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Cinema

Le rovine e le ombre di Manderley: Rebecca dal libro al film (II)

Le rovine e le ombre di Manderley: Rebecca dal libro al film (II)

Il presente saggio breve è tratto da ARBOR Ciencia, Pensamiento y Cultura CLXXXVI 741 enero-febrero (2010) 43-52. L’autrice è María Donapetry dell’Università di Oxford. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli.

La confessione

Rebecca (Hitchcock)La confessione di Maxim è il passaggio cruciale della storia. Fino a quell’istante, “l’esterna” ha cercato in tutti i modi di adattarsi e conformarsi a Manderley e a quello che pensa rappresenti per Maxim. Io ha cercato di comportarsi come “un’interna” senza avere consapevolezza (o quantomeno dando l’impressione di non averla) di essere importante e attraente agli occhi di Maxim proprio per il fatto di non appartenere a quel mondo. Se Maxim si è innamorato di lei è perche Io è, o sembra essere, l’esatto opposto di Rebecca. Quando, dietro consiglio della Signora Danvers, Io si traveste da Lady Caroline de Winter (come già aveva fatto a suo tempo Rebecca), assistiamo con candore alla sua trionfale discesa dalle scale finché Maxim e la sorella non la guardano con orrore. Né Io né noi conosciamo il perché di tale rifiuto ma in seguito scopriremo che, almeno per quanto riguarda Maxim, la reazione non è giustificata dal dolore per la perdita di Rebecca ma dal fatto che Io cerchi di assomigliare anche solo in parte alla prima moglie di lui, di riempire il vuoto lasciato da Rebecca. Io, da par suo, ha cercato di lottare contro il fantasma e il ricordo di Rebecca, inutilmente. Infatti, non solo è vittima dei continui boicottaggi della Signora Danvers ma lei stessa finisce per invocare il fantasma di Rebecca creando e ricreando una storia d’amore tra Maxim e la sua prima moglie che non è mai esistita. Il simbolo che evoca l’ombra di Rebecca è l’iniziale ricamata o impressa ovunque in quelle che furono le proprietà della donna. Nel romanzo, si tratta del ricordo di una R che Io nota in un libro di poesie che Rebecca un giorno regalò a Maxim e che quest’ultimo presta a Io a Montecarlo. Quando Maxim le ha già fatto la proposta di matrimonio, Io taglia la pagina dove compare la R di Rebecca e brucia i pezzetti di carta inchiostrati per poi consolarsi pensando, giusto dopo aver comunicato alla Signora Van Hopper le sue future nozze e dopo gli abominevoli commenti di quest’ultima nei suoi confronti: “A new confidence had been born in me when I burnt that page and scattered the fragments. The past would not exist for either of us, we were starting afresh, he and I. The past had blown away like the ashes in the waste paper basket. I was going to be Mrs. De Winter. I was going to live in Manderley”.
Nel film, a Manderley la presenza della R è ubiqua, e solo la sua completa scomparsa permetterà a Io di trovare pace. Tuttavia, non è solo la R a ricordare a Io la sua condizione di intrusa; le imponenti dimensioni della stanza di Rebecca, la vita che la Signora Danvers attribuisce a ogni oggetto appartenuto alla donna e perfino la smisurata passione che la governante ancora nutre per la sua padrona rendono l’assenza di Rebecca quasi tangibile convertendola in qualcosa di apparentemente superiore alle loro forze. La notte della confessione di Maxim, quando vengono scoperti la barca e il cadavere di Rebecca (non più solo la lettera iniziale di un nome ma un corpo), si trasforma così in una rivelazione narrativa e psicologica sia per Io che per noi (che ovviamente siamo sempre stati dalla sua parte). Fino a quel momento, Maxim non ha compiuto grandi sforzi per dissipare e scacciare i fantasmi che adombrano la vita di Io a Manderley semplicemente perché non è consapevole dei suoi sforzi e perché i suoi demoni – Rebecca – non sono le proiezioni di una mente fantasiosa ma ricordi di esperienze vissute.
Rispetto al romanzo, il luogo della confessione prescelto da Hitchcock è parte integrante di Manderley ma manca del glamour e dell’imponenza della biblioteca della dimora. La casetta sulla spiaggia è stata “l’antro della strega”, il luogo del peccato dove Rebecca era solita portare l’amante o gli amanti, quindi ha senso che sia anche il luogo dove Maxim confessa il suo peccato. Anche se nella pellicola l’uomo parla della morte di Rebecca come di un incidente, la sua confessione riguarda l’intenzione che aveva di ucciderla, da sola o con il suo amante di turno, Favell. La spiegazione relativa alle circostanze dell’“incidente” e il nostro comprenderle dipende, ovviamente, dalla confessione verbale di Maxim ma anche dal movimento della macchina da presa e da quello che ci fa vedere. Rebecca è già morta e il suo cadavere è nella barca affondata vicino alla spiaggia, ma la macchina da presa inquadra i luoghi di ogni movimento di Rebecca e di ogni oggetto presente durante lo scontro finale tra Maxim e quest’ultima. Le “rovine della memoria” di Maxim, presente ai fatti, sono rafforzate dall’obiettivo della macchina da presa: Maxim riproduce il dialogo finale tra lui e Rebecca mentre la macchina da presa assume un ruolo da testimone oculare non per forza corrispondente allo sguardo di Io ma al nostro decisamente sì. Come conseguenza il racconto di Maxim si sente in formato voce fuori campo che avvolge l’assenza/presenza di Rebecca.

La sequenza richiama quella a cui abbiamo assistito all’inizio del film. Gli evidenti chiaro-scuri che avvolgono la disperazione di Maxim, e il suo pentimento, si dissolvono temporaneamente ogni volta che Io interiorizza la frase che per lei è motivo di liberazione: Maxim non amava Rebecca. Quando scopre che Maxim ama lei e non la prima moglie, Io acquisisce consapevolezza e spirito di iniziativa su quello che fa. Fino all’istante della confessione, i gesti di Io non hanno una direzione precisa perché si muove in un territorio per lei quasi del tutto sconosciuto. Io assume il ruolo di confessore e “assolve” Maxim perché sa di poterlo fare: capisce che l’uomo è già stato punito. Manderley non è più l’epitome di una sofisticatezza irraggiungibile per Io bensì il luogo, ed entro certi limiti anche la causa, della sofferenza sua e di Maxim. Nella sua confessione, Maxim abiura i valori fondanti della sua gioventù e del periodo in cui è stato sposato con Rebecca. Questa ritrattazione sui generis lo trasforma in un uomo normale e comune, vulnerabile, un uomo che Io è in grado di capire e non solo ammirare da lontano. Secondo Tania Modleski: “the heroine, actively desiring the process by which all of Rebecca’s apparently positive attributes are proved to be worthless, can offer the male nothing more than a vacuous self. In the film’s fantasy, a woman’s fantasy par excellence, the hero highly prizes the woman’s insignificance” (Modleski, 1989, 50); la mia interpretazione non potrebbe essere più lontana dalla sua: il vero valore per Maxim non consiste nell’insignificanza di Io ma nell’integrità morale da lei posseduta che lui aveva perso con Rebecca, nella sua capacità di amare e nella sua capacità e volontà di perdonarlo. Malgrado la scoperta “illuminante”, il gioco di ombre che Hitchcock materializza sulla scena obbliga il pubblico a dare una propria interpretazione delle luci e della chiarezza morale e narrativa.

Rebecca (Hitchcock)

L’incendio e l’immolazione/il suicidio della Signora Danvers

Manderley finisce avvolta dalle fiamme sia nel romanzo che nel film, ma le cose non vanno esattamente nello stesso modo. Io ha assolto Maxim ma la Signora Danvers non lo ha fatto. Mentre Io aspetta pazientemente che Maxim e Frank rientrino dalla visita al medico di Rebecca a Londra, Favell chiama la Signora Danvers e le comunica che Rebecca si suicidò perché aveva il cancro. Per la Signora Danvers credere nell’esistenza di un responsabile della morte di Rebecca, che prima o poi sarebbe stato giudicato da un tribunale, significava poter assaporare una vendetta “legittima”. Viceversa se i rappresentati della legge accettano il fatto che la causa della morte della donna è dovuta a circostanze non dipendenti dalla volontà di Maxim, nessuno pagherà le colpe e quindi lei dovrà fare giustizia da sola. Potremmo essere indotti a pensare che la vendetta perfetta della Signora Danvers sarebbe uccidere Io, oltre che incendiare Manderley, in modo da punire Maxim togliendogli tutto. Ma la Signora Danvers è un’assoluta “interna” a Manderley e quindi agisce come tale. Distrugge quello che crede di possedere ed esemplifica valori assoluti ed eterni per Maxim ritenendo che l’esistenza fuori da Manderley per lui non possa significare alcunché. A differenza nostra non sa che Maxim ha rinnegato le sue antiche convinzioni, e che Manderley e tutto quello che rappresentava erano diventati il carcere della sua anima. Se ci avvaliamo di alcuni indizi disseminati da Hitchcock nel corso della pellicola, il fatto che decida di dare fuoco a Manderley e perire con essa è segno della liberazione definitiva di Io e Maxim.
Nel romanzo, Maxim e Io scoprono l’incendio di Manderley al ritorno in macchina da Londra. Nella pellicola, Maxim torna da Londra con il fido segretario mentre Io resta ad aspettare a Manderley. Questo cambio di situazione dei personaggi conferisce alla pellicola una tensione particolare perché il pubblico, per alcuni istanti, ignora dove si trovi Io: se è intrappolata tra le fiamme dell’incendio oppure no. Però, al di là di questo momentaneo episodio di suspense l’attenzione di focalizza sull’auto-immolazione della Signora Danvers e l’inevitabile sconcerto che genera nel pubblico. Quando Maxim giunge finalmente a Manderley e incontra Io, i due si abbracciano. Io chiede a Maxim di guardare verso la finestra della stanza di Rebecca e non li vediamo più. Osserviamo e vediamo quello che ipoteticamente stanno vedendo loro; però la macchina da presa ci trasporta (proprio come succede a Io nella sua visione onirica di Manderley all’inizio del film) verso il fuoco e la morte della Signora Danvers, e ci avviciniamo al finale: un primo piano della R avvolta dalle fiamme. L’espressione ultima sul volto della Signora Danvers può essere interpretata come di massima estasi e godimento, come quella di una martire che vede arrivare l’ora eterna. Può essere anche un’espressione che esprime la sua “follia d’amore”, il vedere finalmente soddisfatto il desiderio di unirsi per sempre a Rebecca; o la manifestazione del trionfo della sua vendetta. L’immagine finale ci mostra appunto le fiamme mentre avvolgono la stanza di Rebecca e la R ricamata proprio dalla Signora Danvers nella fodera della sua camicia da notte. L’ultima R, suprema metonimia visiva del fantasma del male, finalmente scompare e si tramuta in cenere. Se riflettiamo sul fatto che la R di Rebecca era anche impressa a fuoco nell’animo di Maxim, l’incendio finisce per rappresentare un esorcismo di quella prigione dell’anima in cui Maxim è rimasto intrappolato dal giorno della confessione di Rebecca sui suoi piani matrimoniali fino alla confessione da lui fatta a Io. Nel romanzo, Io brucia la R nel vano tentativo di liberarsi dai timori e dalla gelosia che nutre verso Rebecca molto prima di venire a sapere su Rebecca qualcosa di più rispetto ai commenti, sempre elogiativi, della Signora Van Hopper. Nella pellicola la R ardente ci lascia con una vittoria morale sia per Maxim che per Io. La legge degli “interni” muore definitivamente con l’incendio di Manderley e con l’immolazione della Signora Danvers.

Rebecca (du Maurier)Tra i ricordi di Io dei primi passi del romanzo si incontrano frasi che trasmettono una nostalgia per la vita che avrebbe potuto condurre a Manderley: “The house was a sepulcher, our fear and suffering lay buried in the ruins. There would be no resurrection. When I thought of Manderley in my waking hours I would not be bitter. I should think of it as it might have been, could I have lived there without fear”. Il finale dantesco di Hitchcock dà a noi spettatori la soddisfazione di intuire che i protagonisti potranno ricominciare una nuova vita lontano da Manderley, senza nostalgia alcuna. Per raggiungere questo risultato, Io, Maxim e, in definitiva, il pubblico hanno dovuto soffrire e superare la loro prova del fuoco.

Indubbiamente, la posizione etica di Hitchcock è diversa da quella di Daphne du Maurier; e non potrebbe essere altrimenti visto che il regista fa in modo, anche attraverso l’intervento di tutti gli elementi secondari citati in precedenza, che il romanzo sia aperto ad altre possibilità interpretative. Hitchcock è “fedele” al romanzo in tutta una serie di dettagli, personaggi, passaggi della storia, ma sottomette il testo a una visione profondamente distorta da valori morali e filmici concreti. La redenzione dei personaggi non deriva tanto dall’amore dei protagonisti quanto dall’innocenza, ignoranza e alienazione di Io. Ovviamente, Io deve scoprire la verità e continuare a essere fedele a Maxim ma senza diventare parte integrante del mondo di Manderley. Secondo Charles Taylor: “To know who you are is to be oriented in moral space, a space in which questions arise about what is good or bad, what is worth doing and what not, what has meaning and importance for you and what is trivial and secondary” (Taylor, 1989, 94). È questo principio di auto-conoscenza a prevalere nell’opera di Hitchcock per quanto riguarda i protagonisti. Penso che per Hitchcock Manderley, nel suo contesto sociale, sia uno degli ovvi sintomi dell’insidiosamente banale (come la statuetta di cupido) e quindi la pellicola cerca di comunicare qualcosa di diverso, costruire un significato con valori e speranze differenti da quelli della du Maurier per quanto riguarda ciò che vale davvero la pena per un essere umano. Le tensioni a cui ci sottopone non solo soddisfano l’ansia più o meno masochista dello spettatore dei film di suspense, ma sollevano (o possono sollevare) questioni che lo spettatore può risolvere solo nel suo foro interno. Stupisce che sia proprio la pellicola di Hitchcock, col suo “allontanarsi” dal romanzo della du Maurier, a caricare il peso di un cambio radicale nella struttura sociale e prevalentemente patriarcale sulle spalle di Io, l’esterna. Il mondo di Maxim è stato sconvolto da una donna, Rebecca, e il suo aprirsi a una vita migliore è causato da un’altra donna. Come osserva Modleski (1989, 3), le donne del cinema di Hitchcock resistono costantemente all’assimilazione patriarcale.

In quanto ai valori filmici, Hitchcock crea un linguaggio visivo in cui le ombre acquisiscono la stessa importanza dei personaggi. Questa profusione di ombre, assieme ai selezionati primi piani e alle sequenze non “raccordate”, rappresentano il suo modo personale di trasmettere profondità visiva e ideologica a Rebecca in quanto dramma di suspense. Malgrado il suo dichiarare categoricamente il contrario, Hitchcock crea una sua opera d’arte, una pellicola “Hitchcock”, nel senso che Rebecca è il risultato deliberato della sua mente e della sua abilità di regista. La pellicola è ben lungi dal riprendere quello che Daphne du Maurier scrisse perché cerca, raggiungendo appieno l’obiettivo, di andare oltre la superficialità. È dovere di chi guarda la pellicola e di chi legge il romanzo adottare lo stesso comportamento.

Bibliografia:
Derrida, Jacques (1990): Mémoires d’aveugle. L’autoportrait et autres ruines, Editions de la Réunion des musées nationaux, 106.
Du Maurier, Daphne (1977): Rebecca, Book Club Associates.
Eagleton, Terry (1996): The Illusions of Postmodernism, Blackwell.
Elliott, Kaemilla (2003): Rethinking The Novel/Film Debate, Berkeley, University of Cambridge Press.
Hayward, Susan (2000): Cinema Studies. The Key Concepts, London and New York, Routledge: 378-385.
Metz, Christian (1973): Lenguaje y cine, Barcelona, Planeta.
Modleski, Tania (1989): The Women Who Knew Too Much. Hitchcock and Feminist Theory, London, Routledge.
Oudart, Jean Pierre: Cinema and Suture, in The Symptom, online journal for Lacan.com http://www.lacan.com/symptom8_articles/oudart8.html
Serceau, Michel (1989): “Alfred Hitchcock: l’image à la rencontre”, CinémAction, No. 53, 120 F 4e trimestre-octobre, 139.
Taylor, Charles (1989): Sources of the Self, Cambridge, Cambridge University Press.
Truffaut, François (1984): Hitchcock, New York, Simon & Schuster.
– (1994): The Films in my Life, New York, De Cappo Press.

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