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Omnia

La casa del sognatore (I)

Se si vuole descrivere un luogo, descriverlo completamente, non come un’apparenza momentanea ma come una porzione di spazio che ha una forma, un senso e un perché, bisogna rappresentarlo attraversato dalla dimensione del tempo, bisogna rappresentare tutto ciò che in questo spazio si muove, d’un moto rapidissimo o con inesorabile lentezza: tutti gli elementi che questo spazio contiene o ha contenuto nelle sue relazioni passate, presenti e future.

Italo Calvino, Savona: Storia e Natura

Immagine tratta da Il cielo sopra Berlino di Wenders

Col tempo, è diventato un appassionato dell’attesa. Egli ama aspettare. Puntualissimo, detesta i puntuali, che lo privano, con la loro maniacale esattezza, del piacere incredibile di quello spazio vuoto, in cui non accade nulla di umano, di prevedibile, di attuale, in cui tutto ha l’odore esilarante e indefinibile del futuro. […] Durante le attese, egli diventa il proprietario dell’angolo, della strada, del luogo designato all’incontro.

Giorgio Manganelli, Centuria. Cento piccoli romanzi fiume

Che cosa intendiamo quando parliamo di “spazio”?
Nella sua nota dissertazione sui nonluoghi, Marc Augé si è soffermato a lungo sulla nozione di spazio e relativa differenza rispetto al termine “luogo”, rintracciando nei nostri tempi una crescente moda nell’utilizzo del primo termine (più astratto rispetto al secondo, il quale si riferirebbe perlomeno a un avvenimento, una storia, un mito): «applicato a sale per spettacoli o incontri (“Espace Cardin” a Parigi, “Espace Yves Rocher” a La Gacilly), a giardini (“spazi verdi”), a poltrone di aereo “Espace 2000”) o ad automobili (“Espace” della Renault), testimonia al contempo dei temi che ossessionano l’epoca contemporanea (la pubblicità, l’immagine, il tempo libero, la libertà, lo spostamento) e l’astrazione che li corrode e li minaccia, come se i consumatori di spazio contemporaneo fossero in primo luogo invitati ad appagarsi di parole»[1].

In senso filosofico la nozione di spazio ha generato molte controversie nei secoli: Aristotele ha sostenuto la tesi della realtà fisica dello spazio e della sua natura di luogo (posizione di un corpo fra gli altri); Kant ha sostenuto la sua realtà soggettiva, il suo essere, insieme al tempo, intuizione pura, a priori e trascendentale, della sensibilità; Einstein ha definitivamente messo in crisi la concezione tradizionale occidentale, raccomandando di evitare l’espressione vaga di spazio per sostituirla con quella di moto relativo ad un corpo rigido di riferimento.

Allo spazio relativistico dell’Occidente fa eco la lettura relativistica dello spazio indigeno: «Whorf a proposito degli Hopi dice che questi hanno un gran numero di termini specifici per dei dettagli architettonici, ma una totale assenza di parole per indicare uno spazio tridimensionale, quello che noi chiameremmo una stanza, un vano. Hanno molti tipi di stanza e ne distinguono le funzioni, ma questi spazi non vengono nominati, bensì localizzati, ad esempio dalla posizione in essi di certi oggetti. Allo stesso modo non ci sono termini per indicare luoghi in cui struttura fisica e funzione sono fuse, come scuola, tempio, ospedale, ma c’è un termine (ki.hi) per indicare l’occupazione di un luogo. La lingua hopi, al pari di altre lingue uro-atzeche considera i luoghi costruiti come dei concetti relazionali. […] Uno studente hausa può dire ad un suo collega di Università a Londra, parlando in inglese ed indicando il cielo: “La città è piuttosto nuvolosa”. In hausa il termine che indica cielo e città è lo stesso (garii). […] Tra i Tin Dama delle province orientali Sepik di Papua (Nuova Guinea) vige la concezione secondo cui, andando da un villaggio all’altro lo spazio si va rarefacendo fin quando non si arriva ad un “buco” invisibile in cui è possibile perdersi se non si praticano alcuni gesti rituali […] Tra i Nias dell’Indonesia, ad esempio, chi esce di casa per andare a trovare il vicino deve prima passare per il grande sentiero centrale che divide in due il villaggio. Queste direzioni privilegiate, queste soglie, e gli stessi confini di un insediamento costituiscono le notazioni su cui si articola il discorso “parlato” dello spazio. Ci si intende consentendo e ribadendo ambiti, orientamenti, tracce. […] Lo forma dello spazio indigeno è “agìta da chi l’abita»[2].

La definizione di spazio è dibattuta. Ciò che tuttavia ci interessa mettere in evidenza in questa sede è la necessità fisiologica da parte dell’uomo di segnare lo spazio, di frammentarlo attraverso la tracciatura di confini, linee, punti, come se esso fosse troppo simile al Caos primordiale, a quell’infinito che non può essere pensato nella sua completezza pena la follia (agìto sì, vissuto, riempito, ma pensato no).

confini

Per scampare al minaccioso Caos, al non-essere, all’irrealtà in cui si è (s)perduti, bisogna stabilire un centro. Secondo Mircea Eliade (vedi Il mito dell’eterno ritorno) la realtà è conferita dalla partecipazione al simbolismo del centro, per cui tutto è reale in quanto assimilato al centro del mondo, nel quale si trovano la montagna sacra, su cui avviene l’incontro tra cielo e terra, il tempio-palazzo-città sacra, considerati punti di incontro tra cielo, terra e inferno. Nelle varie civiltà la montagna sacra assume connotati topologici e geografici reali. Per esempio per gli indù esiste il monte Meru, in Palestina il monte Thabor, che significa in ebraico “ombelico”. Per i Cristiani il Golgota è il luogo in cui Abramo fu creato e poi sepolto e redento dal sangue di Cristo, ivi crocefisso. Per l’Islam la montagna sacra per antonomasia è la Ka’aba. La sommità della montagna cosmica è l’ombelico della terra in cui ha avuto origine la terra e la creazione divina. Questi termini specifici sono improntati sull’embriologia trilogica di Dio-Madre-Origine connotati dal simbolismo del “centro”, il quale sarebbe sopravvissuto nei tempi moderni incarnandosi nell’immagine del tempio, imago mundi che si ripresenta nella basilica cristiana (la Gerusalemme Celeste).

Il centro è lo spazio limitato, la zona del sacro, realtà assoluta raggiungibile mediante impervi pellegrinaggi, peregrinazioni argonautiche, labirinti, inderogabili riti di passaggio che preludono l’iniziazione e la consacrazione. Ogni creazione umana ripete l’atto cosmogonico per eccellenza e tutto ciò che è fondato si trova al centro del mondo, perché la creazione avviene a partire da un centro. In India, per esempio, per fondare una città o costruire una casa, l’astrologo indica il centro del mondo sopra cui si trova il serpente Vrtra che rappresenta il Caos. Lo stregone in seguito pianta il palo nella testa del serpente: così è ripetuto l’atto divino della creazione esemplare, con la ripetizione dell’atto cosmogonico, per cui il tempo concreto è proiettato in un tempo mitico.

“Addomesticare” lo spazio coincide dunque con il situarsi al centro del mondo, mettere le fondamenta della propria casa (della propria città, del proprio popolo, della propria esistenza) dentro l’omphalos, l’ombelico del (corpo)mondo. In un certo senso, si rifugge il disordine del mondo tentando una metaforica ridiscesa nel grembo materno: l’ombelico, come ogni altra cavità, rimanda alla simbologia uterina.

Fortificazione concentrica

La casa stessa, oltre a essere costruita nel punto più vicino al passaggio che conduce all’utero della Madre (Terra), è utero: «la capanna cinese, come la grotta preistorica, dove la sposa regna in comunicazione diretta col suo familiare, è una matrice, “il focolare stesso passa per femmina dove s’accende il fuoco, il maschio”. L’infemminirsi della casa, come quello della patria, è tradotto dal genere grammaticale femminile delle lingue indo-europee domus e patria latine, ê oikia greca. I neutri das Haus e das Vaterland non sono che accidentali indebolimenti, subito compensati da die Hütte e die Heimat. La psicoanalisi, più di ogni altra, è stata sensibile alla semiologia femminoide della dimora e all’antropomorfismo che ne risulta; camere, capanne, palazzi, templi e cappelle sono infemminite. In Francia il carattere della cappella è molto netto, spesso essa è “Notre-Dame”, quasi sempre è consacrata, almeno parzialmente, alla Vergine Madre»[3].

Stabilita l’impossibilità di fornire una definizione esauriente di spazio, abbiamo capito che esso non è un’entità geograficamente delimitabile e che le sue qualità fisiche si sovrappongono piuttosto alle qualità degli atti che in esso si compiono. Abbiamo poi visto che l’atto umano fondamentale all’interno dello spazio è la “fondazione”, cioè la ricerca di un centro che permetta di evitare lo smarrimento e l’angoscia dell’infinito (labirinto). Nel centro si colloca la casa o comunque il segno-origine di una civiltà (il gesto dell’aratro di Romolo e Remo). Tale centro corrisponde simbolicamente all’ombelico del mondo, il passaggio principale che porta al grembo della Grande Madre. La casa stessa, o il monumento sorto sopra il segno fondatore, è grembo nel quale rintanarsi e costruire il proprio ordine, ovvero — in definitiva — il proprio spazio. Lo spazio delimitato/addomesticato, contenente un ordine e un progetto, ponte verso la memoria del corpo (corpo dell’uomo, corpo del mondo) e verso l’Altro (l’Ospite) è luogo.
Ma l’uomo è ancora capace di fondare (nel)lo spazio? È capace di originare luoghi in cui costruire identità, relazioni, Storia, storie? Oppure, come suggerisce Augé, l’uomo contemporaneo si è/è stato trasformato in un consumatore, un fruitore di spazio inteso come contenitore algido, asettico nonluogo in cui non c’è memoria, né di sé, né dell’Altro?

Dodeskaden

Per rispondere, o perlomeno per abbozzare una risposta, dobbiamo fare un passo indietro. Visto che abitare/fondare lo spazio significa individuare un centro, logicamente si deve dedurre che per fermarsi in un punto e insediarsi, prima si debba andare in cerca di esso, e, dal momento che questa ricerca si articola nello spazio-caos, in mancanza di bussole o mappe, significa che è impossibile non perdersi. Il perdersi precede/accompagna il gesto fondativo, come rileva Vattimo: «la facoltà dell’abitare è anche, inscindibilmente la facoltà di perdersi, la capacità di spaesamento e dunque di autentica esperienza. Tradotto nei termini della riflessione ermeneutica sulla verità: la verità come appartenenza a un orizzonte, come esperienza di integrazione […] è inscindibile dalla possibilità dello spaesamento — quella che Heidegger ha cercato di cogliere nella nozione di angoscia (in Essere e tempo) e nell’analisi dell’esperienza estetica (dell’opera d’arte come “messa in opera della verità”) in termini di urto e di shock »[4].

Ma dove ci si perde? Ci può perdere nel labirinto oppure nel deserto, come narra Borges, in I due re e i due labirinti, un famoso racconto che riporto integralmente:

Narrano gli uomini di fede (ma Allah sa di più) che nei tempi antichi ci fu un re delle isole di Babilonia che riunì i suoi architetti e i suoi maghi e comandò loro di costruire un labirinto tanto involuto e arduo che gli uomini prudenti non si avventuravano a entrarvi, e chi vi entrava si perdeva. Quella costruzione era uno scandalo, perché la confusione e la meraviglia sono operazioni proprie di Dio e non degli uomini. Passando il tempo, venne alla sua corte un re degli arabi, e il re di Babilonia (per burlarsi della semplicità del suo ospite) lo fece penetrare nel labirinto, dove vagò offeso e confuso fino al crepuscolo. Allora implorò il soccorso divino e trovò la porta. Le sue labbra non proferirono alcun lamento, ma disse al re di Babilonia ch’egli in Arabia aveva un labirinto migliore e che, a Dio piacendo, gliel’avrebbe fatto conoscere un giorno. Poi fece ritorno in Arabia, riunì i suoi capitani e guerrieri e devastò il regno di Babilonia con sì buona fortuna che rase al suolo i suoi castelli, sgominò i suoi uomini e fece prigioniero lo stesso re. Lo legò su un veloce cammello e lo portò nel deserto. Andarono tre giorni, e gli disse: “Oh, re del tempo e sostanza e cifra del secolo! In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo.” Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto, dove quegli morì di fame e di sete. La gloria sia con Colui che non muore [5].

labirinto

Chi attraversa il labirinto deve oltre-passare gli intrichi e gli inganni dell’oscurità per vincere la morte: si tratta di un percorso iniziatico classico in cui l’uomo-eroe (Teseo) deve combattere con la propria parte oscura, l’irrazionale che è dentro di sé (il Minotauro) e per fare ciò, per uscirne cioè vincitore, deve imparare a dipanare il filo della propria coscienza (la parte chiara, razionale, l’intelletto).
Studiando i miti sul mondo degli eroi (vedi L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell) ci si accorge che essi appartengono tutti alla stessa storia narrata all’infinito con infinite variazioni: c’è sempre la separazione dal proprio ambiente, il varco della prima soglia e l’ingresso all’interno del mondo stra-ordinario dove l’eroe dovrà orientarsi/ambientarsi, trovare i propri alleati e dirigersi verso la “caverna più recondita”, il luogo in cui dovrà superare la prova centrale (la pancia della balena per Giona, la terra dei morti per Orfeo, la caverna con il drago per Sigfrido, il labirinto per Teseo, nei racconti di re Artù la “cappella pericolosa” dove è conservato il Graal) per poi conquistare la ricompensa e avviarsi — trasformato — sulla via del ritorno.

Anche nelle storie quindi, nei miti, nelle leggende, il racconto si coagula in un punto preciso, la scoperta del centro, sia esso caverna o castello o pancia di balena. L’avvicinamento avviene lentamente, per gradi, attraverso ostacoli e crisi, perché è avvicinamento alla morte/rinascita: l’eroe dovrà vedere la morte negli occhi e ingannarla grazie all’aiuto dei doni del proprio Mentore (Perseo usa lo specchio donatogli da Atena per evitare lo sguardo diretto di Medusa, Teseo si salva grazie al filo che Arianna ha avuto dal vero Mentore del racconto, l’ideatore del labirinto, Dedalo), sarà il suo vecchio Io a morire, e questa perdita/alleggerimento gli consentirà di sopravvivere e accaparrarsi la ricompensa, la spada magica o l’elisir indispensabili per affrontare la non meno pericolosa via verso casa.

Per fondare lo spazio c’è bisogno di una fase di smarrimento, una messa in discussione dei propri valori e delle proprie unità di misura. Il re arabo del racconto di Borges, dopo aver vagato fino al crepuscolo chiede l’intervento divino, cioè del Mentore: non chiede l’aiuto prima, ma solo dopo aver sperimentato un inevitabile spaesamento nel quale ha messo in crisi il proprio senso di orientamento (che va bene per il suo deserto/labirinto ma non per il labirinto babilonese).

Il Mentore è colui che Vladimir Propp individua nella figura del “donatore”: chi concede l’arma magica, il consiglio o l’indizio che svela l’arcano, la medicina curativa, ma non prima che l’eroe se lo sia guadagnato, ad esempio offrendo aiuto o ospitalità a qualcuno in difficoltà (solitamente un abitante del luogo, che potrà divenire un futuro alleato nella discesa verso la caverna recondita). Il dono del Mentore non è il dono estraneo alla ragion pratica di cui parla Derrida, esso è molto più simile al dono di cui parla Mauss — meccanismo di scambio che vincola, al di là di ogni retorica della generosità, il ricevente al donatore obbligandolo alla reciprocità — oppure al dono “asimmetrico” di cui parla Starobinski: dono perverso che si attua nelle pratiche dell’elemosina, della beneficenza, della carità, dell’omaggio e del tributo, atto che nasconde l’arroganza/superiorità del donatore e l’umiliazione/inferiorità del ricevente (la sua ambiguità è conservata ancora in alcune lingue in cui si associa all’idea di “regalo” — l’inglese “gift” — a quella di “veleno” — il tedesco “Gift”).

Il termine Mentore deriva dal personaggio omonimo dell’Odissea, il fedele amico di Ulisse; in realtà, dietro le sue spoglie mortali si cela Atena, dea della saggezza che, legata a Ulisse, fa di tutto per farlo tornare a casa incolume. La mitologia è zeppa di dei che fanno sfoggio di potere attraverso i doni concessi agli umani. Il Mentore/dio è — freudianamente — una sorta di proiezione del Super Io, la coscienza morale/grillo parlante che comporta l’identificazione in determinati valori, la conseguente rinuncia al soddisfacimento di alcuni istinti e la loro rimozione nell’inconscio. Durante lo spaesamento/smarrimento si produce un piacere vertiginoso (vedi Benjamin) che, sebbene produca inconsciamente una conoscenza dell’ambiente, tuttavia impedisce all’Io di elaborare il nuovo sistema di codici razionalmente: è in quel momento che il Super Io/Mentore/Padre soccorre l’Io reprimendo le pulsioni dell’Es e permettendo all’Io di assestarsi/adattarsi/riequilibrarsi per oltrepassare il pericolo e redigere una nuova geografia spaziale di riferimento.

Caos

Muniti dell’esperienza del perdersi e del (ri)trovarsi si può allora tentare di fondare nello spazio un centro/luogo a cui con-segnare il progetto della propria storia e della propria nuova identità. La domanda che sorge a questo punto è: c’è ancora spazio per fondare lo spazio? Proviamo a rispondere citando di nuovo Augé: «gli spazi del vuoto sono strettamente mescolati a quelli del troppo-pieno. Sono talvolta gli stessi, ma in ore diverse: l’aeroporto di notte o al mattino, poco dopo l’apertura, i parcheggi sotterranei quando l’affluenza è minore, le lastre che ricoprono la gare Montparnasse o le autostrade della Défense quando la pioggia o il vento le rendono impraticabili. […] Negli spazi dell’eccesso, c’è anche un eccesso di esseri umani. Le strade e le piste di decollo rugurgitano di gente. Le file d’attesa si allungano. Le sale d’aspetto, confortevoli o meno (a seconda delle classi) non si svuotano. […] Gli spazi del passaggio, del transito, sono quelli nei quali si mostrano con maggiore insistenza i segni del presente. Si mostrano con la forza dell’evidenza: cartelloni pubblicitari, nomi delle ditte più conosciute scritti a lettere di fuoco nella notte delle autostrade che portano all’aeroporto (pensiamo alla tangenziale nord parigina), appariscenti palazzi dello spettacolo, dello sport, del consumo, che all’uscita dell’aeroporto si agglutinano alla città, ne fanno cedere le difese e la penetrano attraverso i varchi ferroviari, autostradali o naturali (i fiumi). Il “generico” caro a Rem Koolhas, il generico che sovverte la città storica è uno spazio del troppo-pieno: come stupirsi che straripi sulla città, la modelli a sua immagine e somiglianza e la conformi in tal modo alla sua vocazione globale?»[6].

È possibile fondare centri/luoghi nello spazio “generico” del troppo-pieno e del troppo-vuoto? Per rispondere, anche in questo caso siamo costretti a fare un passo indietro, ripercorrendo brevemente i modi in cui l’uomo ha abitato una porzione dello spazio, quella che va sotto il nome di territorio.

Madre Terra

André Corboz ha definito il territorio come palinsesto. Abusato nell’ambito delle telecomunicazioni, etimologicamente il lemma rimanda invece al significato originario di “grattato due volte”, perché gli antichi volevano raschiare con il pomice la carta per renderla più liscia, eguale in superficie. Il territorio, dice bene Corboz, «non è un contenitore a perdere né un prodotto di consumo che si possa sostituire. Ciascun territorio è unico, per cui è necessario “riciclare”, grattare una volta di più (ma possibilmente con la massima cura) il vecchio testo che gli uomini hanno iscritto sull’insostituibile materiale del suolo, per deporvene uno nuovo, che risponda alle esigenze d’oggi, prima di essere a sua volta abrogato»[7].

Così raffigurato, il territorio ci appare come una stratificazione di territori, un tronco d’albero che conserva la memoria di sé e dell’ambiente in cui è cresciuto. Riconoscere il dovere del ri-ciclare, cioè del girare, volgere attorno un’altra volta, corrisponde a collocare al centro il territorio (la pietra, la terra, la polvere) e intorno ad esso l’uomo: stabilire un centro nel quale avviene l’accumulo della Storia e al quale attingere, raschiandolo per studiare lo scriptio inferior e fare in modo che esso si prolunghi o trovi un prolungamento di senso nello scriptio superior. Fare tabula rasa, radere al suolo indistintamente per far posto al presente, non traduce una volontà di costruire Storia, bensì quella di fraintendere la Storia.

Bergson ci insegna che l’accumularsi del passato su se stesso continua senza tregua; esso ci (in)segue incessantemente: tutto ciò che abbiamo pensato, percepito, desiderato fin dalla prima infanzia è là, incombente sul presente che sta per assorbire in sé. Il tempo non è — positivisticamente — “collana di perle” che si susseguono una dietro l’altra, eppure l’uomo continua a abitare lo spazio come se esso fosse un oggetto definito e misurabile e il tempo, separatamente, un orologio che scandisce l’invecchiamento di questo spazio-oggetto, a rintocchi regolari indipendenti l’uno dall’altro. Come afferma Jean Nouvel: «l’architettura non è più invenzione di un mondo, ma esiste semplicemente in relazione ad uno strato geologico, sovrapposto a tutte le città del pianeta… L’architettura può avere come unico scopo quello di trasformare, di modificare questa materia accumulata. Per alcuni, tutto ciò è intollerabile: lo considerano un’abdicazione. […] Ogni volta, si può tentare di ricercare una sorta di piacere del luogo, prendendo in considerazione cose che non sono state considerate prima e che dipendono spesso dal caso; così, si possono inventare altre strategie, quelle della valorizzazione e della poetica della situazione […]. Si tratta di un’estetica della rivelazione»[8].

Per ricevere una rivelazione dallo spazio, dai suoi territori, e trarne piacere, si deve abdicare, non sottoporsi a esso ma immergervisi alla stregua del re che si immerge nel labirinto, del flâneur che si perde nella foresta di simboli: solo dopo questa fase si potrà esercitare la pratica dello straniamento, l’uscita dal flusso e l’inizio della riflessione. Sarà in ogni caso una visione influenzata dalla rivelazione, dal disvelamento inaspettato che ha aperto una breccia nel corso temporale, come accade nella visione delle macerie: «quel che ci colpisce nello spettacolo delle rovine, anche quando l’erudizione pretende di far loro raccontare la storia o quando l’artificio di suono e luci le trasforma in spettacolo, è la loro capacità di fornire il senso del tempo senza riassumere la storia e senza concluderla nell’illusione del sapere o della bellezza, la loro capacità di assumere la forma di un’opera d’arte, di un ricordo senza passato. La storia futura non produrrà più rovine. Non ne ha il tempo»[9].

Il terrore che il passato ci travolga come un maremoto sottende una brama di controllo smodata del presente, inteso come unico tempo possibile: la filosofia del consumo vieta ogni titubanza, non ammette epigoni di Orfeo. Il tempo “capitalistico” deve distruggere lo spazio: «la navigazione e la cartografia hanno creato una nuova rete tecnologica per le esplorazioni e le azioni umane.

intrico di strade viste dall'alto

La ricerca catastale ha consentito di definire in modo incontestabile i diritti di proprietà sulla terra. Lo spazio è stato così rappresentato, proprio come il tempo e il valore, come qualcosa di astratto, oggettivo, omogeneo e universale nelle sue qualità. Ciò che i cartografi e gli esploratori avevano prodotto in termini di rappresentazioni mentali venne utilizzato da commercianti e proprietati terrieri per i loro fini di classe. Anche lo Stato assoluto era interessato alla definizione precisa di spazi oggettivi in un quadro stabile, per poter tassare e definire il suo ambito di dominio. […] La facilità con cui ora può essere formato lo spazio, sia fisico che sociale, con tutto ciò che ne consegue per la distruzione delle sue qualità assolute e della territorialità privilegiata delle comunità tradizionali, sancita a livello aristrocratico, religioso o dinastico, pone una seria sfida all’ordine sociale. A immagine di chi sarà formato lo spazio? A vantaggio di chi? Dove il mercato fondiario è dominato dal potere del denaro, subentra la democrazia del denaro stesso. Anche il palazzo più grande può essere comprato e abbattutto, e al suo posto si possono costruire edifici o case popolari. Il mercato fondiario attribuisce gli spazi alle funzioni sulla base del prezzo dei terreni, e lo fa solo in base alla capacità di pagamento »[10].

Dalla logica del profitto Marx ricava l’inevitabile spinta del capitalismo a infrangere i vincoli e gli attriti dello spazio, insieme alle peculiarità dei luoghi. Le rivoluzioni nei trasporti e nelle comunicazioni devono quindi essere considerate come un fulcro, un elemento necessario, e non contingente, alla storia del capitalismo. Decretata la vittoria del tempo sullo spazio, quest’ultimo diviene oggetto manipolabile, sottoposto a confini/dogane, contenitore in cui a velocità sempre maggiori, con minor tempo (un tempo rigorosamente sminuzzato, razionalizzato fino nei suoi nano-secondi) le merci e le informazioni possono circolare. Il capitalismo accelera l’integrazione spaziale nel mercato mondiale, e fa di più, non solo occupa spazio ma ne produce dell’altro (fisico, virtuale), necessita di creare nuovo spazio a cui appoggiarsi. Di pari passo cresce l’esigenza di aumentare vertiginosamente il tempo di rotazione del capitale fisso, indipendentemente dal suo tempo di vita fisico, sostituendolo addirittura prima che il suo tempo economico si sia concluso: le macchine e i macchinari, i capannoni, gli edifici e pezzi interi di reti urbane mostrano improvvisamente la loro obsolescenza: per sopravvivere il sistema mette in atto la “distruzione creativa”. Le infrastrutture fisiche che si sono ammassate in agghiaccianti concentrazioni, a un certo punto si tramutano in barriere, pesi morti da eliminare. Il risultato è la distruzione dello spazio creato dal capitalismo, che si somma alle distruzioni compiute ai suoi albori e durante i suoi ulteriori sviluppi.

Scena di Metropolis di Fritz LangLo spazio, come il tempo, da cui è soggiogato, è sottomesso al denaro: chi ha denaro lo usa per ritagliarsi una fetta di spazio, acquistando una casa o un’automobile, che rappresentano al contempo anche una forma di protezione dallo spazio stesso. Dall’altra parte, chi è sprovvisto di potere monetario deve delineare i confini del proprio spazio in altre maniere: il clochard “segna” con un cartone, le gang o bande con la violenza.[11]. La battaglia di fondazione dello spazio si gioca proprio qui: nel gesto che riesca a equivalere il conficcamento del bastone nella terra. Il clochard, lo zingaro, il tossicomane, il vagabondo, lo squatter, il post-punk o il punk-a-bestia, categorie border-line, ai margini, segnano i margini del proprio spazio con l’odore e lo sporco: ogni particolare, dall’abbigliamento alla capigliatura, deve produrre un senso di rifiuto nell’Altro, dimodoché l’Altro non invada il suo spazio. «La puzza, le puzze, sono certamente e freudianamente una “regressione”, ma non dimentichiamo che sono una regressione a uno stato di oscena verità: che vita e puzza sono vicine, che sesso e cacca lo sono altrettanto. […] Bisognerebbe una buona volta fare la storia atroce di come siano stati aboliti nei paesi “civili” — tra cui l’Italia — le toilette pubbliche, i bagni e le docce pubbliche, gli alberghi diurni, i bagni turchi, persino i vespasiani, le fontanelle per strada. Come sia proibito lavarsi in pubblico, usare fontane, rubinetti, vasche per il più vecchio e normale rito del mondo»[12].

Non è un caso se ci siamo soffermati su figure di spazi urbani. È stata la città lo sforzo (sicuramente in Occidente, più precisamente in Europa) maggiore compiuto dall’uomo nel tentativo di fondare lo spazio. Dapprima come luogo più simile a un punto, centro del potere separato dalla campagna da mura e fossati. L’ammodernamento dell’artiglieria ha permesso poi l’abbattimento delle mura; i progressi della medicina, uniti a un’alimentazione più sana e alla nascita dell’igienismo, hanno contribuito a far lievitare la popolazione, la quale ha progressivamente abbandonato le campagne per arruolarsi nell’industria; la rivoluzione dei trasporti, in primo luogo la ferrovia, ha permesso la separazione tra posto di lavoro e di residenza. Questi fattori, mescolati alle politiche del laisser faire (vedi alla voce sfruttamento della rendita fondiaria), hanno nel tempo partorito l’immagine di una città contraddistinta da un centro al quale si oppone la periferia/sobborgo.

Lo spazio si è frantumato sotto i colpi della spartizione capitalistica pur mantenendo questa dicotomia: centro vs periferia (e non centro cum periferia). Tale dualismo cresce e si esaspera mentre il centro si assottiglia sempre di più, assorbe i poteri economici e simbolici (La Borsa e la Cattedrale o la Borsa/Cattedrale?), spinge fuodi dal sé, dalla sua pancia gli abitanti per spedirli non in periferia ma nelle periferie, via via più lontane, al punto che queste iniziano a superare in dimensioni e popolazione lo stesso centro, dando origine a quella nuova figura che Corboz ha definito città-territorio o ipercittà: la megalopoli informe che abbraccia tutto il territorio e non si ferma, va a caccia di altro spazio e durante la “caccia” si incontra/scontra con le altre megalopoli, fino a quando lo spazio coinciderà con una moltitudine di reticoli e apparirà come un nonluogo generalizzato (o generico, riprendendo Koolhas), giacché le sue gerarchie intrecciate l’una all’altra potrebbero non essere troppo evidenti.

Fine prima parte

Segue con La casa del sognatore (II)

Note


[1] M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993 p. 78.
[2] Cfr. F. La Cecla, Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Milano, Elèuthera, 1993, pp. 28-33.
[3] G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Bari, Dedalo, 1996, pp. 243-244 (prima edizione 1963).
[4] G. Vattimo, Prefazione, in F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, Bari, Laterza, 2000, p. X.
[5] J. L. Borges, L’Aleph, Milano, Adelphi, 1998, pp. 110-111 (prima edizione 1957).
[6] M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp. 88-89.
[7] A. Corboz, Ordine sparso. Saggi sull’arte, il metodo, la città e il territorio, Milano, Franco Angeli, 1998, p. 190.
[8] J. Baudrillard – J. Nouvel, Architettura e nulla. Oggetti singolari, Milano, Electa, 2003, p. 21.
[9] M. Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, op. cit., pp. 136-137.
[10] D. Harvey, L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, Milano, Il Saggiatore, 1998, p. 212 (prima edizione 1989).
[11] Cfr. D. Harvey, L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, ivi, pp. 224-232.
[12] Cfr. F. La Cecla, Jet-lag. Antropologia e altri disturbi da viaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 78-81.

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