categoria del Postmoderno), i critici e i teorici del Commonwealth o delle ex-colonie, anche non di lingua inglese, sono invece ferrei nel separare le due categorie, affermando che il termine “postcoloniale” va interpretato in un’accezione completamente diversa da quella che noi tenderemmo a dargli a livello superficiale: il “post” di “postcoloniale” non va inteso nel senso di una successione cronologica, bensì quasi come un sinonimo di “anti”, una reazione a tutto quello che era “coloniale”. Conseguentemente, se è vero, come affermano i critici occidentali, che i grandi imperi coloniali oramai non esistono più e che quindi la nostra società è tanto postmoderna quanto postcoloniale, è ancora più vero, dicono i teorici del Postcoloniale che, se non esistono più i grandi imperi coloniali, esiste perlomeno una forma di neocolonialismo estremamente esplicita che può essere rintracciata, per esempio, nell’imperialismo nordamericano. Quindi, questi scrittori e teorici Postcoloniali, che leggono “post” come un sinonimo di “anti”, di opposizione, naturalmente non vogliono avere niente a che fare con produzioni che vengano dal mondo neocoloniale, da questo mondo di colonialismo neppure tanto implicito (almeno a livello commerciale e soprattutto a livello economico).

Ci sono delle differenze tra il Postmoderno e il Postcoloniale che appaiono abbastanza rilevanti se al campo letterario, e in particolare alla narrativa, si vuole fare riferimento. Quello che è interessante è che ho trovato, per puro caso direi, queste differenze esposte in maniera esplicita — e qui torno al discorso da cui sono partita — in un progetto musicale che David Byrne mise a punto all’inizio degli anni Ottanta insieme ad un altro famoso musicista e produttore musicale inglese, Brian Eno. I due avevano letto e amato un libro di uno scrittore nigeriano, Amos Tutuola, trovato casualmente su una bancarella a New York. Il libro s’intitola “La mia vita nel bosco degli spiriti” (“My Life in the Bush of Ghosts”), ed è la storia di un ragazzino di sei anni, che nell’Africa Nera si perde in un bosco che altro non è se non l’Aldilà. Per vent’anni vive in quest’Oltretomba, in mezzo ai fantasmi e non riesce a tornare a casa se non dopo — appunto — due decenni. Quello che colpisce maggiormente nel libro di Tutuola è che i fantasmi che circondano questo bambino, che in teoria è l’unico personaggio vivente in questo mondo di defunti, sono estremamente carnali; hanno una fisicità esorbitante e compiono anche le azioni di una normale esistenza quotidiana di persone vive. Altra cosa che stupisce in questo romanzo è come la narrazione, anche se centrata attorno a questo bambino che nel frattempo cresce, non sia una narrazione individuale, benché in prima persona, ma sia una narrazione collettiva. In qualche modo è come se tutti gli spiriti che appaiono e che popolano questo mondo e che sono tanti, raccontassero le loro storie: è una narrazione corale che segue anche ritmi narrativi orali, nel tentativo di riprodurre i riti e le mitologie della tribù Yoruba a cui Tutuola appartiene. Tutto questo è intriso di un’atmosfera magica fortissima, d’una magia che esiste, che permea la vita d’ogni giorno e che, si capisce, proviene da una cultura dove il soprannaturale ha ancora cittadinanza.
Quando Byrne e Eno decidono di trasporre in musica questo romanzo compiono un’operazione molto particolare, perché sostituiscono al bosco africano degli spiriti la tipica metropoli nordamericana. In altre parole, decidono di omologare il bosco dei fantasmi alla realtà metropolitana di fine millennio, americana e contemporanea, e di sostituire gli elementi tribali con una musica fortemente tecnologica, che dà luogo a intelaiature di ritmi e di poliritmi che si susseguono, che s’intrecciano, si moltiplicano. In queste intelaiature cantano, esistono, vivono delle voci che i due musicisti definiscono voci “trovate”, perché appaiono dal nulla e risultano fantasmatiche, autentici spiriti della realtà contemporanea.

È interessante notare come queste voci disincarnate conferiscano una sfumatura allucinata alla realtà multimediale. Ci sono, per esempio, le voci di sacerdoti musulmani che cantano il Corano, di preti evangelisti americani, d’una cantante libanese che dall’alto di una montagna chiama il popolo alla preghiera, quella d’una cantante pop egiziana che intona canzoncine commerciali… tutte mescolate assieme in uno straordinario cross-over; per finire, ci sono anche politici che litigano in un talk-show radiofonico. Tutte queste voci servono a dare l’idea di un mondo dove oramai l’individuo è completamente privato d’un corpo, dove veramente l’individuo è diventato il fantasma di se stesso. Percepiamo, anzi udiamo, il passaggio dal fantasma fisico di Tutuola alla fantasmatizzazione della realtà nel suo complesso; l’idea che si ha alla fine è veramente quella di una realtà totalmente disincarnata, che sarebbe, secondo i due musicisti, la realtà nordamericana. Credo che questo sia fondamentale per capire la differenza tra Coloniale e Postcoloniale: tenere a mente questi due diversi boschi di spiriti, quello fisico, carnale, corporeo dell’africano, e quello completamente disincarnato, fatto solo delle strane voci registrate dagli anglosassoni. Da qui, possiamo procedere a smantellare le categorie e le assunzioni secondo le quali la critica occidentale ha voluto, a più riprese, identificare il Postmoderno con il Postcoloniale.

Io non sono una teorica, perciò non lavorerò sulla teoria del Postmoderno e del Postcoloniale, ma cercherò di portare avanti il mio discorso attraverso degli esempi.

Per quanto attiene la letteratura, molti critici occidentali sostengono che il Postcoloniale altro non è che una branca del Postmoderno, e lo fanno appoggiandosi su tre somiglianze tra le due categorie: la prima è l’attenzione alla metanarrativa, cioè alla pratica del raccontare storie che parlano di scrittori, che riflettono sull’atto della scrittura; la seconda è la revisione della storia, ovvero la storia scritta dalla parte di chi la subisce, o meglio, dalla parte di chi normalmente non viene citato nei libri degli storici (ovvero, i vinti, i popoli delle ex-colonie, i proletari, il Terzo Mondo, le donne, i diversi ecc.); da ultima, la riscrittura di opere famose del canone occidentale. Queste sono caratteristiche che appaiono sia nei romanzi postmoderni che nei romanzi postcoloniali. Pertanto, se per ognuna di queste caratteristiche fondamentali confrontiamo un romanzo postmoderno e un romanzo postcoloniale che ne facciano uso, ci rendiamo conto di quale sia la differenza tra le due categorie. Sia nei romanzi postcoloniali sia in quelli postmoderni, per esempio, c’è tutto un fiorire di storie che hanno alla base l’espediente di quella che Stephen King ha definito la “sindrome di Sherazade”: c’è un narratore che scrive in lotta con la morte, e sa che, finché racconta storie, ha salva la vita, ma che sa anche che appena smetterà di raccontare morirà, perché la Morte — lo sappiamo — è paziente e aspetta il suo momento; oppure c’è, viceversa, un narratore che sa che sta per morire e che quindi deve raccontare in fretta, sempre più in fretta (come il dottor Jekyll nella lettera finale del romanzo di Stevenson) perché c’è il rischio che non riesca a completare la sua storia. Fondamentale, quindi, è il tema della lotta contro il tempo.

Questo espediente è molto interessante perché rende ragione di quello che secondo Benjamin è lo status della narrazione: il narratore e quello che narra acquistano autorità soltanto nella presenza della morte; è la morte, cioè, che conferisce autorità alla narrazione. Tanto certa narrativa postmoderna che certa narrativa postcoloniale di questo sono perfettamente convinte. Nella narrativa postmoderna gli esempi si sprecano. A cominciare dal Postmoderno degli esordi americani degli anni Sessanta (Barth, Barthelme, ecc.) si incontrano sempre più scrittori che riflettono su se stessi e sulla propria scrittura. Gli esempi più tipici che mi vengono in mente sono quelli di due trilogie vicinissime a noi nel tempo, che sono la “trilogia dello scrittore” di Stephen King e la “Trilogia di New York” di Auster. Mentre la “Trilogia di New York” si può trovare in libreria sotto questo titolo, la “trilogia dello scrittore” comprende due romanzi e un racconto lungo di King che sono usciti in varie epoche della sua produzione e non sono mai stati raccolti in un unico volume: si tratta dei romanzi “Misery” e “La Metà Oscura” e del racconto lungo “Finestra segreta, giardino segreto”. Sia nelle opere di Auster, autore raffinato e che tale è considerato dai critici, sia nella trilogia di King che, al contrario, non è certo uno scrittore particolarmente apprezzato dalla critica, pur essendo, invece, amatissimo dal pubblico — lo scrittore appare come un fantasma, un uomo che non ha vita propria, ma vive in funzione dei suoi personaggi, delegando loro la propria esistenza. Entrambi gli autori descrivono lo scrittore come un solitario, che vive recluso anche nel cuore della metropoli, senza avere una propria identità. Paul Auster lo mostra apertamente nel secondo dei romanzi della “Trilogia di New York” che, guarda caso, s’intitola “Ghosts”, fantasmi, ma è in Stephen King che troviamo la teorizzazione del fatto che lo scrittore non vive in prima persona, ma guarda vivere gli altri. Nell’Introduzione al racconto “Finestra segreta, giardino segreto” [reperibile nella raccolta “Quattro dopo mezzanotte”] King afferma che la cosa più bella, per uno scrittore, è avere una finestra segreta da cui guardare il mondo, guardare gli altri che vivono. Chi legge “Ghosts” di Paul Auster trova l”elevazione al quadrato” di questa idea: qui il protagonista scrive una relazione per un detective mentre è osservato a sua volta da un altro individuo che, da una finestra in un condominio di fronte al suo, sta scrivendo un’altra relazione: è un gioco di scatole cinesi tra personaggi che si guardano l’un l’altro nell’atto scrivere. Nessuno di loro vive, perché anche quando escono all’aperto tutto quello che fanno è cercare di ripercorrere i passi dei fantasmi dei grandi scrittori morti che hanno vissuto in quella città e che li hanno preceduti. Questa idea di legarsi a una comunità di fantasmi, morti e vivi, scrittori che ci sono stati e scrittori che ci sono, ma che non vivono realmente, si collega al significato ultimo che di questo tipo di narrazione dà lo scrittore postmoderno: quello, cioè, di dimostrare che ogni scrittura è un’illusione, che quello che si scrive non corrisponde mai a ciò si vive perché, comunque sia, la scrittura è fortemente illusoria, è un artefatto. Dice Paul Auster: “Noi immaginiamo la vera storia oltre la favola, e per farlo ci sostituiamo al personaggio della storia, fingiamo di capirlo perché capiamo noi stessi. Ma è un inganno. Noi esistiamo per noi stessi, forse, e a volte possiamo percepire un bagliore di chi siamo, ma alla fine non ne siamo mai sicuri, e con il trascorrere delle nostre vite, diveniamo sempre più opachi a noi stessi, sempre più consci della nostra incoerenza. Nessuno può attraversare il confine che lo separa da un altro, per la semplice ragione che nessuno può accedere a se stesso.” [P. Auster, “The Locked Room”, “New York Trilogy”, London: Penguin, 1990, p. 292. Traduzione mia]. Questo porta anche ad un’altra considerazione che troviamo proprio in apertura di pagina, nelle prime righe del primo libro della “Trilogia di New York” di Paul Auster: “Niente era reale tranne il caso”. È il trionfo della casualità:al mondo non c’è più niente che funzioni per nessi logici; le cose, la vita vanno avanti per caso. Al tempo stesso però, perché il lettore sia stimolato a credere a quello che legge, le storie vengono scritte in maniera fortemente mimetica. è l’espediente che si usa di solito nel fantastico: più la storia che si racconta è fantastica, più dobbiamo raccontarla in maniera realistica, fortemente mimetica, affinché risulti totalmente credibile per il pubblico di lettori.

“Misery” di Stephen King, da cui è stato tratto anche un film di successo, è la storia di uno scrittore che viene sequestrato da quella che si autodefinisce “la sua lettrice numero uno”, una pazza che lo tiene prigioniero e lo tortura per costringerlo a resuscitare in un nuovo romanzo un’eroina a lei cara, da lui già eliminata in un’opera precedente. “Misery” si può anche leggere come un giallo da camera, alla Agatha Christie: il lettore deve essere convinto che una storia così raccapricciante possa accadere veramente. Solo in questo modo arriverà a esperire, alla fine, una catarsi purificatrice. Possiamo notare, per concludere su questo punto, che in tutte queste opere (tanto quelle di Auster quanto quelle di King, Barth, Barthelme ecc.) l’accento è posto sulla scrittura e sul personaggio che scrive. In “Misery”, per esempio, Paul Sheldon scrive per salvarsi la vita. Gli scrittori di Paul Auster scrivono per sopravvivere alla metropoli. È sempre un atto individuale, la scrittura; direi quasi egoistico, che va a vantaggio di un singolo.

Se ora prendiamo un libro che si fondi sullo stesso espediente, scritto da un autore postcoloniale, vediamo che le cose cambiano. Il libro per eccellenza da esaminare è quello che ha segnato il boom della letteratura postcoloniale in occidente, quello che ha aperto la strada a tutti gli autori postcoloniali dagli anni Ottanta in poi e che ha fatto conoscere e capire in Europa e in America che si scriveva, e si scriveva bene, anche in società fino a quel momento letterariamente poco considerate. Sto parlando de “I figli della mezzanotte” (“Midnight’s Children”) di Salman Rushdie, che esce nel 1981. In questo romanzo è rintracciabile il disegno d’un’epopea, l’epopea dell’India dall’inizio di questo secolo fino alla metà degli anni Settanta (all’emergenza d’Indira Gandhi), narrata da un personaggio che, essendo nato allo scoccare della mezzanotte del 15 agosto del 1947, il momento in cui l’India diventa indipendente, si ritiene in qualche modo “ammanettato alla storia”; ritiene, cioè, che la storia dell’India in qualche modo accada a causa sua. Questo personaggio, per narrare la storia dell’India indipendente, comincia addirittura dai suoi nonni, quindi dall’inizio del secolo: racconta mille storie all’interno della stessa storia, vincolando ai piccoli accadimenti personali e familiari i fatti d’una nazione. All’inizio della sua narrazione, si rivolge con queste parole ai lettori:”… ci sono tante storie da raccontare, troppe, un tale eccesso di linee eventi miracoli luoghi chiacchiere intrecciati, una così fitta mescolanza d’improbabile e mondano! Sono stato un inghiottitore di vite; e per conoscermi dovrete anche voi inghiottire tutto quanto.” [S. Rushdie, “I figli della mezzanotte, Milano: CDE, 1984, p. 11 — trad. E. Capriolo].

Questa parola, “inghiottire”, è molto importante, perché è molto “carnale”, evoca un atto fisico, corporeo: siamo di fronte all’esatto opposto dello scrittore fantasma di cui si parlava prima. Non basta: la narrazione è fortemente collettiva, le storie sono storie narrate da tante persone, dove non c’è più un singolo che scrive stando al di qua da una finestra. C’è un narratore che racconta i fatti di centinaia di persone che sono tutte sullo stesso livello di importanza e che si ritiene responsabile persino dei grandi fatti storici, come la spartizione dell’India e del Pakistan, o le guerre di religione. Per qualche motivo contingente, solitamente piuttosto banale, pensa che di essere stato proprio lui a causare questi grossi eventi. Ovviamente, per giustificare la sua funzione di catalizzatore degli avvenimenti storici di un intero subcontinente, deve usare la fantasia; quindi, laddove nel Postmoderno la fantasia serviva addirittura a smascherare l’illusione narrativa, qui sembra esser diventata fortemente normativa. Potremmo aggiungere che se nel Postmoderno niente era reale tranne il caso, qui niente accade per caso; là avevamo una narrazione mimetica, qui c’è un rifiuto assoluto della mimesi, bensì diventa palpabile l’uso sfrenato della fantasia, dell’immaginazione, della magia. Inoltre c’è un narratore che è del tutto inaffidabile: non ricorda, omette, sbaglia le date storiche, cambia gli avvenimenti come gli pare, racconta le cose a modo suo e pretende di essere creduto anche se poi, oggettivamente, si può dimostrare che sta sbagliando. Tutto questo porta non alla tipica catarsi finale, ma alla richiesta di una presa di posizione da parte di un lettore che ha molti punti in comune con lo spettatore del teatro brechtiano. Del resto, si può notare che questo genere di narrativa postcoloniale è molto simile al teatro epico brechtiano, richiedendo lo stesso straniamento da parte del personaggio e, soprattutto, del fruitore, pretendendo la stessa presa di posizione in senso ideologico ed essendo, come quel teatro, fortemente connotato dal punto di vista della coralità e dialetticità. Se gli scrittori del Postmoderno scrivono per salvarsi la vita, scrivono per salvare se stessi, Saleem Sinai — il narratore di Rushdie — scrive per salvare l’India; il che non solo è sufficiente per darci l’idea di una narrativa che tutto sembra fuorché individualista, ma ci porta anche di filato al secondo punto di forte convergenza/divergenza del Postmoderno con il Postcoloniale: quello della riscrittura della storia. C’è un critico molto quotato nel mondo nordamericano, la canadese Linda Hutcheon, che ha fondato la sua fortuna (è citatissima sia nel mondo inglese, sia in quello canadese) sull’etichetta che ha inventato per definire le riscritture della storia “postmoderne” e “postcoloniali”:”Historiographic metafiction”, che si potrebbe tradurre come “metanarrativa storiografica”. Coniando questa etichetta, la Hutcheon pensa di essere riuscita a creare un contenitore categoriale polivalente, e difatti cita, a sostegno delle proprie considerazioni, tanto autori statunitensi come Doctorow quanto autori postcoloniali come Rushdie o come il canadese, ma originario dello Sri-Lanka, Michael Ondaatje.

Io vorrei invece indagare su quanto, volendo usare questa terminologia, queste metanarrative storiografiche, in realtà, siano diversissime — a seconda della provenienza — e su come lo siano soprattutto a livello di intenti e di filosofia di base. Una tipica riscrittura della storia di tipo postmoderno, per esempio, è “Il paese dell’acqua” (nell’originale, “Waterland”) di Graham Swift, apparso in Inghilterra pochissimi anni dopo “I figli della mezzanotte”. Vi si racconta di un professore di Storia che ad un certo punto, anche per fatti contingenti relativi alla sua vita privata, si stufa di insegnare la Rivoluzione Francese ai suoi studenti e comincia a raccontare i fatti suoi, la storia sì, ma quella della sua famiglia, tornando indietro di centocinquanta anni e legando le vicende della sua gente a quelle dell’Inghilterra negli stessi anni. L’idea di base, per certi aspetti è molto simile a quella de “I figli della mezzanotte”: anche qui, infatti, tutta la narrazione si svolge in una regione che era paludosa e che ora è costituita da terre bonificate strappate al mare, esattamente come la città in cui è ambientato il romanzo di Rushdie, Bombay, città che è stata costruita dagli inglesi proprio dopo la bonifica del litorale. La metafora della terra strappata al mare diventa in entrambi gli autori una metafora della Storia. In Graham Swift c’è un continuo confronto tra l’operazione dello strappare la terra al mare e l’operazione di strappare la storia al passato attraverso la memoria. Swift arriva a una conclusione terribile: il passato non si può mai riottenere, anche se si può continuare a rivendicarlo. A questo proposito usa un gioco di parole che è alquanto difficile da tradurre in italiano: l’operazione della bonifica, in inglese, si chiama “land reclamation”; il narratore di questo libro mette a confronto la “land reclamation”, il reclamare la terra al mare, con la “past reclamation”, cioè il reclamare il passato, e arriva, alla fine, ad una ammissione di assoluta impotenza: la Storia non si può conoscere, non si può interpretare, non si può riavere. La storia è null’altro che quei rari momenti in cui la realtà si insinua nella vita individuale, quei momenti in cui il “qui e ora” fa irruzione nella nostra realtà quotidiana. Tutto il resto non si riesce a riaverlo indietro: quindi di tutto il resto non c’è memoria, bensì amnesia storica, pur nel ritorno alla propria storia personale. Il discorso fondamentale diventa, quindi, quello d’un rapporto tra la soggettività del singolo, la Storia e la storia personale. Il romanzo diventa quindi un lavoro sulla crisi della storicità. Si può dire che quest’opera sia una delle espressioni più interessanti di quella retorica della terminalità, retorica della fine del mondo, della fine delle possibilità conoscitive, che è tipica di un certo Postmoderno.

Direi anche che è, se posso usare una parola cara a Giuseppe Petronio, uno dei più bei romanzi “crisaioli” che siano stati scritti negli ultimi vent’anni. Se lo mettiamo a confronto, però, con il romanzo che forse l’ha ispirato, ovvero “I figli della Mezzanotte”, troviamo immediatamente una differenza enorme: anche se lo stesso romanzo di Rushdie prende le mosse dalla “land reclamation”, contrapposta alla “past reclamation”, all’idea ingenua di rivolere indietro il proprio passato, Rushdie fa subito comprendere che pur nell’urgenza enorme che sentiamo riguardo la riconquista del passato, non riavremo mai quello che è stato, non riavremo indietro esattamente quello che abbiamo perduto. In un suo saggio si legge: “Forse gli scrittori come me, esuli o emigranti o espatriati, sono ossessionati da un’urgenza a rivendicare, a guardare indietro, persino a rischio di essere trasformati in statue di sale. Ma se guardiamo indietro, dobbiamo farlo nella consapevolezza — che dà origine a profonde incertezze — che la nostra alienazione fisica dall’India significa quasi inevitabilmente che non saremo capaci di rivendicare esattamente ciò che abbiamo perso; in breve, che creeremo finzioni, non città o villaggi reali, ma invisibili, patrie immaginarie, Indie della mente.” [S. Rushdie, “Imaginary Homelands”, London: Granta Books, 1991, p. 10 — trad. mia] Quindi appare evidente, come dicevo prima, l’uso normativo della fantasia e dell’immaginazione, l’importanza enorme assegnata all’immaginazione per riavere indietro il proprio passato, un passato che non sarà, comunque, mai più come è stato. La storia diventa una ricerca d’appartenenza. Quello che si rivuole indietro è la possibilità di appartenere ad un gruppo, d’appartenere ad un mondo, di esserci: la storia diventa una dinamica collettiva.
Un’altra differenza enorme tra i due romanzi è che in Swift avevamo la crisi della storicità, qui abbiamo l’idea di base che la crisi c’è, ma che si può superare attraverso la rivoluzione. C’è un capitolo molto divertente nel libro di Rushdie dove si descrive la comunità dei maghi di Bombay: tutti questi personaggi hanno dei poteri più o meno soprannaturali. Inoltre, sono tutti comunisti, perché Rushdie ritiene che solo delle persone che credono nel soprannaturale possono essere convinte che prima o poi arriverà la rivoluzione e il popolo prenderà il potere. È davvero importante avere questa forza fantastica dentro, come è importante coltivare il sogno. Un sogno che poi, in qualche modo, si realizza anche attraverso la morte del personaggio principale, al quale succede il figlio: il sogno della rinascita. L’idea di rinascita si trova al termine de “I figli della mezzanotte”, in una conclusione che chiaramente va in una direzione esattamente opposta alla retorica della fine di “Waterland”. Ultimo punto di similarità tra il Postmoderno e il Postcoloniale narrativo sarebbe, secondo gli studiosi occidentali, la presenza in moltissime opere d’entrambe le categorie prese in esame d’una riscrittura di famosi classici occidentali.

Per esempio: il libro da cui convenzionalmente si suole far partire il Postmoderno britannico è un romanzo del 1970, “La donna del tenente francese” di John Fowles, che mostra le scene, i personaggi più tipici del vittorianesimo rivisti alla luce della contemporaneità. Una tipica vicenda vittoriana viene così rielaborata non solo dallo scrittore, ma anche dal narratore e dagli stessi personaggi, i quali non sono minimamente contenti di come vengono trattati dal loro autore e si ribellano reclamando per sè altre storie, rivendicando il diritto di crearsi da soli la propria storia sulla base di un principio che vede la narrazione come atto di libertà, e l’immaginazione come strumento di emancipazione.
Tutto questo porta, alla fine, alla distruzione assoluta dell’illusione narrativa, esattamente come accade in Paul Auster; distruzione che in Fowles si manifesta attraverso quello che al tempo sembrò un atto d’estrema rottura con la narrativa precedente. L’autore suggerisce tre finali diversi tra loro e il lettore è libero di scegliersi quello che preferisce. Il lettore quando chiude questo romanzo, ha un’idea della realtà in quanto illusione, o meglio, della realtà come contesto di affabulazioni molteplici. Gli elementi che Fowles prende dalla narrativa canonica britannica e vittoriana sono riadattati nella sua narrazione attraverso l’accumulazione, la collezione (non è un caso, forse, che il primo romanzo di Fowles si intitolasse “Il collezionista”). Elementi di valore differente vengono ammassati sotto un’unica immagine, un unico significante, al quale si dà un valore metaforico prospettivo. In altre parole, tutti questi elementi vengono giustificati e trovano un valore e una forma alla luce del presente.

Se prendiamo ora un romanzo postcoloniale che riscrive un’opera del canone britannico, vediamo invece che qui l’autore lavora in senso quasi opposto. Un romanzo molto bello di J. M. Coetzee, uno scrittore sudafricano, che si intitola “Foe”, pubblicato in italiano a metà degli anni Ottanta da Rizzoli, è la riscrittura del “Robinson Crusoe” di Defoe. Qui una donna, che si sarebbe trovata sull’isola deserta insieme a Robinson Crusoe e a Venerdì, commissiona al famoso scrittore inglese Foe (che ovviamente è una maschera di Defoe), la stesura narrativa del suo naufragio. Il romanzo ruota tutto attorno al fatto che la donna richiede una narrazione sincera allo scrittore, perché ritiene che quello sia l’unico modo per lei di ritrovare la propria identità, mentre lo scrittore vuole approntare, come infatti farà, una narrazione che soddisfi le esigenze del mercato, che sia stuzzicante quanto più possibile per il grande pubblico. Ma siccome alla massa dei lettori non importa nulla di una donna che stava sull’isola e ancora meno di sapere che Robinson era un pigro, un violento, un manesco, lo scrittore cambia completamente le carte in tavola, scrive la storia che gli pare più appetibile e certamente non quella che la donna gli racconta. Quello che è interessante è che la donna, qui, viene usata come un’immagine dell’autore del romanzo, non soltanto come narratore, né solamente in prospettiva metanarrativa, ma soprattutto in prospettiva politica. Quando J. M. Coetzee scrive il libro, in pieno apartheid, vuole far capire al lettore, da scrittore bianco e liberal, come la posizione della donna borghese nel Settecento britannico sia per molti aspetti simile a quella del bianco liberal nel Sud Africa dell’apartheid. Secondo Coetzee, l’unico personaggio che potrebbe raccontare la storia così come realmente è accaduta, che potrebbe fornire una versione corretta della vicenda di Robinson sull’isola — visto, peraltro, che Robinson è già morto — è Venerdì, cui, però, è stata mozzata la lingua, forse dallo stesso Robinson. Così, anche se Venerdì conosce la versione più sincera della storia sull’isola, non può materialmente fornirla perché non può parlare. L’autore, lo scrittore Foe e la stessa protagonista Susan Burton si rendono tutti conto di non poter raccontare la storia in maniera corretta, di essere tutti, ugualmente, “foe” (“nemici”, in inglese) per il nero Venerdì, la cui vicenda non può essere narrata da un autore bianco. Nessuno può parlare al posto di Venerdì.

Abbiamo, dunque, una riscrittura del canone che non è solo un esercizio di memoria o di tecnica narrativa, ma che diventa anche un atto politico efficace. Possiamo notare, in più, che tutti gli elementi che Coetzee prende dal canone britannico e soprattutto dall’opera di Defoe, non sono accumulati “collezionati” come in Fowles, ma usati secondo una tecnica che è tipica della narrazione postcoloniale, ossia attraverso il “contagio” o meglio, la “contaminazione”. Nel racconto di J. M. Coetzee è rintracciabile un tentativo non più prospettivo, ma retrospettivo per stabilire un’affinità le opere del canone britannico e la sua opera. C’è una compartecipazione tra l’opera antica — un vero e proprio “contagio” — e l’opera moderna; c’è la consapevolezza che deriva dalla compartecipazione di una energia condivisa. È, infine, il discorso sul “divorare le storie” che si faceva prima, citando una delle frasi di apertura de “I figli della mezzanotte”: c’è un bisogno effettivo di inghiottire insieme le stesse storie, per poter stare al gioco proposto da questo tipo di narrazione.

Per spiegarmi meglio farò riferimento a un romanzo molto bello uscito un paio di anni fa in Italia, d’un altro autore indiano che si chiama Amitav Ghosh. Il romanzo è un thriller fantascientifico dal titolo “Il Cromosoma Calcutta” (“The Calcutta Chromosome: A Novel of Fevers, Delirium & Discovery”) tutto imperniato sulla teoria del contagio, del passaggio di storie, di sogni, di esperienze, di desideri che si trasmettono di persona in persona attraverso le epoche, anche tra morti e vivi — e qui torniamo addirittura al discorso del bosco degli spiriti — e che si potrebbe riassumere in un discorso molto semplice: “se io ti racconto una storia, t’infetto e tu ti ammali di quella storia diventandone parte; pensaci bene, dunque, prima di ascoltare la mia storia perché poi diventa tua e tu ne diventi definitivamente parte integrante”. è questa teoria che ha affascinato il regista Salvatores quando ha deciso di portare sullo schermo “Cromosoma Calcutta”.

Per finire, per illustrare ancora meglio questa teoria del contagio che è estremamente positiva e per nulla “crisaiola”, vorrei leggere le quattro, cinque righe finali di un altro romanzo indiano appena uscito in Italia, “Terra rossa e pioggia scrosciante”, scritto da un giovane autore di nome Vikram Chandra. Dopo più di settecento pagine di narrazione estremamente convulsa, ma anche estremamente piacevole da seguire fatta com’è di storie dentro storie, il narratore chiude con queste parole: “Racconterò una storia che crescerà come un loto rampicante, si avvolgerà su se stessa e si spanderà senza fine, finchè ciascuno di voi entrerà a farne parte, e gli dei verranno ad ascoltare, finchè tutti noi parleremo in un’armoniosa confusione che contiene il passato, ogni attimo del presente e il futuro infinito […] e con queste parole ricominceremo tutto daccapo.” [V. Chandra, “Terra rossa e pioggia scrosciante”, Torino: Instar Libri, 1998, p. 741 — trad. A. Nadotti e F. Galuzzi].

Il presente articolo è la trascrizione di un intervento tenuto per il convegno: Postmoderno?, tenuto a Trieste il 28 e 29 dicembre 1998 e organizzato dall’Istituto Gramsci F.-V.G. e da La Cappella Underground.

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