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Cinema

Perry Ogden

La ragazza Pavee

Immagine articolo Fucine MutePerry Ogden, noto fotografo inglese, giunge alla settima arte con un’intensissima opera prima ambientata ai margini di quell’Irlanda rigogliosa e prospera di cui in questi ultimi anni abbiamo spesso sentito tessere le lodi. Winnie, protagonista di Pavee Lackeen, è una Traveller e vive assieme alla famiglia in un vecchio camper parcheggiato nella periferia industriale di Dublino. Winnie è molto brillante, ama dipingere ma va a scuola svogliatamente perché preferirebbe studiare in un istituto non destinato a quelli come lei, le piace passeggiare per la città e vorrebbe abitare in un piccolo appartamento in centro da condividere con suo fratello. Perry Ogden la segue con discrezione per una settimana permettendoci di scoprire quanto sia difficile per una ragazzina di dieci anni fare i conti con la propria identità e con lo stile di vita connesso al fatto di appartenere a questa comunità.
Fucine Mute ha incontrato il regista durante la presentazione di Pavee Lackeen alla XX Settimana Internazionale della Critica di Venezia.

Michela Cristofoli (MC): Sei un fotografo di moda molto famoso, hai collaborato con riviste come Face e Vogue. Vorrei chiederti come mai hai deciso di esordire al cinema con un film incentrato su un tema sociale così forte, come Pavee Lackeen.

Perry Ogden (PO): Penso che l’interesse per questo progetto sia iniziato mentre realizzavo Pony Kids, una raccolta di immagini di ragazzi irlandesi corredate da loro brevi descrizioni ed interviste. I soggetti protagonisti sono abbastanza singolari. A metà degli anni ‘90, infatti, a Dublino esistevano numerosi giovani senza famiglia che allevavano puledri nei giardini dietro casa o nei parchi pubblici. Non c’era nessuna legge che impedisse di tenere cavalli in città. Poi, avendo il fenomeno preso dimensioni considerevoli, le forze dell’ordine hanno cercato di limitare il numero degli animali introducendo delle leggi che prescrivevano l’obbligo di avere una licenza, una stalla e un acro di terra per poterne possedere uno. Tutto ciò ha causato la fine di questa consuetudine. Il desiderio che mi ha spinto a realizzare il libro era di approfondire la conoscenza delle condizioni in cui i ragazzi si trovavano a vivere. Nel centro di Dublino c’è un’importante fiera di cavalli che si tiene ogni prima domenica del mese. Ormai sta declinando perché è stata spostata in un’altra area, ma, alla fine degli anni ‘90, quando stavo pensando a Pony Kids, ci sono andato frequentemente. Attrezzavo un piccolo studio, sceglievo alcune persone per fare loro degli scatti, quindi gli regalavo una polaroid e mi tenevo il negativo. Alla fiera erano presenti molti traveller. I giovani erano impegnati a portare al galoppo i cavalli e gli adulti a venderli. Questo è stato il modo in cui mi sono avvicinato a loro. All’inizio non avevo pensato di fare un film esclusivamente su questo gruppo di persone ma sullo stato dei senzatetto ed in particolare dei ragazzini senza casa che crescono ai margini della società. Volevo esplorare come fosse la vita dei giovani più disagiati nella nuova Irlanda prosperosa che ora ha un’economia opulenta.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: In una tua intervista hai raccontato di esserti recato spesso nei tribunali, in particolare nella Corte 55, per seguire i processi in cui capitava fossero coinvolti gli adolescenti. Una scena molto significativa di Pavee Lackeen si svolge in un carcere minorile. Perché hai scelto di non dedicare il tuo lungometraggio espressamente a questa tematica?

PO: È vero, assieme al mio cosceneggiatore Mark Venner abbiamo passato molto tempo tra le aule dei tribunali. Dopo un paio di volte ci siamo accorti che tutti coloro che venivano portati lì provenivano da quattro o cinque diverse aree della città. Abbiamo raccolto le loro storie e questo ci ha fatto capire molto sulla situazione delle periferie. Ad un certo punto abbiamo pensato di realizzare un documentario sui problemi della giustizia ambientato direttamente in una corte. Però non è possibile riprendere nei tribunali minorili perché i ragazzini non hanno ancora diciotto anni, ci sono diverse restrizioni, poi c’è anche la stampa presente. Così, riflettendo sulle varie possibilità, siamo arrivati a Pavee Lackeen.

MC: Tutti i protagonisti del film sono membri della stessa famiglia. Come mai hai scelto proprio i Maughan?

PO: Un giorno io e Mark eravamo in tribunale quando sono arrivati Paddy Maughan e sua sorella Mary. Da quanto ho capito c’era stata una rissa nella zona dove vivevano. Verso le due di notte erano arrivate le forze dell’ordine, erano divampati degli scontri con i poliziotti e Paddy aveva dato dei calci alla macchina della volante. Così lui era stato portato in carcere per passarci la notte e la mattina successiva, assieme alla sorella, aveva dovuto presentarsi in tribunale. Durante l’udienza, quando Paddy aveva capito che, mentre per Mary non ci sarebbero stati problemi, lui non sarebbe stato rilasciato subito, si era alzato in piedi di punto di bianco, aveva tirato giù i pantaloni e scoperto le braccia dicendo al giudice: “Guardi qua le ferite che mi ha procurato la polizia”. Ho pensato che fosse un ottimo performer così ho chiesto il suo nome e l’indirizzo di casa. Due giorni dopo ho chiamato un agente con cui avevo ormai fatto amicizia che mi ha detto che Paddy sarebbe stato rilasciato il giorno seguente. Sono andato a trovarlo, l’ho incluso in Pony Kids e, mentre stavo pensando al film, ci siamo incontrati spesso. È stato fantastico. Attraverso di lui ho conosciuto Winnie ed il resto della famiglia. In particolare, quando ho visto Winnie per la prima volta, lei stava attraversando quel momento particolare della vita che sta a metà tra l’innocenza dell’infanzia e la consapevolezza dell’età adulta, anche se in effetti era molto matura. A dieci anni ne dimostrava già quattordici o quindici. Ho iniziato a filmarla e mi sono accorto che la macchina da presa l’amava molto. Questa simpatia della mdp è una cosa difficile da spiegare ma la si nota subito. Winnie ha un carisma particolare ed è molto curiosa. Così ho pensato che sarebbe potuta diventare lei la protagonista del progetto.

Immagine articolo Fucine MuteMC: Sì, Winnie è brillante anche se nel lungometraggio vediamo che non va a scuola. Sembra quasi la sorella minore di Rosetta (protagonista del film omonimo dei fratelli Dardenne, ndr). Non credi che potrebbe somigliarle sempre più, crescendo?

PO: Può darsi. Di sicuro quando Winnie sarà grande anche per lei potrà essere difficile trovare lavoro, come accade a Rosetta. La stessa cosa, ad esempio, sta capitando a sua sorella che adesso ha sedici anni e sta cercando un’occupazione, una casa. È molto dura per lei. Rosetta è un film che amo moltissimo. In effetti, si può dire che questo sia una sorta di prequel a ciò che si vede nell’altro lungometraggio. È Rosetta da giovane.

MC: Com’è stato, invece, lavorare con un gruppo composto in parte da attori e in numero maggiore da non professionisti?

PO: Ovviamente il casting ha risolto una parte importante del problema. Abbiamo cercato delle persone che sembrassero naturali, non consce della presenza della mdp. È facile capirlo. Stando sul set si nota subito chi non è a suo agio. Parecchio si può fare anche lavorando assiduamente con gli attori. Noi abbiamo girato tanto. Usando delle mini dv potevamo permetterci anche molti scarti. In questo modo tutti abbiamo potuto imparare. Anche per me è stato importante, visto che si è trattato del mio primo film. Alla fine un metodo l’abbiamo usato, in particolare per Winnie. Dato che era già abbastanza disinvolta ho cercato di farle sentire il meno possibile la presenza della videocamera, quindi mi muovevo intorno a lei con una troupe ridotta costruendo delle situazioni che potesse sentire come vere. Mi sono accorto che spesso si identificava al punto da scivolare dentro la storia. Con ognuno degli attori, comunque, ho seguito un percorso diverso. Bisogna creare delle scene in cui ciascuno possa credere in ciò che sta facendo, così da perdere la consapevolezza di venir ripreso. Per me era importante che nessuno recitasse ma che fosse presente. Non voglio delle performances. Anche agli attori professionisti che abbiamo selezionato è stata richiesta la stessa naturalezza. Altrimenti si sarebbe sentito un forte contrasto tra chi recita una parte e persone che sono se stesse.

MC: Dato che sei un fotografo hai deciso di girare in digitale pensando alla resa sgranata delle immagini che avresti ottenuto con questo mezzo?

PO: Devo dire che all’inizio mi sono chiesto se, disponendo di tutti i soldi di cui avrei avuto bisogno, non sarebbe stato interessante chiamare un direttore della fotografia. Poi ho pensato che, non girando solo per sei o otto settimane determinate ma per un tempo indefinito, sarebbe stato impossibile fare un contratto con un buon professionista. In realtà sono sempre stato abbastanza restio ad affidare ad altri la scelta della messa in quadro e della composizione dell’immagine. Infine ho capito che se avessi avuto il ruolo sia di regista che di direttore della fotografia avrei potuto creare una situazione più intima con gli interpreti, non sarebbe stata necessaria la presenza di un cameraman e di altri tecnici che avrebbero rappresentato delle distrazioni ulteriori. È importante aggiungere che la resa sgranata delle immagini rappresenta perfettamente, secondo me, il mondo in cui vivono i protagonisti del film.

MC: Nella prima scena di Pavee Lackeen si vede un’anziana signora che, leggendo la mano a Winnie, introduce quelli che saranno i principali elementi narrativi del lungometraggio, ad esempio la scuola e il matrimonio. Come hai conciliato le diverse tematiche con l’intento documentaristico del progetto? Poi vorrei chiederti chi è e cosa rappresenta questa vecchietta.

PO: Partendo dalla prima domanda devo dire che all’inizio volevo ottenere un film non narrativo, poetico, fatto di sole immagini. Però è una cosa molto difficile da realizzare perché è necessario, in qualche modo, trattenere il pubblico. Così, assieme a Mark, abbiamo pensato di inserire delle tracce di storie, questi piccoli elementi che tu hai citato. Tematiche come il matrimonio, l’emancipazione da casa, la scuola. Sono soddisfatto del compromesso, mi pare che così il progetto possa funzionare bene. La donna, invece, è solo una fattucchiera che Winnie va a trovare, nient’altro.

MC: Vive dalle sue parti?

PO: È anche lei una traveller che però risiede in un’altra zona di Dublino. Non è comunque né la nonna né una parente. Mi è sembrato che il loro incontro potesse essere un bel prologo per la storia.

Immagine articolo Fucine MuteMC: Nella sua ricerca della propria identità Winnie è attratta dalla città e da ciò che essa rappresenta. È un caso che siano tutti stranieri i commessi che incontra nei negozi che frequenta?

PO: Una delle idee era di mettere in risalto un cliché relativo al rapporto tra i traveller e gli abitanti della città secondo il quale questi ultimi non consentirebbero ai senza casa di inserirsi nel loro modo di vivere. Questo è un tema già discusso, non sarebbe stato interessante riproporlo. È molto più stimolante, invece, far vedere come gli immigrati arrivati in Irlanda negli ultimi quindici anni, siano essi africani, cinesi o russi, non distinguano i traveller dalle altre persone e quindi sono molto più accoglienti con loro. Winnie si sente benvoluta nei negozi dove va.

MC: Come mai c’è questo contrasto? Non conosco cosa rappresentano i traveller nella cultura irlandese.

PO: Normalmente le persone sono sospettose nei loro confronti perché esiste il pregiudizio che rubino, che siano violenti e comunque implicati in faccende losche. Io volevo far vedere cosa volesse dire per una traveller di dieci anni sentire tutte queste forze addosso e imparare a conoscerle.

MC: Ma i traveller non sono rom?

PO: No, non sono rom, sono d’origine irlandese.

MC: Però il linguaggio che usano è strano, non si capiscono bene le parole che usano quando parlano.

PO: Hanno un forte accento, spesso adoperano parole che derivano dallo Shelta oppure le capovolgono o ancora attribuiscono loro significati diversi. Hanno un codice, insomma.

MC: Winnie per tutto il lungometraggio sembra opporsi alla madre, orgogliosa della sua appartenenza al gruppo dei traveller. Credi che questo contrasto sia proprio delle nuove generazioni che vorrebbero integrarsi di più nella società o appartenga alla famiglia che tu hai scelto?

PO: Cerco di generalizzare, anche se le situazioni sono diversissime, perché esistono molti tipi di traveller. Ce ne sono di poveri, di ricchi, di quelli che vivono nelle roulotte, nelle case e qualcuno persino in vere e proprie ville. Però non sono in molti ad essere inseriti nelle professioni importanti della società: tra di loro ci sono pochi dottori, avvocati o scrittori. Anni fa l’Irlanda era povera ma in questi ultimi venti o trent’anni si è arricchita incredibilmente, non poteva preservarsi, era anacronistica, si è dovuta ammodernare. Negli anni ‘70 i traveller trasportavano delle merci dalle periferie con i carretti e i cavalli, molti di loro facevano dei lavori manuali, erano stagnai, ma poi le cose sono cambiate e non c’è stato più bisogno di tutto questo. Le attività nelle quali sono abili stanno scomparendo. Poi sono subentrate le droghe.

MC: Nel film hai accennato a questo problema.

PO: Si vede la scena in cui i due ragazzini sniffano la colla. Ora gli stupefacenti, anche pesanti come l’eroina, sono entrati profondamente nel loro mondo. I giovani, poi, vorrebbero avere una casa dove ci siano l’acqua, la doccia e tutto il resto. C’è un forte disagio perché desiderano le comodità di cui adesso non dispongono. Secondo me è un luogo comune dire che i traveller stiano bene sulla strada. Credo che al giorno d’oggi una gran parte di essi vorrebbe avere una casa dotata di tutti i servizi che rendono la vita più confortevole.

MC: In Pavee Lcakeen hai scelto di lasciare sempre la musica a livello diegetico. La sentiamo provenire dai registratori, dai personaggi che cantano o dalla macchinetta che Winnie usa quando va in sala giochi. Solo alla fine, quando la tensione è arrivata al massimo, hai inserito un pezzo d’accompagnamento off. Come mai?

Immagine articolo Fucine MutePO: Sì, l’idea era di disporre esclusivamente di musica interna, di non far ricorso mai a suoni extradiegetici. Solo per l’ultima scena ho inserito un brano esterno per sottolineare che è in atto un cambiamento dello stile della ripresa stessa. La mdp, infatti, si sposta leggermente di lato per guardare Winnie mentre va a prendere l’acqua e quando lei riparte verso casa con il secchio la camera resta ferma. Ci siamo staccati. Lei ritorna alla sua vita e noi alla nostra e volevo che anche l’uso della musica fosse diverso dal resto del lungometraggio dove invece arriva sempre dai registratori, dalla tv o dagli apparecchi dei negozi. Era importante che si rompesse questo legame dato dal fatto che tutto proviene da dentro il film e venisse accentuata la nostra separazione dalla storia.

MC: Oltre ai fratelli Dardenne ci sono altri autori che ami e ti hanno ispirato per il tuo lavoro?

PO: Sono un grande fan dei film realistici, a qualunque scuola appartengano. Mi piace il neorealismo italiano, ho visto un sacco di opere di De Sica, Rossellini, amo Accattone di Pasolini, ma anche Ken Loach. Un film in particolare che mi ha notevolmente influenzato è stato Streetwise. È un documentario realizzato da Martin Bell sui ragazzi senza casa di Seatlle. La sua compagna, la fotografa Mary Ellen Mark, aveva realizzato degli scatti per la rivista Life alla fine degli anni ‘70 e alcuni anni dopo sono tornati insieme nello stesso posto per girare il documentario. Il video si riesce a reperire negli Stati Uniti però non è facile trovarlo. Mentre preparavamo Pavee Lackeen, ne ho discusso con Mark e abbiamo deciso di girare allo stesso modo. Streetwise è privo di voce-off, sono riprese di vita. Poi ho amato molto Los olvidados di Bunuel, e tutta la produzione di Alan Clarke, un regista inglese che ha realizzato delle opere molto interessanti soprattutto per la tv dove ha rivoluzionato la tradizione britannica dei drammi televisivi iniziata negli anni ‘60 in cui si è formato lo stesso Loach. Negli anni ‘80 Alan Clarke ha ripreso questo filone togliendo però l’elemento narrativo. Nel suo film Elephant, ad esempio, in venti minuti non si sente che una battuta di dialogo. Ho dovuto andare al BFI per vedere tutti i suoi lavori. Ce n’è uno in particolare, si intitola Christine, dove riprende una ragazza che va a trovare i suoi amici ed assieme si fanno di eroina. Non c’è una vera trama. Quando l’ho visto l’ho trascritto. Ho estrapolato la sceneggiatura e l’ho analizzata assieme a Mark. Abbiamo studiato nei dettagli il film di Clarke per realizzare il nostro, quindi penso abbia senz’altro lasciato delle tracce profonde. Questo regista è stato uno dei primi ad usare la steadycam. Riprende gli attori da vicino, la videocamera diventa parte dell’azione rinforzando la concentrazione sui soggetti. Sono stato influenzato dal suo modo di seguire lentamente e con discrezione le persone. Mi piace lasciar emergere le situazioni in questo modo.

MC: Come ultima cosa vorrei chiederti se hai già dei nuovi progetti come regista o anche come fotografo.

PO: Adesso voglio concentrarmi su questo film, lo sto accompagnando a diversi festival. Toronto, Londra, Tessalonica sono i prossimi a cui parteciperò. Comunque ho già delle idee, anche se mi sembra troppo presto per parlarne. A gennaio voglio dedicarmi con calma per alcuni mesi al progetto che sto elaborando. Lo vorrei ambientare ai Caraibi, un luogo molto diverso da quelli dove ho lavorato fino ad ora. Devo capire se le idee a cui sto pensando sono realizzabili.

Immagine articolo Fucine Mute

MC: In passato hai curato un catalogo molto interessante sullo studio di Francis Bacon. Com’è stata quest’esperienza?

PO: Avevo cercato d’incontrarlo quando avevo diciassette o diciotto anni e scrivevo per una rivista che avevo costituito quando ero a scuola (intitolata Lipstick, ndr). Purtroppo non sono riuscito ad avere un contatto con lui, però poi mi è andata meglio perché a New York ho potuto incontrare Andy Warhol. Volevo fare un’intervista ad un pittore e loro due erano quelli che preferivo e conoscevo più approfonditamente. Così al posto di Bacon mi è capitato d’intervistare e fotografare Warhol. Vent’anni dopo ho esposto le mie immagini della serie Pony Kids alla Hugh Lane Municipal Gallery of Modern Art di Dublino. Il direttore, sapendo del mio interesse per Bacon, mi ha chiesto se ero interessato a fotografare lo studio del pittore di cui il museo era entrato in possesso. È stata un’esperienza molto bella. Sono rimasto per alcuni giorni da solo nell’appartamento e ho potuto fare ciò che volevo, senza ovviamente spostare nulla. Ci sono andato tre volte, sempre al mattino. Lo studio ha un abbaino rivolto ad ovest e dato che Bacon lavorava a partire dall’alba, dipingeva sempre con una luce diffusa, mai diretta, perché quando il sole aveva fatto il giro e i suoi raggi sarebbero potuti entrare dalla finestra, il pittore riponeva il pennello. Ho voluto fare i miei scatti nelle stesse condizioni per ricreare l’atmosfera in cui lavorava lui.

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