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Scrittura

Le poesie nascoste di Elio Apih

Vorrei capire. Elio Apih ripete spesso questa frase. Alcune settimane fa me lo aveva confidato: nel corso della mia vita ho cercato di capire.

E poi lo ha ripetuto recentemente, presentando la nuova edizione della guida alla Risiera di San Sabba: ho cercato di capire. Credo sia sempre una bella vita quella spesa a cercare di capire. La vita come ricerca, per parafrasare Ugo Spirito.

Immagino sia per questo che Apih, dopo un primo approccio alla filosofia abbia scelto la via della ricerca storica. Non certo per amore di carriera, come accade per certi accademici abituati ad anteporre il ruolo, la funzione, i titoli all’onestà intellettuale. No, io credo che Apih abbia seguito la via della Storia proprio con la curiosità, il rovello, di chi davvero vuole sapere come sono andate le cose, di chi vuol capire, appunto, perché la gente si ammazza, e poi fa pace, e poi si ammazza di nuovo, e che cosa muove certi meccanismi, che cosa c’è dietro fiumi di parole, di proclami, di presunte certezze.

Posso solo immaginare quanto sia faticoso interpretare la vita in questo modo. Perché chi si mette su queste strade sa che se vuole davvero andare fino in fondo prima o poi sarà costretto a cambiare direzione, a tornare sui suoi passi, a scendere per poi risalire ancora, ad abbandonare le scorciatoie , ad ammettere gli errori. Credo funzioni così quando a muovere il nostro fare, il nostro agire, è un autentico bisogno di comprensione, e non un più rassicurante anelito di, chiamiamola così, crescita materiale. (Che per altro chiede anch’essa i suoi bravi sacrifici).

Dicevo di una vita spesa a cercare di capire. Elio Apih lo ha fatto utilizzando gli strumenti a lui più congeniali, quelli in dotazione allo storico. Strumenti che gli hanno permesso, in virtù di quell’onestà intellettuale di cui certo non difetta, di indagare tanti percorsi, di capire e soprattutto di aiutare noi — suoi lettori, suoi allievi, suoi amici — a capire.

Che è poi il compito dei maestri, quelli veri, capaci di rispondere a certe domande proprio perché quelle domande loro, i maestri, sono i primi a porsele. E, di solito, anche con una certa urgenza. Succede, però, che sulla via delle ricerca a volte gli strumenti in dotazione possano non bastare. Possono non bastare al filosofo, cui certe antinomie, certe incongruenze, certe sfumature rischiano di sfuggire al controllo delle strutture della speculazione logica. Possono non bastare allo scienziato, costretto a rivedere le sue formule di fronte alla mutevolezza di ciò che riteneva immutabile. Possono non bastare all’artista, che gli strumenti, a volte, proprio non sa come usarli. E possono non bastare allo storico, che talvolta deve fermarsi di fronte a documenti reticenti o fuorvianti, o davanti ai silenzi dei sacrari, o che magari rischia di smarrirsi negli oscuri meandri degli archivi.

Penso però che chi si mette in testa di voler veramente capire, sia esso filosofo, scienziato, artista o storico, non si accontenta mai. Non accetta limitazioni. E non per ambizione, per amor di carriera. Proprio per cocciutaggine. Per dispetto, oserei dire. Un angolo è rimasto al buio? Si faccia luce. Qualcosa è sfuggito alla disamina degli eventi? Bisogna riacciuffarla. Le ombre sono sempre troppe, ma qualcuna, insistendo si può allontanare. E se le attrezzature in dotazione non sono sufficienti — meglio: se gli strumenti non sono adatti, è giusto darsi da fare per trovarne altri. Con quella cautela, però, e quel pudore che derivano dalla consapevolezza del proprio agire.

Credo sia per questo che Elio Apih abbia tenuto nascoste le sue poesie. Di poesia ne mastico poca, però immagino che la poesia offra buone occasioni di indagine. La poesia dà la possibilità di dire cose che altrimenti è difficile dire, può entrare in profondità in certi anfratti dove la luce delle torce non arriva e se magari non può dare risposte, almeno aiuta a capire — eccoci di nuovo al capire — che cosa si agita là sotto.

In fondo è un gioco, e i poeti questo lo sanno. Non una ri-creazione, come per i narratori, ma una puntigliosa, faticosa, pericolosa a volte, esplorazione di territori ignoti.

Credo sia questo che abbia portato Apih a segnare le tappe di un diario poetico; Da quella “Letizia di primavera”, datata 4 aprile 1939, in cui il diciassettenne Apih confessa la sua “seconda nascita” e la volontà di avviarsi “verso strane chimere di sogni”, all’ultimo “Egitto”, micidiale epitaffio dedicato a chi è “stato re”: l’adolescente che sentiva discendere nell’animo “una musica strana” e guardava ottimista ai “sogni di pace e di gioia”, ha camminato molto, ha penato molto, ha visto e cercato tanto e oggi, varcato il nuovo millennio ha capito che “la realtà rompe i sogni / li frantuma, li trasforma in polvere d’oro”.

Ecco cosa rimane dei faraoni: polvere d’oro. è lo storico, l’uomo-storico, che ce lo dice. Lo ha capito a sue spese, e poi lo ha raccontato nei suoi libri, lo ha spiegato ai suoi allievi. Lo ha detto con parole chiare, trovandone tracce nelle vicende indagate. Ma questo, che la polvere d’oro copre i volti dei faraoni morti, poteva dirlo solo in poesia.

Ecco: “Le poesie tenute nascoste” sono i momenti del non detto, del difficile a dire altrimenti. Sono a volte scherzi, piccole vendette, confessioni brucianti, momenti di abbandono o di ottimismo, suggestioni, appunti, ragguagli. Trasfigurazioni, anche, che possono portare, ad esempio, a un elogio del maiale.

Siamo grati a Elio Apih di aver tirato fuori le sue “Poesie tenute nascoste”. Sapevamo il grado della sua onestà, della sua intelligenza, delle sue capacità di ricercatore. Ma questo giocoso abbandono , questo bisogno forte di capire nonostante tutto, di usare le parole per rompere il giocattolo come un bimbo curioso e un po’ dispettoso, questo l’avevamo solo intuito. Ed oggi è molto bello, e direi confortante, averlo capito.

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