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Omnia

Il Vero e il Giusto

Immagine articolo Fucine MuteDa quale necessità viene il giudizio? Dal fatto che gli uomini non si accordano, litigano, tendono ad usare violenza gli uni sugli altri. Come evitare che si arrivi a tanto? I nostri avi hanno avuto una buona idea (tanto buona che ancora la utilizziamo, nonostante cambino le epoche, i regimi, le credenze): istituire delle figure cui sia affidato il compito e il potere di dirimere le controversie, i giudici. Ma il giudizio è un’esperienza drammatica, non solo per chi è giudicato ma anche per chi giudica. Se il giudice non sa a chi dare ragione? Gli ordinamenti giuridici prevedono generalmente una norma che impone al giudice di pronunciarsi: non può sottrarsi al compito di risolvere la controversia, deve decidere in qualche modo. Fortunatamente, accanto a questa norma, esiste il principio del favor rei: nei casi dubbi deve assolvere l’imputato.

Una fondamentale condizione affinché il giudizio sia giusto è quella della verità. L’articolo 497 del nostro Codice di Procedura Penale prescrive che i testimoni chiamati in giudizio pronuncino una dichiarazione con la quale si impegnano a dire “tutta la verità” e a “non nascondere nulla” di quanto è a loro conoscenza. Tendiamo a prendere questa dichiarazione per una formalità e se qualcuno insiste che deve essere presa sul serio tendiamo a rispondere con scetticismo se non con cinismo. Perché si sa che gli imputati e i testimoni non di rado mentono, che gli avvocati non di rado alterano le prove, che le perizie dei consulenti di parte non sono oggettive come dovrebbero ecc. Fin qui filosoficamente fila. Poiché dire che qualcuno mente è dire che afferma il falso e cioè che non rispetta l’impegno alla verità.

Ma filosoficamente il discorso si fa più insidioso quando si risponde che non c’è una verità oggettiva, che ciascuno ha il suo punto di vista, cioè la sua ‘verità’. La mentalità comune, dopo un secolo e più di relativismi e pensieri deboli, è oggi incline ad ammettere qualcosa del genere: non c’è verità oggettiva ma ci sono tante verità quanti i punti di vista. È curioso e contraddittorio come il senso comune — che praticamente non ha dubbi sull’esistenza di un mondo reale e degli oggetti che lo costituiscono (tavoli, alberi, persone) — divenga scettico, oggi, quando si tratta di affermare il vero o il falso a proposito degli oggetti con cui è in relazione: chi sta leggendo un giornale non dubita dell’esistenza del giornale, ma può divenire stranamente scettico se gli viene chiesto di pronunciarsi sulla verità di ciò che sta facendo. Eppure, se sto leggendo una recensione apparsa su Fucine Mute, non è vero chesto leggendo una recensione apparsa su Fucine Mute? In che senso sarebbe vero secondo il mio punto di vista e falso secondo un diverso punto di vista? Come potrebbe essere falso che sto leggendo una recensione apparsa su Fucine Mute se in effetti lo sto facendo?

E come potrebbe essere vero da un punto di vista che Tizio ha ucciso Caio e falso da un diverso punto di vista? Di fronte all’uccisione di Caio vogliamo sapere chi lo abbia ucciso e se magari sia stato Tizio; non vogliamo sapere secondo quali punti di vista sarebbe vero che lo ha ucciso Tizio e secondo quali falso. E cosa dovrebbe fare un giudice chiamato a decidere del caso, se la verità fosse irrimediabilmente legata ai punti di vista? Dovrebbe scegliere il punto di vista dei parenti di Caio o dell’imputato Tizio? E se non ci fosse una verità oggettiva, la sua scelta dovrebbe essere fondamentalmente arbitraria? Cosa ci aspettiamo invece da un giudice? Non certo che scelga il punto di vista che più gli aggrada ma che decida giustamente sulla base dei fatti provati. E provare il fatto che p non significa provare che ‘p ’è vero? Possiamo immaginarci un avvocato che annuncia di avere una prova della falsità di ciò che intende provare?

Pensiamo allo sdegno e all’amarezza che suscitano i casi di errore giudiziario: i casi in cui qualcuno viene condannato ingiustamente e passa anni della propria vita in cella. Perché ne siamo sdegnati? Perché un innocente subisce un’ingiustizia gravissima. Ma questo, a ben riflettere, cosa implica? Che l’innocente è stato condannato sulla base di premesse fattuali false. Che cioè non è stata rispettata quella condizione fondamentale della giustizia che è la verità. Se fosse questione di punti di vista, in che senso ci sarebbero degli innocenti condannati? Se il giudice dovesse semplicemente scegliere fra punti di vista, dei quali nessuno sarebbe più vero o più falso degli altri, in che senso ci sarebbero degli errori giudiziari? Gli errori giudiziari ci sono, purtroppo, perché la verità è travisata.

Immagine articolo Fucine MuteLo stesso atteggiamento scettico o disincantato con cui spesso viene presa la dichiarazione dei testimoni in giudizio è oggi, in generale, una diffusa reazione ad ogni discorso che pretenda di essere riconosciuto come vero. Lo nota con lucidità Pascal Engel nell’introduzione di Verità, un libro pubblicato in Francia nel 1998 e ora tradotto per l’editore De Ferrari di Genova. Pascal Engel insegna Filosofia della Logica, del Linguaggio e della Conoscenza alla Sorbona ed è già noto al pubblico italiano per il libro Filosofia e psicologia (del 1996, tradotto per Einaudi nel 2000). La sua scrittura è scorrevole e la sua conoscenza della filosofia contemporanea è di rara ampiezza e competenza. Peraltro il libro smentisce il luogo comune che dei concetti filosoficamente più pregnanti non sia possibile trattare che in volumi ponderosi. In poco più di cento pagine, in tre capitoli, un’introduzione e una conclusione, Engel traccia un quadro molto chiaro e stimolante delle principali teorie della verità discusse nel panorama filosofico contemporaneo. È un libro da raccomandare a chiunque voglia farsene un’idea e non si rassegni né al relativismo né all’idea che la verità sia un concetto primario e indefinibile.

L’atteggiamento scettico di cui si è detto appare già nella domanda di Pilato: Che cos’è la verità? (Giovanni XVIII, 38). Engel lo rileva nell’introduzione e nota come un certo scetticismo si trasformi in cinismo quando serve a coprire o giustificare un utilizzo arbitrario del potere. Ma agli occhi del filosofo non basta denunciare simili intenti o abusi: filosoficamente, per rispondere in maniera sostanziale allo scetticismo e al relativismo, occorre procedere ad un’analisi della nozione di verità. È così che il primo capitolo prende in considerazione le teorie ‘canoniche’ della verità (corrispondentismo, coerentismo, pragmatismo e verificazionismo). Essenziale è distinguere il significato della nozione di verità dai criteri con cui riconosciamo o attribuiamo la verità (in questo senso, il coerentismo e il verificazionismo tendono a confondere le due cose nella misura in cui sostengono che ‘vero’ significa ‘coerente’ o ‘verificato’). Più precisamente: nel primo capitolo Engel esamina le teorie canoniche della verità; nel secondo rileva che il dibattito recente è stato molto più articolato di quello che le teorie canoniche ci hanno trasmesso, quindi esamina alcune delle teorie contemporanee più discusse (fra cui la teoria della ridondanza e della decitazione); nel terzo si confronta con la teoria minimalista di Crispin Wright precisando alcuni dei tratti caratteristici ed essenziali del predicato ‘vero’. La più tradizionale delle teorie canoniche è la teoria corrispondentista, secondo cui ‘vero’ significa ‘corrispondente alla realtà’: la proposta minimalista di Engel cerca di salvare questa intuizione realista senza però connotarla in termini metafisici, bensì in termini semantici delineando i tratti caratteristici (il significato) del predicato ‘vero’.

Ora non è questa la sede per entrare nei dettagli. Siano i lettori a valutare e giudicare la soluzione di Engel. Ritorniamo invece alle poste in gioco. Questo libro non tratta direttamente della rilevanza pratica del vero o del falso. Ma la morale che può esserne tratta è chiara: la verità è un valore e in quanto tale deve essere difeso. Certo resta da chiarire che tipo di valore sia e che rapporto abbia con gli altri valori. Ad esempio, come si rapportano il valore della verità e i valori estetici o i valori morali? Prendiamo un romanzo e un resoconto storico. Cosa distingue un romanzo da un resoconto storico se non, principalmente, il fatto che il primo non pretende di essere vero mentre il secondo lo pretende? Il valore del romanzo è estetico e può essere morale se esprime delle valutazioni morali. Invece, ad avviso di chi scrive questa recensione, il resoconto storico non ha un valore estetico ma ha sempre un valore morale giacché, pretendendo di essere vero, testimonia del passato e può essere opposto a chi voglia dimenticarlo o travisarlo.

Riprendiamo allora l’esempio del processo con cui abbiamo iniziato. Il processo è uno dei luoghi pubblicamente deputati alla ricostruzione del vero. Qualcuno obbietterà che il giudice non deve tanto cercare la verità quanto valutare le prove. Ma il punto è semplicemente questo: una cosa è la verità, un’altra è la conoscenza della verità. Da una parte la verità è indipendente dalle credenze che ne abbiamo, dall’altra non possiamo accedervi che attraverso le credenze e le prove di cui disponiamo. Il processo di diritto non può prescindere da un sistema di regole processuali che determinano la qualità e la quantità delle prove che possono essere accolte, ma tutti i limiti, processuali e non, che possano esservi alla conoscenza della verità non tolgono che la verità sia una condizione necessaria della giustizia e che la sua conoscenza sia lo scopo principale del processo. Con ciò, la ricostruzione processuale ha un valore morale e non solo giuridico, in quanto la verità è condizione della giustizia. Ma ancora più ampiamente si può dire che la verità ha sempre un valore morale se è ciò che consente di opporsi legittimamente all’utilizzo arbitrario del potere.

Come conclude Engel, il relativismo, al di là delle sue debolezze teoriche, ha dei costi davvero esorbitanti: ci priva di una legittima pretesa di verità, con la conseguenza ancor meno invidiabile di lasciarci esposti all’arbitrio del potere. L’insegnamento della storia, l’applicazione del diritto sono campi in cui si esercita un potere istituzionale: se non fosse possibile il giudizio vero/falso, non resterebbe che l’arbitrio a determinarne l’esercizio.
Questo per l’ambito dei giudizi e delle controversie umane. Ma infine, ci sia permesso, che conseguenze dovremmo trarne se lo pensassimo in un ambito superiore? Una fondamentale condizione della giustizia umana è che il giudice non sia parte nella lite. Come si dice, il giudice deve essere terzo rispetto alle parti. Detto altrimenti, deve essere super partes. Ora, il Giudice più alto e supremo è parte nella lite. Dunque non può essere super partes poiché una delle parti — l’accusa — è Lui stesso! Infatti il Giudice è allo stesso tempo accusatore e giudice: formula il capo d’imputazione e ne decide. Quali possibilità di difesa sono date a tale cospetto? Certo il Giudice più alto e supremo conosce tutta la verità e non v’è dubbio che il suo giudizio ne tenga conto. Ma che modello di giustizia è questo, verrebbe da chiedere, in cui accusa e giudice sono tutt’Uno?
John Donne ci chiama a fare un passo indietro (Holy Sonnets, IX): chi sono Io che oso disputare con te, o Dio?

Pascal Engel è professore di epistemologia e filosofia del linguaggio all’Università della Sorbona (Parigi). Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Identité et référence (1985), La norme du vrai (1989), Introduction à la philosophie de l’esprit (1992), Davidson et la philosophie du langage (1994) e Philosophie et psychologie (1996), tradotto in italiano presso Einaudi (2000). Recentemente ha pubblicato Truth (2002) e, con Jerome Dokic, Ramsey, truth and success (2002). Pascal Engel, già membro del CREA, è stato presidente delle Società francese di filosofia analitica (SOPHA) dal 1993 al 1997, ed è ora membro dell’Istituto Jean Nicod di Parigi.


Pascal Engel, Verità, De Ferrari, Genova, 2004, pp. 107, € 12.
deferrari@deferrari.it (Tel: 010.5535017)

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