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Scrittura

Amélie Nothomb

La nostalgia felice – il nuovo libro di Amélie Nothomb

È da poco uscita per Voland l’edizione italiana dell’ultimo libro di Amélie Nothomb, La nostalgia felice. L’autrice ripercorre in questo volume il suo ritorno in Giappone, paese che ha segnato la sua vita di donna e autrice. Un viaggio destinato ad essere il soggetto di un reportage (Amélie Nothomb – Une vie entre deux eaux, che potete vedere qui) e che si rivelerà essere per l’autrice, determinata a smascherare il senso d’inconsistenza che la accompagna, una bellissima ricerca interiore. Il tesoro nascosto è un nuovo significato della parola nostalgia, tanto lontano da quello occidentale che la scrittrice coltivava da anni e che contemplava solo l’accezione malinconica del termine.

Ecco la presentazione del libro fatta in Francia, in un incontro con Eduardo Castillo:

La nostalgie heureuse - copertina franceseEduardo Castillo (EC): Per noi occidentali questo titolo, La nostalgia felice, significa qualcosa, ma non significa di certo la stessa cosa per i giapponesi.

Amélie Nothomb (AN): Non so se il mio libro sarà mai tradotto in Giappone, ma questo titolo in effetti non sarebbe di alcun interesse per i giapponesi, visto che per loro qualsiasi forma di nostalgia è felice; si chiederebbero per quale motivo dare al titolo la forma di un pleonasmo. In Francia è un paradosso: abbiamo una lunghissima tradizione di nostalgia triste…Per noi il passato è necessariamente triste: o perché è stato straziante, e allora lo è per definizione, o perché è stato bello e meraviglioso, ma il semplice fatto che evolva lo fa divenire ancora più straziante. Chiunque guardi al passato è considerato come un grande depresso, cosa completamente assurda poiché il passato custodisce dei tesori, e allora perché ricordarli dovrebbe costituire necessariamente un momento triste?

EC: L’occasione fa l’uomo ladro, e del resto l’uomo ladro fa l’occasione: è un canale televisivo ad invitarvi ad un certo punto a ritornare là, e voi raccontate questo momento…

AN: Capisco che per voi si tratti di una occasione che fa l’uomo ladro, ma per me non si è trattato davvero di questo. Innanzitutto è stata una cara amica a propormi di realizzare il documentario, e io ho pensato tra me e me: poverina, pensa veramente che a un qualsiasi canale televisivo possa interessare il ritorno di Amelie Nothomb in Giappone? Quindi ho dato subito il mio consenso, per la grande amicizia che ci unisce e perché ero certa che l’accordo non rappresentasse alcun pericolo, visto che nessuna equipe televisiva avrebbe mai investito un solo penny in una storia così poco interessante. Sfortuna vuole che, due settimane dopo, scopro che abbiamo il finanziamento. Quindi eccomi con le spalle al muro: devo onorare il mio impegno (perché sono comunque un po’ giapponese) e mi dico: che catastrofe! Io che non sono mai voluta tornare in Giappone perché è troppo emozionante e pericoloso fare tappa sui luoghi del proprio passato, sono obbligata a tornarci e ad essere costantemente filmata: un inferno. Mi preparo quindi a questo tormento, e miracolo: non c’è nessun inferno ad aspettarmi, è piuttosto un momento di grazia. Allora non sapevo che avrei consacrato un libro a questa esperienza, lungi da me, ma una volta rientrata in Europa, e che quando tutti mi chiedevano: “E allora? E allora?” io non avevo da dare in risposta che le due solite sciocchezze, mi sono detta: non è possibile, ci deve essere qualcosa di più profondo da raccontare.

EC: Per voi l’impronta del Giappone è qualcosa di indelebile…

AN: Completamente. Meno profonda di quanto pensassi, perché quando lasciai il Giappone, all’età di 5 anni, ripetevo a chi mi voleva ascoltare che ero giapponese. Per me non era una metafora, era una definizione, e vedevo che la gente mi guardava in modo strano pensando: “Ma cosa dice questa? Si vede che non è giapponese.” Ma per me era lo stesso, sapevo che avevo ragione e che un giorno avrei dimostrato al mondo intero che ero giapponese. Quando poi sono tornata in Giappone ho scritto Stupore e Tremori, che dimostra che in effetti non ero proprio giapponese.

Stupeur et trémblementEC: Una cosa che mi ha molto colpito del libro è il discorso su Fukushima che fate con il vostro ex fidanzato: lui dice di aver trovato il comportamento dei suoi compatrioti irrazionale, mentre noi li abbiamo trovati fin troppo razionali.

AN: E non solo, siamo andati anche oltre, rimanendo molto stupiti dall’estrema dignità del popolo giapponese. Immaginate Fukushima in qualsiasi altro Paese: non sarebbe mai stato così. Immaginate Fukushima in Francia, nessuno avrebbe parlato d’altro fino alla fine dei tempi, e sarei stata l’ultima a giudicarli, mentre in Giappone è straordinario il modo in cui hanno saputo minimizzare la catastrofe, e la grandezza con cui continuano a sopportare una cosa così aberrante. Questo per prima cosa, e riguarda il nostro punto di vista. Dal loro punto di vista, la questione può assumere dei risvolti inimmaginabili altrove: c’é stata una solidarietà interna così forte verso le vittime di Fukushima che una corrente di giapponesi ha deciso di cibarsi solo con verdure provenienti di Fukushima. È incredibile…

EC: Ci sono migliaia di giapponesi in Brasile, San Paolo è una delle città con la più forte immigrazione giapponese. Non so se siete a conoscenza di questo fatto, ma diversi anni fa molti brasiliani di origine giapponese hanno provato a tornare in Giappone: non hanno resistito un mese.

AN: Certo, e questo è vero per i brasiliani giapponesi così come per i giapponesi giapponesi. Basta che un giapponese abbia passato un anno all’estero, perché lo shock del rientro al paese natale sia terribile: il Giappone è il solo paese al mondo in cui esistono centri di riadattamento per giapponesi che hanno vissuto all’estero. Terribile.

EC: Quando parlate degli scrittori francesi che avrebbero potuto essere giapponesi, citate Marcel Proust. Perché?

AN: È proprio grazie alla famosa nozione che scopro in questo ultimo viaggio, quella di «nostalgia felice». Io che credevo di essere giapponese giustamente per questa nostalgia che praticavo da così tanto tempo, ho capito di essere solo una povera occidentale che si è sempre sbagliata, perché ha sempre praticato la nostalgia malinconica, deprimente, mentre non è questo che bisogna fare. E quindi mi dico: bisogna che impari a praticare la nostalgia felice, ma come fare? Ne discuto con il mio editore e ad un tratto penso a Proust: in fondo l’impresa di Proust consiste esattamente in questo, è un’impresa di nostalgia felice. Si tratta di cercare il passato non per desolarsi della sua scomparsa, ma al contrario per iniettare tutta la sua dolcezza nel presente.

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