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Omnia

Hume e la conoscenza del mondo esterno

Scetticismo, irrazionalismo e "double experience" nel padre della filosofia empirista

Ritratto David HumePadre dell’empirismo moderno e rappresentante dell’illuminismo anglosassone, David Hume è stato un filosofo di innegabile importanza; la sua complessa teoria della conoscenza è stata più volte ridotta a un mero scetticismo ma, a ben vedere, la riflessione di Hume rasenta la dimensione del relativismo, adottando al contempo un fine naturalismo gnoseologico.

La quarta parte del primo libro del Trattato sulla natura umana di Hume, pubblicato nel 1739, affronta, fra gli altri, il problema dell’esistenza del mondo esterno. La questione viene trattata dal filosofo scozzese a partire dal principio dell’atomismo percettivo, il quale stabilisce che le percezioni sono indipendenti e separate le une dalle altre. In base a questo principio Hume conclude che il lavoro dell’immaginazione è l’unica possibile via per spiegare l’esistenza continuata e distinta del mondo. Secondo Hume, tutte le percezioni della mente umana si risolvono in impressioni, idee e rapporti fra idee. Le impressioni sono percezioni vivide, forti e immediate: sono le sensazioni nel momento in cui vengono percepite. Le idee sono invece le “immagini evanescenti” o, in altri termini, le copie sbiadite e meno chiare delle impressioni vere e proprie.
Tutte le nostre idee, o percezioni deboli, secondo il filosofo, sono derivate dalle impressioni, o percezioni forti. Non possiamo, infatti, pensare una cosa senza averla mai percepita fuori di noi.

Oltre a negare l’esistenza di idee innate, Hume non ammette le idee astratte, concordando con il pensiero di Berkeley. Ogni qualvolta un’idea è ambigua, si deve sempre far ricorso all’impressione corrispondente, che la deve rendere chiara e precisa. Le impressioni, però, sono sempre relative a qualcosa di particolare. Per questo motivo le idee, che derivano direttamente dalle impressioni, non possono essere astratte. Hume distingue, tra gli oggetti della ragione, le relazioni fra idee e le relazioni fra questioni di fatto (matters of fact). Le relazioni fra idee riguardano le scienze matematiche e dipendono solo da operazioni dell’intelletto; le relazioni fra questioni di fatto, invece, si riferiscono alla realtà del mondo esterno. Le prime producono una conoscenza certa; le seconde solo una conoscenza probabile. Per esempio, mentre non è possibile pensare un triangolo che non abbia tre lati e tre angoli, niente ci dà la sicurezza che il pane che ci ha nutrito fino a ieri continui a farlo anche oggi. Solamente l’esperienza e l’abitudine ci danno conferma di questo fatto. Riguardo le questioni di fatto, afferma Hume, non possiamo mai parlare di necessità: la nostra conoscenza, in quest’ambito, può essere solo probabile. Tutti gli argomenti probabili sono fondati sulla supposizione che vi sia conformità tra passato e futuro. Questa conformità è una questione di fatto e non può essere provata se non attraverso l’esperienza.

Il problema del mondo esterno rientra, secondo Hume, nelle matters of fact. Il filosofo, dunque, si domanda come mai la mente umana creda in un mondo esterno necessario, sebbene non si possa parlare, riguardo le questioni di fatto, di necessità [1].

Lo scettico continua, in tal modo, a ragionare e a credere, quantunque affermi di non poter difendere le proprie ragioni con la ragione. E per lo stesso motivo è costretto ad ammettere l’esistenza dei corpi benché non possa pretendere di sostenerne, con nessun argomento filosofico, la realtà. […] Possiamo ben chieder quali sono le cause che c’inducono a credere nell’esistenza dei corpi; ma è vano domandare se i corpi esistano o no: questo, è un punto che dobbiamo presupporre in tutti i nostri ragionamenti.

Hume chiarisce subito la differenza tra un’esistenza continuata e un’esistenza distinta: la prima implica l’esistenza degli oggetti anche quando questi non vengono percepiti; la seconda, invece, comporta la realtà degli stessi oggetti indipendentemente dalla mente e dalle percezioni.
Come si diceva sopra, Hume concorda con Berkeley sul fatto che non possiamo andare oltre le nostre percezioni, cioè oltre ciò che Russell chiama sense-data: i nostri sensi ci trasmettono l’oggetto così come questo si presenta, senza darci il minimo sentore di qualcosa al di là di esso. Di conseguenza, si produce ciò che Hume definisce double existence di un oggetto che è dipendente e, allo stesso tempo, indipendente dalla percezione e che non può essere prodotto dai nostri sensi, ma solo da “un’inferenza o della ragione o dell’immaginazione”.
I nostri sensi, infatti, non ci ingannano: certo, quando percepiamo qualcosa, è come se lo percepissimo esterno a noi. Tuttavia, questa conclusione viene messa in discussione da tre considerazioni.

In primo luogo, quando percepiamo un oggetto, ne riceviamo l’impressione attraverso i sensi e attribuire l’esistenza alle impressioni è un atto della mente; in secondo luogo, i sapori, gli odori, i suoni, i colori, ovvero le qualità secondarie degli oggetti, non hanno, secondo Hume, un’esistenza nello spazio e svaniscono con il cessare dell’atto percettivo; in terzo luogo, la nostra vista non ci dà la distanza (outness) come una percezione immediata, ma sempre e solo come frutto dell’esperienza e del ragionamento. Dunque, si può dire che i sensi non ci danno alcuna nozione di esistenza continuata né di esistenza distinta. A conferma di ciò, Hume distingue tre specie diverse di impressioni trasmesse dai sensi: a) le impressioni delle qualità primarie (figura, volume, movimento, solidità dei corpi); b) le impressioni delle qualità secondarie (colori, sapori, suoni, caldo, freddo, odori); c) le impressioni di dolore e piacere causate dall’incontro del nostro corpo con gli oggetti esterni.

Monumento a David Hume

Prendendo come esempio le qualità secondarie, Hume fa notare la differenza tra il punto di vista del filosofo e quello del volgo: il primo ci dice che tutto ciò che si presenta alla mente non è altro che percezione che si interrompe in continuazione, ed è dunque dipendente dalla mente; il secondo, invece, confonde oggetti e percezioni, attribuendo un’ esistenza distinta e continuata soltanto alle cose che vede e che può toccare.

Il vero problema è, per Hume, domandarsi da dove venga la convinzione di tale esistenza distinta e continuata; la facoltà che ci porta a credere all’esistenza continuata e distinta dei corpi esterni è l’immaginazione e la credenza relativa non ha a che fare con la ragione, ma è, piuttosto, un “sentire”. L’immaginazione, secondo Hume, ha un grande potere sulle idee, tale che non ci sono idee tanto differenti l’una dall’altra che l’immaginazione non possa congiungere in modi diversi. L’immaginazione, dunque, è una facoltà riproduttiva che opera secondo le leggi dell’associazione, ossia: la somiglianza, la contiguità e la causalità. Questi principi associativi sono i soli legami che tengono insieme i nostri pensieri e per questo l’associazione diviene, per Hume, “il cemento dell’universo e tutte le operazioni della mente ne debbono in grande misura dipendere” [2].

Quando osserviamo una certa costanza nelle nostre percezioni noi tendiamo, secondo Hume, non a considerare queste percezioni intermittenti come differenti (come sono nella realtà), ma come sempre identiche, a causa della loro somiglianza. Dunque, annulliamo l’interruzione delle percezioni fingendo che queste siano connesse le une alle altre in un’esistenza reale: “Questa supposizione, o idea di continuata esistenza, acquista forza e vivacità dalla memoria delle impressioni spezzate e dalla tendenza che queste fan sorgere in noi di supporle identiche: ora si è mostrato già che la vera esistenza della credenza consiste nella forza e vivacità della rappresentazione” [3].
Alan Musgrave, a questo proposito, ha proposto una lettura della teoria humiana che condurrebbe all’ irrazionalismo [4]:

La ragione umana potrà anche guidarci allo scetticismo, ma la natura umana ci guida altrove. La soluzione di Hume (se soluzione si può chiamare) è una volta di più quella di abbracciare l’irrazionalismo. Possiamo disporre l’argomento di Hume in modo seguente:

1. Noi ragioniamo e dobbiamo ragionare induttivamente.

2. Il ragionamento induttivo è scorretto.

3. Ragionare in modo scorretto è irragionevole.

Quindi noi siamo, e non possiamo non essere, irragionevoli.

Da un lato, Hume si chiede perché crediamo nell’esistenza del mondo esterno, ma soprattutto perché non possiamo fare a meno di credervi; dall’altra, si domanda se questa credenza sia ragionevole oppure frutto dell’istinto. La conclusione dunque, per Musgrave, è che l’uomo sia un essere irrazionale e non può fare a meno di queste credenze: “I Greci pensavano che l’uomo sia per natura un animale razionale, Hume pensava che l’uomo sia per natura un animale irrazionale” [5].

L’interpretazione di Musgrave è forse eccessiva, tuttavia l’esempio sottolinea il fatto che la natura umana porta ad un tipo di ragionamento, quello induttivo, che lo stesso Hume considera non conclusivo. Poniamo il caso della nozione di causa ed effetto. Quando vediamo una palla da biliardo che si muove verso un’altra, la nostra mente è immediatamente spinta dall’abitudine verso il consueto effetto, ovvero che la seconda si muoverà in una certa direzione, dopo essere stata colpita dalla prima. Tuttavia, non c’è nulla nelle palle da biliardo, astrattamente considerate ed indipendenti dall’esperienza, che ci induce a formulare una simile conclusione. Hume insiste sul fatto che, poiché gli argomenti induttivi non sono conclusivi, l’appello all’esperienza passata non può provare o giustificare una credenza come quella che ad ogni causa segua necessariamente un effetto. Dunque, la nostra mente può basarsi soltanto su congiunzioni costanti, formate mediante la coerenza dell’esperienza acquisita.

Secondo Hume, le percezioni sono esistenze esterne e interrotte e la nozione di una loro esistenza continuata e distinta deve essere data dalla concorrenza di alcune qualità di queste impressioni e le qualità dell’immaginazione. È evidente anche che le impressioni di passioni, come il dolore e il piacere, non hanno un’esistenza esterna, e che la loro percezione è interna: il calore del fuoco crediamo sia nel fuoco stesso; ma il dolore che si prova se ci avviciniamo troppo non riteniamo che abbia un’esistenza fuori della percezione.

Frontespizio David HumeLa costanza è quella qualità che attribuiamo agli oggetti esterni di cui abbiamo continuamente l’impressione: le montagne che vedo affacciandomi dalla finestra della mia camera mi sono sempre apparse in quel modo, e se mi volto per un attimo, so che quelle rimarranno sempre al loro posto. Tuttavia la costanza, secondo Hume, non è sufficiente per attribuire agli oggetti un’esistenza continuata: spesso, infatti, gli oggetti mutano di disposizione e qualità. Ma bisogna osservare che, in questi mutamenti, per la regolarità con cui essi si presentano, conservano una coerenza che fa da fondamento al ragionamento di causalità il quale produce la credenza di una continuata esistenza.

Se guardo il sole alle nove di mattina e poi lo guardo alle dodici, osservo che c’è stato un cambiamento di posizione, tuttavia riconosco il sole come lo stesso di prima e so, per esperienza, che non può essere un altro sole. Ma qual è il modo, si chiede Hume, in cui la coerenza e la costanza ci portano a credere nella continuata esistenza dei corpi? Noi diamo agli oggetti esterni una regolarità maggiore rispetto a quella che osserviamo nelle nostre semplici percezioni, inferendo l’esistenza continuata degli oggetti esterni dalla loro coerenza e dalla loro costanza. Infatti, la costanza non è mai perfetta: basta chiudere gli occhi o voltarsi per non percepire più ciò che stavamo percependo; tuttavia siamo naturalmente inclini ad operare una connessione tra ciò che percepiamo ora e quello che percepivamo poco prima di voltarci. Ma, secondo Hume, ogni ragionamento, concernente materie di fatto, proviene unicamente dall’abitudine e questa può essere soltanto l’effetto di ripetute percezioni. Quindi, la credenza di un’esistenza continuata non può essere il diretto e naturale effetto di una costante ripetizione e connessione, ma deve nascere dalla cooperazione di costanza e coerenza o, in altri termini, di percezione e memoria.

Lo scetticismo humiano non è radicale come vorrebbe Musgrave. Quello di Hume è, piuttosto, uno scetticismo moderato, dovuto al fatto che lo stesso filosofo si avvale del privilegio dello scettico, confessando di non saper far conciliare i principi della ragione con quelli dell’immaginazione. Hume dichiara, infatti, nell’ Appendice al Trattato, che tutte le nostre percezioni “sono esistenze distinte e che la mente non percepisce mai una connessione reale tra esistenze distinte” [6]. Il problema della double existence, dunque, sembra rimanere insoluto per Hume. Tale difficoltà, però, non viene dichiarata insormontabile dal filosofo, il quale dedicherà gran parte della sua opera al tentativo audace di sciogliere queste contraddizioni.

Note

[1] D. Hume, Trattato della natura umana, (1739), Milano, Bompiani, 2001, parte IV, sez. II, p. 201.

[2] D. Hume, D. Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana, (1740), Bari, Laterza, 1999, p. 99.

[3] D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., vol. I, parte IV, sez. II, p. 213.

[4] A. Musgrave, Senso comune, scienza e scetticismo, 1993, Milano, Cortina, 1995, p. 184.

[5] Ivi, p. 177.

[6] D. Hume, Trattato della natura umana, cit., p. 1245.

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