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Cinema

Sull’estetica amatoriale: James Agee e il Neorealismo

Ho il sospetto di essere, più di quanto non si creda, nella vostra stessa situazione: profondamente affascinato dai film, considerevolmente abituato fin dall’infanzia a guardarli, a rifletterne, a parlarne. Ma assolutamente, o quasi, senza alcuna esperienza, o anche solo qualche conoscenza di seconda mano, su come essi siano realizzati. Se questo assunto è corretto, partiamo tutti dallo stesso livello e con gli stessi handicap e ciò mi qualifica diversamente solo per due aspetti. È mio compito condurre a termine la conversazione, nel ruolo di critico amatoriale tra altri critici amatoriali. E potrò essere d’aiuto e di interesse solo se il mio giudizio amatoriale sarà saggio, stimolante, illuminante.[1]

James Agee, 1937 - Foto Walker EvansCon queste parole lo scrittore e critico americano James Agee si rivolge per la prima volta ai suoi nuovi lettori, assumendo l’incarico di critico cinematografico per la rivista The Nation nel 1942. Si tratta di un passaggio molto utile per far luce sulla figura di James Agee, poiché ci offre uno scorcio del “credo” con il quale l’autore si avvicina al cinema e al ruolo di critico che gli è stato assegnato, ovvero quello di essere un non-professionista. 

Nonostante la sua dichiarata “non-competenza”, Agee ha esercitato un’influenza enorme sulla critica cinematografica statunitense. Certamente, l’autore di A Death in the Family, per cui fu insignito del premio Pulitzer postumo – è stato aiutato in questo dal fatto di essere approdato sulle pagine della rivista Time e più tardi su quelle di The Nation quando era già un eccelso e celebrato scrittore. Tuttavia, gran parte del merito Agee lo deve a se stesso e alla sua sorprendente sensibilità – emotiva, morale ed estetica. Indagare ogni sfaccettatura dell’attività critica di James Agee è un’operazione piuttosto difficoltosa in quanto l’approccio teorico ed estetico con il quale l’autore si avvicina al cinema sfugge ad ogni facile categorizzazione. L’unico filo conduttore che lega tra loro le diverse recensioni è la viscerale passione di Agee per il cinema, considerato da lui stesso “la più grande proposta di arte popolare dai tempi del teatro elisabettiano. Un’arte capace di catturare la paralizzante energia elettrica del presente.”[2] 

Per iniziare l’analisi della produzione critica di Agee può essere di aiuto riflettere sulle parole di un altro grande critico americano, di cui ho già offerto una lettura analitica per Fucine Mute: Pauline Kael. La scrittrice newyorchese si esprime così su James Agee e sul suo lavoro: “La grandezza di critici come André Bazin in Francia e James Agee in America risiede nel fatto che essi si affidano totalmente alla loro intelligenza e alla loro intuizione e non si adagiano mai su formule predeterminate.”[3] 

James AgeeCiò che viene esaltato di Agee – per altro, da parte di un critico che non si trova certo sulle sue stesse posizioni – è l’intuizione estetica, a cui si lega la capacità di sviluppare un giudizio forte e indipendente da ogni corrente di pensiero precostituita. Tuttavia, ridurre la questione in questi termini non aiuta a fare chiarezza sul suo modo di concepire la critica cinematografica da parte di Agee, e sull’influenza che la sua posizione ha esercitato all’interno del mondo del cinema americano. Per addentrarsi in questo compito si partirà dunque da un exemplum concreto: la brillante recensione che James Agee scrive nel 1947 sul film neorealista Sciuscià di Vittorio de Sica[4]:

Il principio elementare della vera ragione, ovvero, della ragione che coinvolge non solo la parte istintiva del cervello, ma l’intero essere, risiede, suppongo, nella capacità di riconoscere se stessi e gli altri innanzitutto come esseri umani, e di riconoscere altresì la fondamentale e assoluta responsabilità di ogni essere umano verso gli altri (…) Non sono per nulla sicuro del mio vocabolario, ma credo che ciò possa essere definito attitudine umanistica dell’uomo.

Quello riportato è il paragrafo iniziale dell’articolo. Ciò che sorprende è il fatto che si tratti di un lead ben più filosofico che non critico-cinematografico. In queste righe, infatti, emerge una vigorosa dichiarazione umanistica e morale nei confronti dell’uomo – inteso in una astratta generalizzazione – e di ciò che lo distingue da tutti gli altri esseri viventi – l’empatia e la responsabilità reciproca – senza che venga mai chiamato in causa il film in esame. Si tratta di un vero e proprio azzardo giornalistico e stilistico, frutto soprattutto della piena libertà con cui Agee scriveva sulla rivista e interpretava il proprio ruolo di critico. Innanzitutto, si ritrova qui la sua estrema anti-convenzionalità e la sua tendenza ad inquadrare i film all’interno di un contesto più ampio, in grado di legare tra loro una visione umanista della realtà e l’idea di “cinema come arte”, che tanto Agee difendeva. In secondo luogo, è forte il senso di moralità delle parole di Agee, moralità intesa non tanto nella sua accezione pietistica, quanto come solido sistema di valori da cui far discendere ogni successiva interpretazione critica. A tal proposito, il cattolicesimo è una coordinata sempre soggiacente all’opera critica di Agee, derivatagli in larga parte dalla sua formazione in un collegio di monaci episcopali. Qualche paragrafo più avanti, Agee affronta la duplice questione, a lui tanto cara, del cinema come “mezzo per cogliere il reale” e come “mezzo per poeticizzare il reale”:

Sciuscià, per il fatto stesso di fornire un esempio così eloquente della vitalità di questa attitudine [umanistica N.d.T.], sembra ergersi quasi da solo nel mondo e rappresentare una notizia tanto rivitalizzante e festosa, quando il sapere che un grande eroe che si pensava assassinato, esiliato e corrotto, vive ancora in tutto il suo valore. Questo è uno dei pochi film interamente vivi e interamente razionali mai realizzati. (…) Ognuno emerge dal film ostentando una profondità e una complessità di realismo che è incommensurabilmente oltre la speranza del mero naturalismo; dal momento che ogni personaggio viene percepito come un essere umano a tutto tondo, lo spettatore sente che in ogni istante potrebbe accadere qualsiasi cosa e che le ragioni per le quali accade ogni cosa sono incredibilmente complesse e variano in continuazione.[5]

Vittorio De Sica

In questo estratto si ritrova un sunto dell’intera visione estetica di Agee. Pur partendo dal presupposto che il cinema è il mezzo principale attraverso cui riprodurre la realtà, l’autore è altrettanto consapevole che per considerare un film “artistico” (accostando così il cinema alla pittura, al teatro, alla letteratura) è necessario che il regista riversi nelle immagini uno sguardo poetico, estetizzante, e possibile solo sfruttando appieno le potenzialità della macchina da presa. De Sica, secondo Agee, è riuscito a centrare questo obiettivo in maniera eccelsa:

Quasi ogni minuto del film ostenta una sorta di sconsideratezza, magnanimità e profonda, saggia, emozionale, franchezza che, sono convinto, potrebbe difficilmente esistere (se non per nulla) a meno che coloro che hanno lavorato al film non siano stati tutt’uno con un più ampio, appassionato e realistico pubblico: in altre parole, gran parte delle persone devono essere state toccata, almeno per un momento, dalla particolare vivacità che conferisce al film il suo peculiare splendore.[6]

Come si capisce bene da queste parole, che sfiorano la prosa d’arte, l’approccio critico di Agee è principalmente impressionistico: legato in larga parte a una estrema sensibilità estetica che quasi mai si sente in dovere di fornire giustificazioni di carattere tecnico. Proprio per questo, Agee è stato talvolta accusato dai suoi detrattori di un’eccessiva soggettività nelle proprie recensioni, e di “dimenticare” considerazioni specifiche sugli aspetti più prettamente formali dei film. Tuttavia non si devono dimenticare le prime parole di Agee da critico di The Nation: “partiamo tutti dallo stesso livello e con gli stessi handicap”; Agee, insomma, non ha mai nascosto la propria non-professionalità e, anzi è proprio denunciandola apertamente che è riuscito a farne uno dei suoi punti di forza agli occhi del pubblico. Essere un amatore ha, dunque, anche dei vantaggi, come ad esempio la possibilità di concentrarsi sulle qualità intrinseche del film, senza curarsi delle complesse difficoltà – tecniche e finanziarie – che hanno assillato il regista e che avrebbero potuto distrarre il critico professionista dalle proprie responsabilità “di giudizio”, nei confronti dei lettori. Questa idea viene ribadita nella recensione scritta nel 1948 a proposito di Vredens Dag di Carl Dreyer, Agee osserva: “C’è una sola regola per i film di cui, in ultima istanza, mi preoccupo: che il film coinvolga gli occhi e che faccia il suo lavoro attraverso gli occhi. Pochi registi riescono a fare questo, anche tra coloro che sono molto apprezzati.”[7]

The NationQui si ritrova in nuce una definizione del film come prodotto primariamente visivo che si riallaccia bene all’idea di cinema come arte enunciata poco sopra. È anche in questa luce che va letto il rifiuto del sonoro da parte di Agee: se egli, infatti, non perde occasione nelle sue recensioni per svilire il contributo del suono al cinema – arrivando addirittura ad affermare nella recensione di Prelude To War che il più grande servizio che le parole possono fare per lo schermo è “astenersi” – è perché egli è fermamente convinto che i film americani degli anni Trenta e Quaranta siano “dominati dalla parola”, ai danni dell’immagine (una posizione condivisa da molti puristi del cinema a cavallo degli anni Trenta).

L’ultimo aspetto da evidenziare nel lavoro critico di Agee è la sua propensione per la “semplicità” (o naturalezza) del “girato”, a cui oppone l’artificiosità e la sfarzosità incarnata dalle produzioni Hollywoodiane. Con il termine “semplicità” Agee si riferisce a un ampio spettro di caratteristiche che i film devono possedere per essere veramente artistici: dal fatto che siano girati in un set all’aperto e non in studio, al fatto che “si basino su una mera, piccola scusa per una storia”[8], fino a preferire le performance di attori amatoriali – più genuine – a quelle di attori professionisti. E non è difficile scorgere in quest’ultima predilezione il tentativo mimetico da parte di Agee di ricercare nel cinema ciò che egli stesso rappresenta nel mondo della critica: ovvero un esempio di viscerale spontaneità artistica, non corrotta dall’ambiente esterno. Anche così, allora, si spiega il grande amore di Agee per il Neorealismo italiano e per registi come De Sica e Rossellini che spesso utilizzano nei loro film attori non professionisti. La recensione di Sciuscià torna di grande aiuto:

Questo film non è una grandiosa opera d’arte o, per quello che può contare, un’opera interamente ben realizzata. Ma ha alcune considerevoli virtù oltre a quelle già menzionate: è una delle poche commoventi e mature “love stories” che siano mai state proiettate sullo schermo; la recitazione dei giovani attori, tutti amatori, e dei pochi attori professionisti, è stupendamente orchestrata; e possiede un’illusione di spontaneità che (…) è uno dei grandi miracoli del cinema.[9]

 Per quanto concerne, all’opposto, lo scetticismo con il quale Agee affronta a più riprese le produzioni hollywoodiane bisogna sottolineare che la ragione principale di questo ostracismo è dettata in larga parte dal clima opprimente e censorio in cui gli studios si erano chiusi negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta. Il codice di regolamentazione morale adottato da Hollywood, conosciuto anche con il nome del suo promotore, Will Hays, contribuì in quei decenni a diffondere nel mondo del cinema americano un clima di censura preventiva che condusse a produrre pellicole spesso scevre di qualsiasi tematica scottante, così da risultare, in ultima analisi, necessariamente ipocrite. Ben consapevole della pressione che il codice Hays esercitava sulle spalle di sceneggiatori, registi e produttori, Agee scrive nella recensione al film Wilson di Henry King che: “Hollywood è impaurita a morte dalle sue mature responsabilità, ma è anche desiderosa di assumersele”, augurandosi così che le restrizioni del codice Hays vengano finalmente allentate, in favore di un ritrovato senso di responsabilità. È da questa condizione di estremo soffocamento culturale, dunque, che nasce la grande ambivalenza di Agee verso Hollywood (ambivalenza che si raffredda solo negli anni Cinquanta quando l’autore contribuirà ad alcune sceneggiature per la Twentieth Century Fox).

Hollywood

A livello stilistico va detto che, sebbene Agee sviluppi uno stile necessariamente aperto al pubblico, è molto marcata nella sua scrittura la tendenza a sovraccaricare il periodo di aggettivi e verbi. Si tratta tuttavia di un “peso” che non viene quasi mai avvertito dal lettore poiché l’autore evita accuratamente i cliché retorici: ogni parola è ponderata, sia in relazione al senso, sia al suono, in modo tale da non affliggere il piacere della lettura. Inoltre, un topos classico della retorica di Agee è quello di (contro)bilanciare sempre il proprio punto di vista con una visione di segno opposto. Sebbene fortemente soggettiva, quella di Agee è una critica che non manca mai di mettere sullo stesso piano prospettive diverse, problematizzando quindi la prassi del giudizio. Nell’introduzione al libro Agee On Film David Deenby scrive:

La parola preferita di Agee è but. È sempre intento a rigirare i suoi giudizi, esaminare il rovescio della medaglia, in modo onesto, paziente, ma senza indecisione o timidezza. Per tutta la sua insistenza sul rispetto, Agee avrebbe odiato il falso rispetto tipico della correttezza politica. Lo odiava nelle sue prime sembianze degli anni ’40: nel perbenismo degli studio che soffoca la vita nei film; nello stupido ammorbidimento di ciò che c’è di duro e di divertente nei film degli anni ’30.[10]

Si ritrova qui una conferma, non solo di quanto affermato in precedenza riguardo all’ambiguità con cui Agee guarda al mondo di Hollywood, ma anche una riprova del tentativo dell’autore di non perdere di vista quelle opinioni che pure non rientrano nel suo modo di intendere esteticamente il cinema.

Certo, ciò che non manca mai in Agee è la volontà di emanare un proprio giudizio. L’autore, infatti, come annunciato nella lettera su The Nation, si sente responsabile nei confronti del lettore e concludere un articolo senza aver espresso una posizione netta a riguardo del film recensito, rappresenterebbe per lui un oltraggioso tradimento del patto di fiducia stretto con il pubblico. La prosa, dunque, si fa engagé, militante, operativa, ed è assumendo queste responsabilità che Agee si sente in dovere, quasi per sdebitarsi nei confronti del lettore, di presentare anche prospettive estetiche e di gusto diverse dalle proprie. Ultima, estrema rivendicazione di onesto anti-intellettualismo.

Note

[1] James Agee,  Agee On Film: Reviews And Comments (vol. I), New York, McDowell/Oblensky, 1958
[2] James Agee, ibidem
[3] Pauline Kael, I Lost It At The Movies, Boston, Little, Brown and Co., 1994
[4] James Agee, “Shoeshine”, in The Nation n° di ottobre, 1947
[5] James Agee, ibidem
[6] James Agee, “Day of Wrath”, in The Nation, 22 maggio 1948
[7] James Agee, nota 1
[8] James Agee, nota 4
[9] James Agee, ibidem
[10] James Agee, nota 1

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