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Cinema

Alina Marazzi

Un’ora sola ti vorrei

Amore non ti lascerò desiderare nulla
perché tutto,
tutto quello che ti potrò dare,
non te lo darò nemmeno:
sarà tuo subito.

– Liseli Hoepli –

Alina MarazziTiziana Carpinelli: Alina Marazzi, esordiente — ma già acclamata — regista, autrice del toccante film-documentario Un’ora sola ti vorrei.
Allora, Alina, vorrei innanzitutto chiederti: Un’ora sola ti vorrei nasce, come tu stessa hai affermato, dall’esigenza principalmente soggettiva di mettere in fila le immagini di tua madre per raccontarla a te stessa e contestualizzare la tua vita. Qual è stata la molla ulteriore che ti ha spinto ad esternare al pubblico la tua storia?

Alina Marazzi: Ho cominciato a guardare questi vecchi filmati di famiglia a distanza di trent’anni dalla morte di mia madre, perché ad un certo punto della mia vita avevo voglia di vedere queste immagini, cosa che non avevo veramente mai fatto durante la mia infanzia. Perciò ho incominciato a proiettarli e a guardarli a lungo: è una cosa che ho fatto nell’arco di qualche anno — per 4 o 5 anni — e, mentre osservavo questi filmati, contemporaneamente ritrovavo le immagini di mia madre e di tutta la sua vita, dalla nascita fino alla vita adulta, attraverso l’infanzia e l’adolescenza; guardavo queste immagini e in realtà vedevo anche tutte le altre immagini che fanno parte della memoria della mia famiglia. Quindi, dapprima, c’è stata una fase di “familiarizzazione” con questi filmati.

Non era chiaro che io sarei andata a fare un film, anzi, non era per niente chiaro. Ad un certo punto, però, ho voluto trasferirli su video da 16 mm e ho chiesto ad un’amica montatrice (con la quale avevo già lavorato) di montarli e di fare una selezione per avere un filmato che durasse meno delle venti ore che avevo visionato io ad uso personale.
È stata la prima volta in cui io ho guardato queste immagini assieme ad una persona estranea — la montatrice appunto — che si chiama Ilaria Fraioli e che ha montato, in seguito, anche il film.
E per la prima volta, vedendo queste immagini con lei, queste immagini hanno assunto anche un altro significato: e cioè, mentre montavamo e cercavamo di dare un senso a quella cronologia, capivamo che quelle immagini avevano un potenziale — anche prettamente emotivo — che andava al di là della mia storia personale; così ci siam messe al lavoro in maniera piuttosto libera, sempre senza avere l’intenzione di fare un vero film per il pubblico, e abbiamo cominciato a montare delle sequenze in maniera abbastanza poetica, accostando della musica e basta.
Alla fine di questa prima fase avevamo montato circa quaranta minuti e questi quaranta minuti, in qualche modo, ci hanno fatto capire che poteva essere l’inizio di un film; ovviamente si trattava sempre di un film pensato per me o per la mia famiglia.
Così, dopo qualche mese, mi sono rimessa al lavoro e nel frattempo ho cercato di capire se avrei potuto trovare sostegno, in termini di mezzi, economico.

Immagine articolo Fucine Mute

Ho avuto la possibilità di utilizzare per due mesi una sala di montaggio che mi è stata messa a disposizione dalla Sacher di Roma, la casa di produzione di Nanni Moretti e di Angelo Barbagallo. E così per due mesi ci siamo chiuse nuovamente nel buio della sala di montaggio, abbiamo ripreso in mano il vecchio montato e in quella fase io ho consultato anche i testi, i diari e le lettere di mia madre ch’erano stati, anch’essi, conservati; per cui ho cominciato a lavorare su una selezione di brani in prima persona (cioè con le parole di mia madre) che potessero essere accostati alle sue immagini e che potessero dare un senso più intelligibile a chi sarebbe andato a vedere questo filmato.

Alla fine di questi due mesi il film aveva assunto una forma ch’era molto vicina a quella della versione definitiva e, man mano che lavoravamo a questo montaggio, io andavo, in qualche modo, alla ricerca di altre notizie e di altri materiali; per esempio: sono andata a cercare le cartelle cliniche negli ospedali in cui mia madre era stata ricoverata, ho recuperato delle fotografie che poi ho accluso nel film, ho girato io stessa delle immagini che sono appunto le immagini delle carte, dei diari e delle cartelle cliniche originali e in più anche altre immagini che ho filmato io seguendo un principio di libera associazione visiva di idee, per cui ho girato delle immagini di alberi e di farfalle che poi ho incluso nel film.
Per tutti questi motivi, si è trattato di un lavoro direi quasi “da detective”, come se, mentre stavo lavorando a quel filmato, stessi in realtà facendo un’indagine: un’indagine sulle cose accadute, su quello che era successo, ma soprattutto credo che, alla fine, si sia rivelato un processo di conoscenza di quella persona che avevo conosciuto ben poco.
E man mano che lavoravamo, ogni tanto facevamo vedere il nostro lavoro a qualche amico e collega e devo dire che ci hanno sempre tutti molto incoraggiato ad andare avanti; vedevo che le persone rimanevano colpite dall’intensità della bellezza delle immagini e anche dalla profondità delle parole. E perciò, in maniera direi sempre così inconsapevole, abbiamo continuato a lavorare a questo nostro film: non avrei mai immaginato che in seguito sarebbe diventato un film da festival o che sarebbe addirittura stato proiettato in televisione.
Il film ha così assunto una sua identità e da un certo punto in poi è diventato una cosa che non era più “mia” e poi lo è diventato in maniera totale quando ha effettivamente iniziato a circolare e ad essere proiettato pubblicamente.

TC: E in effetti Un’ora sola ti vorrei è un documentario che rompe tutte le regole di questo tipo di produzione. Io volevo chiederti: come ti è venuta l’idea di ricorrere all’espediente narrativo della lettera fittizia per esprimere il dialogo mancato tra tua madre e i tuoi nonni e a quello di prestarle la tua voce facendo in modo che la vicenda si dispieghi attraverso un racconto in prima persona?

Immagine articolo Fucine MuteAM: Io avevo a disposizione le lettere e i diari e comunque dei testi intimi e, man mano che sceglievo i brani da accostare alle sequenze di immagini montate, capivo che per certi passaggi c’era invece bisogno di scrivere un testo che desse alcune informazioni o se non altro spiegasse chi fossero le persone che si vedevano sullo schermo e di fare alcuni raccordi di tipo narrativo. Ho fatto diversi tentativi di scrittura, ho anche provato, ad un certo punto, a scrivere l’inizio del film ponendo in primo piano la mia persona, cioè come se fossi io a parlare effettuando una sorta di presentazione in cui dicevo pressappoco così: “Ecco, io sono Alina, adesso vi racconto la storia di mia madre… ”; ma in qualche modo questo inizio non funzionava, mi sembrava che le parole di mia madre fossero sempre e comunque più vere, più intense e che dovevo lasciare proprio tutto lo spazio ad esse e quindi mi sono inventata all’inizio del film questa lettera, questo ipotetico messaggio che mia madre scrive a me oggi. È un pretesto per dare voce alle sue parole e ai diari. Ed è proprio come dici tu, facendo questo film io ho rimesso in atto un dialogo che nella vita è mancato, il dialogo tra me e mia madre, e per cui mi sembrava bello che fosse lei oggi a chiamare me e ad entrare direttamente in questo dialogo e quindi ho scritto la lettera come se la scrivesse lei. Poi, mentre montavamo, io registravo la mia voce in sala di montaggio, perché era più semplice farlo così, e ho capito in seguito che doveva essere proprio la mia voce a narrare la storia e che non poteva essere la voce di nessun altro: infatti, alla fine, ero comunque io che decidevo di mettere in scena il suo volto, le sue parole e perciò dovevo essere anche io a leggerle. Non avrebbe potuto essere un’altra persona.

TC: Hai preso Liseli per mano da quand’aveva dodici anni fino a trentatré: le hai ridato luce, libertà e affermazione ma, soprattutto, le hai reso la dimensione che le spettava e che le era stata sottratta all’epoca. È come se — così io l’ho letta — in quest’azione rivestissi tu il ruolo di madre e l’abbracciassi con una sensibilità e una maternità dettata dalla visione dei fatti nel frattempo avvenuti. Il tuo occhio contemporaneo ha consentito di scoperchiare quella che era la normalità di un tempo: nascondere le persone che soffrivano di mali terribilmente attuali, quali appunto la depressione. Cosa ti ha lasciato dentro questo processo di identificazione?

AM: Sì, infatti io mi sono accostata a questo lavoro in un modo — chiamiamolo così — “da donna adulta”. Avevo già più di trent’anni ed ero comunque più “grande” di mia madre: lei è morta quando aveva trentatré anni e io ho cominciato questo lavoro quando ne avevo già trentaquattro o trentacinque, per cui ad un certo punto è successa proprio questa inversione di ruoli; cioè se inizialmente era come se ci fosse stata una parte di Alina bambina che andava alla ricerca della mamma perduta, seguendo un impulso di tipo affettivo, vedendo poi le immagini di lei bambina, ascoltando le sue parole, di lei piccola, io ho capito che, in qualche modo, proprio in quel momento mi stavo prendendo cura io di lei, per cui mi è venuto fuori un senso di protezione, proprio così, anche quasi materno, nei confronti di mia mamma “piccola”, e questo forse mi ha dato anche quella giusta “distanza”, e la domanda che mi facevo non era più perché è successo, perché lei non c’è più, eccetera, ma era chi era questa persona; e quindi, nel corso del lavoro, anche il mio atteggiamento è cambiato.

Immagine articolo Fucine Mute

Fino alla fine, il film racconta la storia di una donna caduta in depressione che non è riuscita ad uscirne fuori e, purtroppo, devo dire che mi sono pervenuti tantissimi commenti, mi sono arrivate tantissime lettere di gente che si è identificata con questa vicenda e devo dire che oggi le cose non sono molto cambiate, per cui anche ai giorni nostri permane un pregiudizio, una ignoranza, una incapacità ad accogliere e riconoscere questa malattia come tale e per me è stato un grandissimo processo di riconciliazione con la sua perdita, ma anche appunto di comprensione di quella che è stata la sua vicenda e di lei come donna, interamente, non solo come madre.

TC: Anche la colonna sonora del tuo film risulta particolarmente intensa e lirica: emerge dai tuoi ricordi personali o è frutto anch’essa di un recupero tra i cimeli di famiglia? La ricerca delle sonorità, inoltre, si è sviluppata parallelamente al montaggio delle immagini?

AM: Dunque, la scelta delle musiche è stata fatta in fase di montaggio, assieme alla montatrice abbiamo scelto delle basi, anche se, devo dire, sono quasi tutte musiche che vengono da me. A volte c’è una sorta di — come definirla? — “sincronicità cronologica”, vale a dire che corrispondono più o meno all’epoca, e sono musiche che sentivo avere un significato per me e per ciò stavano bene lì dentro; in particolare, c’è una musica classica che è un tema che ricorre più volte: è la Sinfonia numero 3 di Henryk Górecki, che è una delle prime musiche che io ho accostato a quelle immagini e che poi è rimasta, oppure, un altro esempio, Janis Joplin che canta Summertime; quella musica è usata come se fosse un repertorio sonoro perché, anche se è sovrapposta a delle immagini che sono precedenti, cioè le immagini di mia madre sulle quali poi ho montato Janis Joplin si riferiscono ancora alla fine degli anni ’50, è come se quella musica anticipasse quel senso, così, di rabbia e di necessaria ribellione che poi sarebbe accaduta più avanti.
E per quanto riguarda gli altri suoni, avevo trovato delle bobine audio con alcune voci registrate di mia madre, dei miei familiari, nonché un disco 45 giri in cui ci sono le voci di mia madre e di mio padre che è quello che ho usato all’inizio e che poi dà anche il titolo al film, perché in quel disco mia madre comincia a cantare la canzone Un’ora sola ti vorrei.
Insieme a tutti i repertori di fotografie, materiale cartaceo, ho avuto anche la fortuna di aver ritrovato dei repertori sonori e tutta la fase di costruzione dei suoni è stata fatta subito dopo il montaggio visivo da un montatore del suono che si chiama Benni Atria e che ha interpretato esattamente quello che io desideravo fare, cioè dare un corpo, uno spessore, una stratificazione, a quelle immagini che, tra l’altro, sono tutte molto eterogenee, a colori, in bianco e nero, poiché sono di diversi periodi storici.

Immagine articolo Fucine Mute

TC: Un’ora sola ti vorrei ha ricevuto moltissimi riconoscimenti, per citarne alcuni, al Festival di Locarno, al Torino Film Festival e al Festival dei Popoli di Firenze; è stato un successo che ti ha colto di sorpresa? E se sì, come ha cambiato oggi il tuo presente?

AM: Sì, mi ha colto di sorpresa perché nonostante io alla fine del film fossi sicura dell’opera che ero andata a fare, cioè, come dire, mi sembrava che avesse un suo corpo, una sua identità, non pensavo che sarebbe stato apprezzato; proprio per la sua natura così intimista e personale, non pensavo sarebbe stato apprezzato dal pubblico in generale… Tra l’altro poi è stato mostrato in molti festival all’estero, per cui è stato visto e tradotto in lingue diverse, è stato proiettato non alla mia presenza, è stato trasmesso alla televisione ed è stato visto proprio come vengono visti i film normalmente, vale a dire senza nessun tipo di presentazione.
Per cui, sì, mi ha molto sorpreso e mi ha molto, molto commosso; ho ricevuto tantissime lettere e telefonate di spettatori che vorrebbero rivederlo e numerosi spettatori hanno scritto i loro commenti, e hanno scritto il perché si sono identificati, si sono sentiti toccati da questo film.

E come cambia il mio presente? Diciamo che questo film mi ha insegnato tantissimo, mi ha arricchito molto umanamente e personalmente, ma anche da punto dal vista professionale, cioè facendo questo film io ho imparato molto su come si fa a raccontare una storia e poi sono arrivate anche delle proposte di lavoro. Non lo so, adesso, che cosa farò… Intanto ho fatto una bambina (ride, ndr) che mi tiene abbastanza occupata! E ciò non mi dà il tempo di pensare a cosa fare o a quale film farò poi, perché, ovviamente non è cosa semplice, dopo aver fatto un film del genere; però è come un ripartire da zero, sicuramente è un momento fondativo anche nella mia vita e sicuramente da un punto di vista professionale e speriamo di mantenere quella poetica che mi sembra di avere acquisito.

TC: Quindi abbandonerai il documentario per diventare regista di storie per il grande schermo? So che hai già collaborato con Giuseppe Piccioni, Piergiorgio Gay e Giuseppe Bertolucci in qualità di aiutoregista…

AM: Devo dirti che non lo so. Per ora sto pensando ancora ad un documentario e vedremo… Non escludo né l’uno né l’altro. Non penso che adesso io debba per forza fare un film, come molte persone hanno detto. Non lo so.

TC: Leggendo la tua filmografia ho visto che emerge una significativa ed importante attenzione per il sociale. Cito L’America le l’immaginavo, Il declino di Milano, Mediterraneo, Il mare industrializzato e Ragazzi dentro. C’è qualche aspetto contemporaneo o passato che ti interesserebbe trasportare su pellicola?

AM: È vero che i documentari e i lavori che ho fatto prima erano molto incentrati sul sociale e che mi interessa tutto quello che trasmette una esperienza… So che è una risposta molto generica. Forse in questo momento mi interessa concentrarmi di più su quello che è l’universo femminile oggi, per cui penso che ripartirò da là.

Per la capacità non comune con cui l’autrice coniuga le emozioni della propria vicenda familiare con una costruzione narrativa al tempo stesso lucida e appassionata” (premio giovani Miglior Documentario italiano, 20° Torino Film Festivalcinema, novembre2002).
Per un uso poetico ed evocativo del materiale della memoria, intimistico e letterario” (Menzione speciale al 43° Festival dei Popoli di Firenze, Concorso documentari italiani).
“Per la forza emotiva con cui ci rende intimamente partecipi del dramma esistenziale di una giovane donna. Per la creatività e il rigore nella narrazione, nel montaggio e nel suono” (Menzione speciale al 7° Maremma Doc Festival Pitigliano, dicembre 2002).


Tutti premi meritati. Ovunque il film è apparso ha riscosso ampio successo di pubblico e critica.
Eppure chiunque abbia assistito alla proiezione di Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi, sa che i 55 minuti di emozioni che quest’esordiente regista ha regalato ai suoi spettatori sfuggono a qualsiasi riconoscimento ufficiale; e questo perché si tratta di una storia vera, intima, drammatica: la storia della sua famiglia.
Un racconto che, seppur personale, trascende il vissuto soggettivo e apre una dimensione universale nella quale chiunque si può rispecchiare: la dimensione nostalgica del ricordo che fa riaffiorare davanti agli occhi le persone care irrimediabilmente perdute.
«Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato», ha scritto Tennyson, ma forse noi siamo anche tutto ciò che non abbiamo incontrato o che non abbiamo avuto.
Un’ora sola ti vorrei è il frutto di questa mancanza. L’assenza di una parte del suo passato ha spinto Alina Marazzi a ricucire assieme tutti i filmini amatoriali girati dal nonno, filmmaker dilettante, e a tessere una narrazione ricca di poesia e umanità.
La regista è nipote di Ulrico Hoepli, famoso editore recentemente scomparso cui Milano ha dedicato una piazzetta nei pressi dell’omonima libreria.
Sua madre, Liseli Hoepli in Marazzi, si è suicidata a trentatré anni, gettandosi dalla finestra, in seguito ad una acuta sindrome depressiva. Alina ha sette anni quando ciò accade.


Un’ora sola ti vorrei è un collage eterogeneo di lettere, nastri e soprattutto filmini, ritrovati sepolti tra i cimeli di famiglia e dimenticati in polverosi scatoloni al sesto piano del palazzo degli Hoepli, a due passi da Piazza del Duomo.
Sono pezzi di vite che si mescolano e si assemblano come i tasselli di un puzzle temporale che si dipana tra gli anni ’20 e gli anni ’70, esistenze che si celano tra il bianco e il nero delle pellicole, frammenti di amori e dolori che sfumano nelle opache immagini di spezzoni color seppia.
Un attimo e Liseli compare sullo schermo: la vediamo scostarsi i lunghi capelli biondi dalla fronte, ti lancia un fugace sorriso e s’invola con tutto il suo turbinio di fresca adolescente baciata dalla vita.
Ma subito questo lampo lascia spazio ad un altro fotogramma, ed è ora un’ombra ad apparire, un impalpabile velo di tristezza inconsapevole, presagio di un tragico destino: quello di una donna benestante, madre di due figli, che non riesce a trovare la sua dimensione nella ragnatela sociale che la vita le ha assegnato.
L’influsso del disagio si stende sulle parole del diario di Liseli, lette con la voce di Alina, e acuisce il contrasto con le ridenti immagini patinate dell’alta borghesia lombarda; e lo spettatore intuisce che qualcosa si frantuma in lei e le serra la gola: il dolore scende a dondolarsi sul suo cuore.


Alina Marazzi abbatte con fermezza ogni regola del documentario per creare un’opera originalissima e delicata: cinquantacinque minuti di emozioni autentiche. Il risultato è un intreccio non comune che si fonde con una colonna sonora altrettanto lirica; la regia risulta perfetta e il montaggio assolutamente geniale. Un’opera di rara e sconvolgente intensità che lascia dietro di sé, il rimpianto di un’ora scivolata troppo velocemente.

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