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Cinema

Vittorio Franceschi

Dal palcoscenico al grande schermo

Immagine articolo Fucine MuteVittorio Franceschi, autore, attore e regista teatrale, di passaggio a Trieste per promuovere la sua ultima fatica, in occasione dell’incontro “dal libro al film” voluto da Maremetraggio.

Corrado Premuda (CP): Vittorio Franceschi è il protagonista del film Scacco Pazzo per la regia di Alessandro Haber, ma lei è anche l’autore della pièce teatrale da cui è tratta la sceneggiatura del film. Come è nata l’idea di trasportare questo testo teatrale al cinema, un passaggio che di solito non è facilissimo?

Vittorio Franceschi (VF): Sì, non è facilissimo e in genere quando si decide di trasformare un testo teatrale in un film quest’ultimo viene interpretato da altri attori, diversi da quelli impegnati nello spettacolo teatrale. In questo caso invece il cast è rimasto lo stesso nel passaggio dal teatro al cinema. Lo spettacolo ebbe notevole successo in teatro e da subito Haber ha pensato di trasferirlo sullo schermo. Non è facile. Sono passati undici anni da quando abbiamo fatto lo spettacolo in teatro, finalmente ci siamo riusciti, abbiamo trovato il produttore e quindi l’idea di Haber di farne un film è diventata reale.. In effetti, era lui soprattutto che pensava al cinema… senz’altro più di me che invece ho sempre vissuto nel teatro. Quando c’è stato il produttore, l’idea di trasferirlo è diventata concreta e ho cominciato a lavorare sulla sceneggiatura: i dialoghi sono praticamente quelli della commedia, molto asciugati perché il cinema ha bisogno di meno parole e più immagini e Haber ha contribuito molto perché mi suggeriva i tagli, certi spostamenti, ecc… Abbiamo lavorato molto bene insieme e il film è nato così, direi quasi con facilità, senza grandi traumi, di quelli che si leggono a volte nelle biografie di registi e attori, fatti di litigi, scontri, e in fine il sudato accordo… Il nostro lavoro è nato abbastanza semplicemente e abbiamo proseguito con una collaborazione molto serena, in questo credo aiutati dal fatto che avevamo portato il testo in teatro per tanto tempo e, anche se sono passati undici anni dal momento in cui abbiamo smesso di recitarlo sulle scene a quando abbiamo girato il film, appena ci siamo trovati sul set sembrava di aver interrotto le repliche il giorno prima. Non erano passati undici anni, erano passati due giorni, insomma, il tempo di bere un caffè. Poi invece undici anni erano passati e noi, sia Haber che io che Monica Scattini (l’altra interprete del film, ndr), ci siamo portati dentro i nostri personaggi che ci hanno accompagnato in questi dieci anni e io credo che siano cresciuti con noi perché ognuno di noi cresce, l’esperienza ti fa maturare e aggiunge delle cose al tuo bagaglio espressivo e quindi, quando poi li abbiamo ritirati fuori dal nostro cunicolo, sono usciti, io credo, arricchiti rispetto a com’erano tanti anni prima.

CP: Quindi il suo giudizio su Haber regista, mi sembra di capire, è positivo in questo suo ruolo nuovo?

VF: Molto positivo. Chi conosce Haber solo attraverso qualche film o per averlo ascoltato in qualche intervista o in qualche incontro, si può fare un’idea sbagliata di lui, nel senso che sembra uno un po’ arruffone, un po’ pazzoide, un po’ esagitato… lo è! Ma sul lavoro, no. Sul lavoro è una persona molto seria, molto meticolosa e con una sensibilità speciale. Devo dire che lui ha lavorato con me e con Monica dedicandoci attenzioni che non ha dedicato nemmeno a se stesso. In questo senso è stato molto generoso come regista e io credo che se incontra la storia giusta, la sceneggiatura giusta possa fare altre cose belle nel cinema. Ha bisogno, secondo me, di avere dei collaboratori che credano in lui, che abbiano fiducia in lui, che sopportino anche certe sue esuberanze. Se trovasse questo clima, credo che Sandro potrebbe dare ancora molto al cinema italiano, sia come attore che come regista.

Immagine articolo Fucine Mute

CP: Lei è un attore principalmente teatrale, però è anche un autore e in questi giorni è in teatro con una delle opere italiane più interessanti, più complesse: Questa sera si recita a soggetto di Pirandello. Io tra l’altro ho avuto occasione di vederla l’altra settimana, e la sua interpretazione, personalmente, è stata strepitosa, veramente molto carismatica. Vorrei chiederle, da un autore come Pirandello, essendo anche lei autore oltre che attore, cosa le piacerebbe rubare, cosa le piacerebbe riuscire a succhiare dell’arte di Pirandello, cosa in particolare la colpisce dello scrivere teatro di Pirandello?

VF: Mah, una cosa particolare che ha Pirandello è la razionalità, il riuscire sempre a contenere dentro uno schema razionale anche il flusso dei sentimenti, questo è molto difficile perché a volte i sentimenti prendono il sopravvento, o comunque il temperamento, la storia, con i suoi intrecci, prendono il sopravvento sull’idea e sullo scopo che si vuole ottenere raccontando quella storia. Ecco, Pirandello il suo scopo lo sa sempre con grande chiarezza, anche nei suoi testi meno riusciti, perché anche lui come Shakespeare, come i grandi, qualche volta scrive capolavori, qualche volta scrive opere meno riuscite però sempre controllate, comandate da una intelligenza acutissima… quasi, quasi, come una punta d’acciaio. Ecco, questo è raro e magari ce l’avessi anch’io!

CP: Parlando di registi, in questo spettacolo di Pirandello lei è diretto da Massimo Castri che è considerato uno dei registi italiani della scena attuale più interessanti e senz’altro più importanti. Com’è lavorare con Castri?

VF: Bellissimo. Castri è un maestro, veramente. Ha qualcosa di pirandelliano nella sua intelligenza, è un uomo di un’intelligenza spaventosa, di grande cultura. Io, l’altro anno, ho fatto un altro spettacolo con lui che era John Gabriel Bortman di Ibsen, quindi ho avuto modo di lavorare su due testi completamente diversi, molto lontani per quello che raccontano, per la loro storia e devo dire, entrambe le volte, ho avuto l’impressione di avere incontrato un regista che mi stava dando delle cose che finora non avevo ricevuto in teatro. Perché tanto spesso noi attori dobbiamo togliere le castagne dal fuoco ai registi. Poi, ogni tanto, incontri dei registi che ti danno un grande contributo di sensibilità, di intelligenza per andare a indagare nella natura dei personaggi che devi rappresentare e ho avuto la fortuna di incontrarne tanti, da Besson a Vaida, che è un regista cinematografico principalmente, ma proprio qui a Trieste ho avuto l’occasione di lavorare con lui perché facemmo L’affare Danton che è un testo di Stanislawa Przybyszewska, nome difficile da dire ma l’ho imparato bene, dove recitavo il ruolo di Robespierre. Uno spettacolo che ebbe molto successo e la regia era di Vaida, per esempio. Lui non restò per tutto il tempo, restò per un breve periodo, poi ci lasciò in mano ad un suo assistente, poi tornò, quindi non fu neanche un rapporto completo, però un rapporto molto bello perché sono quelle persone che ti dicono due frasi e ti hanno risolto il personaggio, senza il bisogno di tanti discorsi. Ecco, è un po’ il modo di lavorare di Besson, di Vaida, di Luca Ronconi, col quale ho fatto degli spettacoli, col quale c’è un rapporto di amicizia e di stima reciproca. Adesso si è aggiunto a questi pochi che ho conosciuto e che mi hanno dato veramente l’impronta del maestro anche Castri e anche da lui ho avuto questo dono e credo che così come lavora lui con gli attori, pochi al mondo sappiano farlo.

Immagine articolo Fucine Mute

CP: Ho ancora un’ultima domanda: in marzo, quindi fra un mese, debutta a Bologna con un nuovo testo teatrale. Ci può raccontare qualcosa su questa nuova esperienza teatrale?

VF: Sì, il testo si intitola Dialogo col sepolto vivo. È un testo che ho scritto, mi pare, nove anni fa, e che finalmente riesco a mettere in scena. È un monologo, ma in scena ci saranno anche tre musicisti con i quali in qualche modo mi rapporto e dialogo, io con le parole e loro con la musica. È una specie di bilancio di una vita, che assomiglia molto alla mia. È la storia di un uomo che scava in un mucchio di macerie perché c’è stato un crollo e sotto è rimasto suo fratello gemello… a proposito del discorso che facevo prima sul sepolto vivo, sull’altro noi stessi, sull’altro me stesso. E intanto che scava, parla con questo fratello per tenerlo sveglio, per rapportarsi a lui e parla anche con i musicisti che commentano musicalmente quello che sta accadendo e, a mano a mano, scava, scava, scava e alla fine resta solo una pietra sotto la quale si sente strisciare. Non c’è nessun fratello sepolto, lui parla con se stesso. Questo è il monologo.

SCACCO PAZZO



Regia: Alessandro Haber
Soggetto tratto dalla commedia teatrale di Vittorio Franceschi
Sceneggiatura di Vittorio Franceschi con la collaborazione di A. Haber
Interpreti: Alessandro Haber, Vittorio Franceschi e Monica Scattini
Direttore della Fotografia: Italo Petriccione a.i.c.
Musica originale: Giuseppe Fulcheri
Scenografia: Renato Lori
Montaggio: Osvaldo Bargero


Undici anni fa, proprio il giorno delle nozze, Antonio ha perso la fidanzata in un incidente d’auto. Alla guida c’era il fratello Valerio, che la stava accompagnando in chiesa per la cerimonia. Per l’emozione e il dolore Antonio ha una regressione infantile e da quel momento costringe il fratello, che pur professandosi innocente si porta dentro un oscuro senso di colpa, a travestirsi da padre, da madre e fidanzata (con tanto di abito nuziale) in un gioco crudele del quale Valerio è vittima mentre Antonio riscopre in quel modo il linguaggio, la fantasia, la tenerezza e il bisogno d’amore e con essi anche la crudeltà inconsapevole dell’infanzia.

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